La cronaca letteraria delle origini è stata ripetutamente e
tragicamente sconvolta, non solo da cataclismi naturali, ma da parte degli stessi
uomini. Che vogliamo ammetterlo o non, molte delle pagine di storia mancanti
sono state deliberatamente distrutte. Riferiremo di alcune delle più infami
devastazioni di grandi biblioteche, collezioni di libri e archivi di
documentazione, avvenute nei tempi antichi e in quelli moderni.
La Girginakku o Grande Biblioteca di Ashurbanipal, che conteneva oltre mezzo milione di tavolette scritte in caratteri cuneiformi, fu razziata durante l’assedio di Niniveh da una coalizione di Babilonesi, Sciti e Medi, nel 612 a.C. I documenti della Biblioteca erano stati raccolti dai templi–ziggurat di Nippur, Akkad e Babylonia e includeva storie sconosciute, osservazioni scientifiche e astronomiche, così come opere religiose e letterarie degli antichi Sumeri, antiche di migliaia d’anni. Circa 30000 di quelle tavolette furono poi scoperte e tradotte da scavatori europei nei sec. XIX e XX, ma la stragrande maggioranza fu ridotta in polvere.
Quando Cambise invase l’Egitto nel 525
a.C., ordinò alle truppe persiane di
fare razzia e distruggere tutte le biblioteche dei templi lungo il Nilo,
per “assimilare” quella terra come una satrapia del suo impero. Gli antichi
papiri del Vecchio Regno, accumulati nel tempio di Ptah a Menfi, gli annali
reali di Karnak e Luxor, i preziosi rotoli del Ramesseum, di Medinet Habu, Edfu
e Philae, tutti furono gettati nelle fiamme. Secondo il siriano Giamblico,
il solo Ramesseum, che si trovava sulla sponda occidentale del
Nilo, di fronte a Tebe, conteneva oltre 20.000 manoscritti di epoca antica e di
valore incalcolabile. Solo venti di essi sono sopravvissuti, nascosti in una
tomba, all’interno del santuario.
Ad
Atene, la celebre collezione libraria di Pisistrato Pisandro, che aveva sede nel Lyceum dell’Acropoli,
conteneva le opere di migliaia dei più famosi pensatori, scienziati,
matematici, letterati, scrittori di pezzi teatrali e visionari politici
dell’antica Grecia.
Essa soffrì ripetuti saccheggi e distruzioni, a
partire dal 480 a.C. con l’invasione dei Persiani di Serse. Benché la
città riconquistasse la propria libertà, lungo i sec. V e IV a.C. le opere dei
filosofi “eretici” erano bruciate periodicamente nell’Agorà.
Nel 86
a.C., il romano Silla portò via grandi parti della collezione ateniese,
sotto forma di “tributo”.
Nel 260
d.C. Atene fu saccheggiata dai Goti, che castigarono i Greci per aver
trascurato le arti della guerra e aver letto troppo.
La
piccola parte di libri rimasti fu decimata dall’Imperatore bizantino
Giustiniano, che decretò l’anatema contro tutte “le ricerche filosofiche in
contrasto con la dottrina cristiana”.
Senza
dubbio il centro culturale più famoso del mondo classico fu la Biblioteca
d’Alessandria. I suoi enormi archivi erano divisi e ospitati in differenti
parti della città, e i luoghi più rilevanti erano il Tempio delle Muse e il
Serapeum. Essa fu fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C. e, al culmine dei
suoi 500 anni d’esistenza, la collezione dei suoi testi contava oltre 500.000
rotoli, con un indice di 20.000 autori. Poiché la città si trovava al crocevia
di traffici fiorenti tra l’Occidente e l’Oriente, la collezione raccoglieva
testi provenienti non solo dall’Egitto, da Roma e dalla Grecia, ma anche da
Babilonia, dall’India, dalla Persia e persino dalla Cina.
Nel corso del tempo, tuttavia, varie sezioni
della Biblioteca subirono diverse distruzioni, sino a che poco rimase.
