Sulla via Ostiense, a poca distanza dalla Basilica di San Paolo fuori le mura
Continuano le sorprese sul fronte dell’archeologia sacra. Gli scavi sono eseguiti dalla Pontificia commissione di Archeologia sacra presieduta da Monsignor Gianfranco Ravasi. Le ipotesi e le voci che più si sentono sono quelle che in un cubicolo siano stati scoperti altre due icone di Apostoli, si dice che raffigurino forse Giacomo e Giovanni, e ancora un Daniele tra i leoni e il sacrificio di Isacco. Si sta lavorando con il laser per ripulire la patina calcarea che ricopre la volta dell’ipogeo.
Nel giugno scorso, nella ricorrenza dell’anno giubilare di San Paolo, fu scoperta una icona raffigurante l’Apostolo delle genti risalente al IV secolo d.C. Il volto di San Paolo ha la fronte ampia e con rughe, barba lunga a punta, l’Apostolo è raffigurato con i tratti tipici del pensatore.
L'immagine clipeata di
Paolo in Santa Tecla e Pietro che fa scaturire l'acqua nel carcere (in basso)
Le Catacombe si Santa Tecla sono sulla via Ostiense, a poca distanza dalla Basilica di San Paolo fuori le mura. La via Ostiense è il luogo dove San Paolo e San Pietro si videro per l’ultima volta, di questo incontro una epigrafe marmorea ne ricorda il luogo ch’è sito all’attuale civico 124 dell’omonima via davanti all’ingresso del Museo della Centrale Montemartini.Le Catacombe sono già note nel Settecento. Fu l’Archeologo Mariano Armellini che identifico questa zona sepolcrale.
Nelle Catacombe di Santa Tecla si trovano i resti di centinaia di cristiani che vollero essere inumati vicino alla Santa, una martire romana che non va confusa con la Santa omonima amica di San Paolo, protagonista dell’antico apocrifo Acta Pauli et Theclae. Alcuni studiosi, tra questi lo Styger, ritengono che la Tecla qui venerata sia la martire Tecla di Iconio sepolta e venerata a Seleucia, la moderna Selefkie in Asia Minore, dove si trova la sua sepoltura. Le reliquie della Santa sarebbero state trasportate a Roma e deposte in questo cimitero, va ricordato che la Santa venne convertita da San Paolo. Lo studioso Fasola invece sostiene che Tecla sia una martire romana vittima delle persecuzioni di Diocleziano e che il suo nome e la sua sepoltura vicino alla Basilica di San Paolo abbiano generato questo dubbio, il Fasola esclude l’ipotesi della traslazione di reliquie della Santa Tecla sepolta a Seleucia a Roma.
Fonte: srs di Franco Leggeri - da abitare a roma.net del 28/02/2010
Link: http://www.abitarearoma.net/index.php?doc=articolo&id_articolo=16567
LA PIÙ
ANTICA ICONA DI SAN PAOLO SCOPERTA NELLE CATACOMBE DI SANTA TECLA
Riprendiamo da
l’Osservatore romano del 28 giugno 2009 due articoli di Fabizio Bisconti e Gianfranco
Ravasi . Il Centro culturale Gli scritti (28/6/2009)
È LA PIÙ ANTICA ICONA DI SAN PAOLO,
Di Fabrizio Bisconti
Venerdì 19 giugno. Mentre
si procede a un lento e accurato restauro della decorazione pittorica di un
cubicolo delle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, una
sensazionale scoperta impressiona gli archeologi che seguono il lavoro da più
di un anno. Nella mattinata il laser mette in luce il volto severo e ben
riconoscibile di san Paolo, tra i più antichi e i più definiti che ci abbia
consegnato la civiltà figurativa dell'antichità cristiana. Anzi, per le sue
caratteristiche può essere considerato la più antica icona dell'apostolo finora
conosciuta.
Il volto, circondato da
uno sfavillante clipeo giallo oro su rosso vivo, emoziona per il suo graffiante
espressionismo e appare come un'icona forte ed eloquente dell'Apostolo delle
genti, un volto d'epoca, che ci accompagna verso quella missione che la
Chiesa di Roma, tra il IV e il V secolo, affida alla figura di Paolo nella
conversione al cristianesimo degli ultimi pagani.
Altre immagini di san
Paolo erano note nelle catacombe e nei sarcofagi romani, ma il busto appena
scoperto meraviglia per la sua suggestiva espressione e ha lasciato senza fiato
i restauratori, che hanno interrotto subito il loro lavoro, come intimiditi da
quello sguardo antichissimo, da quella fisionomia che spuntando dall'oscurità
della catacomba emoziona e folgora chi la contempla. Il giorno della scoperta,
nonostante l'avvicinarsi del fine settimana, i responsabili della Pontificia
Commissione di Archeologia Sacra sono accorsi immediatamente presso il sito
archeologico e hanno potuto verificare la straordinaria importanza della
scoperta. Per questo, anche se il restauro è in corso, hanno deciso di
anticipare la notizia del rinvenimento.