Il primo
disastro avvenne nel 48 a.C., quando Giulio Cesare incendiò la flotta nemica
nel porto della città, e il fuoco si diffuse agli edifici circostanti,
distruggendo un terzo della Biblioteca.
Per
conquistare i favori di Cleopatra, Marco Antonio saccheggiò la Biblioteca di
Pergamo, Asia Minore, che conteneva 200.000 volumi, e li portò ad
Alessandria per ricostituire il fondo bibliotecario.
Nel 213
d.C. l’imperatore Caracalla attaccò la città, che si era ribellata, e poi
ancora nel 273 parziale rovina da parte di Aureliano
e nel Alessandria subì una 296 Diocleziano
assediò il porto e ne bruciò diversi quartieri. In ciascun evento, gli archivi
subivano lenti ma drammatici salassi e distruzioni.
Il colpo
finale intervenne nel 391, quando il vescovo locale, Teofilo, lanciò una
crociata contro il Serapeum e lo distrusse, pretendendo che vi si
svolgessero azioni di stregoneria e magia nera. Nella sua ignoranza, la folla bruciò rare edizioni del canone biblico.
Quando i
musulmani invasero l’Egitto nel 640, i
rimanenti volumi (poche centinaia) furono distrutti. Dopo che un esercito
di traduttori arabi li aveva riprodotti, come poteva, per portarne le copie a
Baghdad, gli ultimi rotoli originali furono bruciati per riscaldare le terme
d’Alessandria.
Nel 330
a.C., Alessandro Magno distrusse totalmente la città di Persepolis, già
capitale del grande Impero Persiano. Nel Palazzo di Dario e di Serse c’era un
gruppo di sale chiamato “la Fortezza
delle Scritture”. I conquistatori greci raccontarono che quella parte della
biblioteca consisteva di 200.000 righe scritte in caratteri d’oro su 5200
pagine fatte di pelli bovine. Le ricerche archeologiche hanno messo in luce
l’esistenza d’uno strato di circa 60 cm di terra bruciata, tutto ciò che è
rimasto dei sigilli delle migliaia di rotoli ridotti in cenere e soffiati via
dal vento dei secoli. Così si persero gli originali delle opere degli
Zoroastriani, incluso lo Zoromaster, considerato come il Libro dei Libri.
I Romani, nonostante le loro pretese di
preservare le arti e le lettere dei loro predecessori greci, mostrarono una
speciale intolleranza per la parola scritta, durante le loro conquiste
attraverso il Mediterraneo, l’Europa e il Medio Oriente.
Nel 181
a.C., quando si scoprì a Roma la biblioteca sepolta del re Numa, essa fu
prontamente bruciata perché conteneva libri di filosofia.
Nel 146
a.C. i Romani distrussero totalmente Cartagine in un olocausto durato
diciassette giorni, e ridussero in cenere anche la sua ampia collezione di
libri (mezzo milione di volumi).
Un incendio, scoppiato a Roma nell’83 a.C., distrusse le ultime 2000 opere originali
degli Oracoli Sibillini.
Qualche
decennio dopo, Giulio Cesare ordinò la distruzione delle biblioteche dei Druidi
celtici attraverso tutta la Gallia, che si ritiene comprendessero 100.000 rotoli di pergamena.
Nel 12
a.C. Augusto ordinò di bruciare pubblicamente nel Foro oltre 2000 opere
“superstiziose”.
Nell’anno
57 la grande biblioteca di Efeso fu trasformata in un rogo funereo dai
primi cristiani, diretti dall’apostolo Paolo.
Nel 64,
l’incendio di Roma sotto Nerone distrusse grandi archivi di manoscritti privati,
provenienti da ogni parte dell’Impero.
Tra il
188 ed il 191, diversi attacchi clandestini istigati dai cristiani furono
sferrati ai santuari e ai ripostigli pagani di Roma, e tra questi si include l’incendio della biblioteca del Tempio di
Giove.
Nel
303, per reazione, Diocleziano ordinò di raccogliere e distruggere tutti gli scritti dei cristiani e degli ebrei.
Sessant’anni dopo l’imperatore Gioviano razziò la grande Biblioteca di Antiochia, e
nel 371 Valeriano spinse gli abitanti
della città a dare alle fiamme tutti i rimanenti libri non cristiani.
Infine,
nel 546, gli Ostrogoti saccheggiarono Roma e ciò che era rimasto degli
scritti, sia classici sia cristiani, fu
perduto per sempre.
Nell’Europa medievale la repressione brutale
della Chiesa contro l’eresia religiosa e altri movimenti intellettuali,
soprattutto attraverso l’azione dell’Inquisizione, condusse alla distruzione di
decine di migliaia di volumi insostituibili di origini latine, greche ed
ebraiche. Le persecuzioni contro Ebrei,
Catari, Albigesi e Anabattisti, insieme a scienziati, filosofi e studiosi
secolari, furono accompagnate dalla generale scomparsa di tutte le loro opere
in roghi benedetti.
La
nascita dell’Islam e il periodo delle Crociate servirono solo a peggiorare la situazione, perché le ondate di
conflitti tra i cristiani e i musulmani sconvolsero molti paesi, distruggendo
le biblioteche degli uni e degli altri.
Tra il
614 ed il 644, gli Arabi e i loro alleati furono responsabili della distruzione dei maggiori archivi di
Gerusalemme, Ctesifonte, Gandeshapur e Cesarea, così come delle copie
“erronee” del loro stesso Corano, ovunque si trovassero, nei territori da loro
conquistati.
Più tardi, la
Biblioteca dei Califfi a Cordoba fu razziata da Almanzor nel 980; la grande
collezione di Baghdad fu decimata
nel 1059; gli Archivi dei Califfi al
Cairo furono saccheggiati nel 1068; i
libri di Tripoli subirono le distruzioni dei Crociati nel 1192; e la Bibliotheca Byzantina di Costantinopoli
soffrì terribili danni per mano dei Franchi nel 1204.
Un’altra
tragica ondata di bibliocidio sopravvenne con gli invasori Mongoli nel sec.
XIII. Nel 1258, nella sola Baghdad,
essi distrussero trentasei biblioteche.
L’evento
più devastante fu la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi, nel 1453.
Là si trovava l’ultimo rifugio delle ampie collezioni di manoscritti che si
erano salvati, nel flusso incrociato di distruzioni, da entrambe le
direzioni.
In Europa, i sec. XV e XVI conobbero il
Rinascimento e la Riforma, e le divisioni politiche e religiose causarono
ovunque nuovi attacchi alle raccolte librarie. Ricchi signori spendevano
fortune per crearsi biblioteche private con edizioni rare e care, solo per
vederle cadere nell’oblio quando i loro proprietari erano allontanati dal
potere.
Durante le guerre religiose, Cattolici e
Protestanti si facevano vanto del reciproco saccheggio di archivi e
biblioteche, in chiese, cattedrali, abbazie e monasteri, con il fine di fare
giustizia delle credenze “corrotte”. Persino l’invenzione dei caratteri mobili,
che moltiplicò enormemente la produzione di libri, contribuì in realtà alla
perdita delle opere originali scritte a mano, perché, quando venivano mandati
alle tipografie per la copia, gli originali erano spesso distrutti o venduti
per profitto, come materia prima da riciclare.
Nel sec.
XVI avvennero anche le spedizioni dei conquistadores spagnoli nel Nuovo Mondo,
agli ordini di Cortez e Pizarro, che spazzarono via in modo rapido e
completo le civiltà di Aztechi, Maya ed Inca. Al loro seguito sopraggiunse
l’Inquisizione, a sradicare ed eliminare
tutti gli scritti originali indigeni.
Nel 1539
la Chiesa del Messico ordinò la distruzione di tutti i Codici aztechi;
Nel
1561, i missionari iniziarono nello Yucatan la sistematica devastazione di
tutti i geroglifici Maya, su pietra o su pergamena. Glyphs. Gli Incas
peruviani non avevano testi scritti, ma possedevano pittogrammi a carattere
religioso e una loro caratteristica forma di archiviare le informazioni con
cordicelle e nodi, chiamati quipu.
Il
Concilio Ecclesiasico di Lima nel 1583 decretò l’anatema e ordinò la distruzione di tutte le icone religiose
e degli archivi di quipu attraverso tutto il territorio dell’antico impero
andino.
Le sorti della pagina scritta non furono molto
migliori nell’Estremo Oriente.
Nel 213
a.C. l’Imperatore cinese Qin Shi Zheng annunciò che la storia cominciava in
quel momento e ordinò di bruciare tutti i libri, con l’unica eccezione
dell’I Ching, il Libro dei Cambiamenti, che riteneva benefico. Dopo la sua
morte, si cercò di ritrovare i volumi che erano stati segretamente nascosti,
per restaurarli in una nuova Biblioteca Imperiale. Ma il periodo di rinascita
fu breve: nel 207 a.C., durante la lotta tra rivali contendenti al trono, la
capitale subì tre mesi di devastazioni, e i libri che si erano salvati fecero
la stessa fine degli altri.
Il secondo grande disastro letterario della
storia cinese avvenne nell’anno 23 d.C.,
quando l”usurpatore Wang Mang devastò nuovamente la Biblioteca Imperiale,
che conteneva oltre 13000 opere. Anche dopo che la capitale fu spostata,
durante la Dinastia Han, lo stesso destino si accanì sulle opere scritte nel
190. Si salvarono settanta pacchi di libri, che però furono dati alle fiamme
nel 208.
Nel 311 oltre 3000 rotoli furono recuperati, ma
poi caddero nelle mani dell’Imperatore Yuan Liang che li mandò al rogo.
Ai tempi della Dinastia Siu, fu costruito il
magnifico Palazzo Yang che comprendeva una Sala delle Scritture. Nel sec. VIII l’Imperatore Xuanzong
aggiunse 2600 titoli in 48000 rotoli alla già ricca collezione.
Ma nel
1281 i conquistatori mongoli ordinarono che tutte le opere letterarie fossero
raccolte e date alle fiamme.
Più tardi, nel
1597, anche la biblioteca della famiglia Qi, la più importante collezione della
Dinastia Ming, fu sconvolta dalle fiamme.
Le fortune delle successive dinastie salivano e
cadevano, e i loro archivi, ora distrutti, ora venduti, si disperdevano. Nel
1900, la rivolta dei Boxer agevolò il saccheggio delle opere letterarie cinesi
da parte di Europei ed Americani. Le guerre nazionalistiche che seguirono
causarono altri danni, e culminarono nella distruzione di alcune raccolte
sopravvissute sotto i bombardamenti giapponesi, nel 1932.
Ciò che
era avvenuto impallidisce, però, di fronte alla totale distruzione di ogni
libro esistente durante la Rivoluzione Culturale, ordinata dal Presidente Mao
negli anni 1970. La “pulizia” fece correre all’indietro la scienza e le
arti di diversi decenni, e solo ora la gente comune comincia ad apprendere
nuovamente la ricchezza dell’antica saggezza. Ironicamente, proprio la
letteratura che era stata rubata e portata in Occidente alla fine del secolo
precedente è servita come stimolo e supporto per la restaurazione.
In Europa, la Rivoluzione industriale e
tecnologica del sec. XVIII intensificò in progressione geometria sia
l’accumulazione, sia la massiccia distruzione della conoscenza in forma
scritta. Le stesse macchine che producevano milioni di libri producevano anche
fucili, cannoni, carri armati, aerei, bombe e missili. La produzione e la
diffusione delle nuove armi stimolava e incentivava le guerre, le dittature, le
purghe politiche e degli intellettuali, sia nella Germania nazista, sia nella
Russia comunista, e le due guerre mondiali, con altre dozzine di conflitti
regionali, causavano distruzioni mai viste prima.
In questi contesti sempre più meccanizzati e
sofisticati tecnologicamente, la maggior perdita si è verificata dà dove il
sapere era concentrato: nelle università, nelle scuole, nei musei e
naturalmente nelle biblioteche, sia pubbliche, sia private. Ciò che aveva
richiesto vite intere per essere raccolto e valorizzato, poteva scomparire in
un singolo atto di terrorismo o di guerra, o in un grave incidente.
Particolarmente nefasto è stato l’impatto delle moderne tecnologie su ciò che
rimaneva di antiche società e culture indigene.
L’invasione e l’occupazione del Tibet da parte
della Cina negli anni 1950, l’incursione dell’imperialismo commerciale europeo
nell’America del Sud e in Africa negli anni 1970 e 1980, l’imposizione del
fondamentalismo religioso nelle repubbliche dell’Asia Centrale e
nell’Afghanistan nel corso degli anni 1990.
In simili casi, dalle lamaserie dell’Himalaya,
dalle culture tribali dell’Amazzonia e del Congo, sino agli antichi
templi–caverna Buddisti delle steppe asiatiche, ampie raccolte di tradizioni
scritte e/o orali andarono disperse o volontariamente distrutte.
In luoghi remoti del pianeta, le ultime
vestigia di lontane memorie vengono sottratte all’Umanità. Se non si riuscirà
ad invertire il processo del tragico olocausto, si perderanno per sempre le
ultime tracce di un importante patrimonio, che ricorda le nostre origini.
Le prospettive di preservare e salvaguardare le
conoscenze del nostro passato non sono migliorate. I computer hanno prevalso
nel campo delle raccolte d’informazioni, con Internet e World Wide Web.
L’aspetto positivo di ciò è la circolazione d’una quantità indescrivibile di
dati e nozioni d’ogni tipo, che arrivano in ogni istante in ogni angolo del
mondo e possono essere ricevute su un PC o su un telefono cellulare.
L’altra faccia della questione risiede però
nella fragilità stessa del mezzo di comunicazione. Tutti i dati e le
informazioni circolano su supporto elettronico nel cibersspazio. Basta girare
un interruttore per renderli inaccessibili, come inesistenti. Le nozioni
possono essere stampate, ma anche per far ciò è necessaria l’energia elettrica.
La nostra quasi totale dipendenza dall’energia elettrica rende la nostra
civiltà particolarmente vulnerabile, e in fin dei conti si dimostra un
fallimento.
Mentre possiamo guardare i nostri antenati come
“primitivi” perché usavano ossa, argilla, pietra, pelli d’animali e carta per
registrare le loro conoscenze, essi avevano per lo meno un mezzo reale e
materiale per risorgere quando le loro conoscenze erano soggette a distruzione.
Invece, se la nostra rete totale di energia dovesse fallire per un sabotaggio o
un disastro, una guerra o un cataclisma naturale, le intere basi dei governi,
degli affari, dell’istruzione, della difesa, della ricerca scientifica e delle
comunicazioni verrebbero improvvisamente a mancare.
Se - a causa d’una tale catastrofe - la
produzione dell’elettricità attraverso il mondo non potesse essere
ripristinata, non rimarrebbe proprio nessuna traccia della nostra
civiltà.
Il poco che si potrebbe ricordare degli archivi
computerizzati dovrebbe nuovamente essere affidato a pagine scritte, raccolte
in libri, e ricomincerebbe il processo di riaccumulazione delle conoscenze. Ma,
come sempre, ancora una volta tali conoscenze potrebbero essere viste come
pericolose, perché invise a qualcuno per ragioni di potere politico, religioso
o sociale, e di nuovo si porrebbe il problema di salvarle dalla
distruzione.
La
domanda con cui concludiamo è: quanto a lungo l’umanità continuerà a
distruggere il suo stesso passato?
Testo originale; http://www.forgottenagesresearch.com/lost-knowledge-series/Losing-the-Past-on-PurposeThe-Willful-Destruction-.htm
Fonte: Liutprand
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