In questi giorni i
restauratori hanno continuato il loro lavoro e hanno meglio evidenziato i
tratti del busto dell'apostolo, ma hanno anche effettuato altre importantissime
scoperte. E altre se ne prevedono per le prossime ore e per i mesi a venire. Il
tondo di Paolo, infatti, si colloca nella volta del cubicolo, dove attorno al
clipeo campito del Cristo Buon Pastore sono sistemati quattro altri tondi che
accolgono, a loro volta, i busti di quattro personaggi. Tra questi sono ben
riconoscibili quelli relativi a Paolo,
appena scoperto, e a Pietro,
riapparso proprio in queste ultime ore, mentre gli altri due, pur
caratterizzati nell'età e nella fisionomia, potrebbero riferirsi ad altrettanti
apostoli, ovvero a due santi intercessori o, infine, a due defunti.
Il volto più espressivo
ed emozionante è sicuramente quello di Paolo, situato nel tondo posto a
sinistra, rispetto all'ingresso. Dal momento che l'imago clipeata
rappresenta una raffigurazione devozionale scelta dalla famiglia dei defunti
per proteggere il loro cubicolo, il busto di Paolo può essere considerato la
più antica icona dell'apostolo finora rinvenuta, nel senso che dal livello
evocativo si passa a quello del culto.
L'immagine e gli altri
clipei sono incastonati in un complesso e variopinto cassettonato, come se
si volesse emulare il soffitto di un prestigioso edificio di culto. Non
dimentichiamo che a poche centinaia di metri si innalzava la celebre basilica
dedicata nello scorcio del IV secolo all'Apostolo delle genti dagli imperatori
Valentiniano II, Teodosio e Arcadio, costruita sulla memoria apostolica, già
monumentalizzata nel 324 da Papa Silvestro e voluta da Costantino. La basilica
dei tre imperatori - come si diceva - mostrava forme più ampie, decorazioni più
sontuose e fu portata a termine dal figlio di Teodosio, Onorio (395-423), come
suggerisce il distico inserito nell'arco trionfale (Teodosius coepit,
perfecit Honorius aulam + doctoris mundi sacratam corpore Pauli). Lungo la
curva del medesimo arco correva, poi, un'altra iscrizione, che dava conto dei
lavori intrapresi da Papa Leone Magno (440-461) al tempo di Galla Placidia, in
seguito ai danneggiamenti dovuti a dei fulmini o a un terremoto avvenuto tra il
442 e il 443 (Placidiae pia mens operis decus homne paterni / gaudet
pontificis studio splendere Leonis).
Ai lavori commissionati
da Leone Magno dobbiamo riferire il
programma decorativo che interessava l'intero edificio di culto che, come è
noto, fu distrutto dal terribile incendio scoppiato nella notte tra il 15 e il
16 luglio del 1823. Le riproduzioni dei disegnatori del passato - primi fra
tutti quelli fatti eseguire dal cardinale Francesco Barberini nel 1635 e quelli
preparati, alla fine del Settecento, da Seroux d'Agincourt - assieme ad alcuni
esigui lacerti musivi relativi all'arco trionfale e alla serie dei ritratti dei
Pontefici realizzati in pittura, ci permettono di ricostruire il programma
decorativo della basilica monumentale sorta sulla tomba dell'Apostolo delle
genti.
Ebbene, tornando al
nostro cubicolo e alle scoperte di questi giorni, possiamo constatare alcune
suggestive assonanze tra il progetto iconografico dell'ambiente funerario di
Santa Tecla e quello, ovviamente più complesso e raffinato, della basilica di
San Paolo.
La serie di busti campiti
nella volta del nostro cubicolo ricorda, infatti, quella che si snodava lungo
le navate dell'edificio di culto della via Ostiense; il cassettonato dipinto
nel soffitto può emulare quello che doveva decorare la navata centrale della
basilica; i temi biblici e apocrifi che decorano le pareti e gli arcosoli
dell'ambiente catacombale, già noti dalle scoperte degli ultimi mesi, possono
rammentare, nell'impostazione e nella dislocazione, i quadri dipinti lungo le
navate di San Paolo fuori le mura; il maestoso collegio apostolico o il Cristo
in cattedra, dipinti nel vestibolo del cubicolo, possono alludere al tema
teofanico che poteva svilupparsi nell'abside perduta della basilica, come pare
suggerire l'atmosfera apocalittica e sospesa dell'arco trionfale, dove erano
sistemati i quattro viventi, i vegliardi dell'Apocalisse, il volto nimbato e
radiato del Cristo tra angeli e, ancora, i principi degli apostoli.
A questo punto, si
potrebbe pensare che il nucleo del programma decorativo della basilica
ostiense, così come si definisce al tempo di Leone Magno, poteva essere già, in
parte, realizzato nella basilica dei tre imperatori e che il cubicolo di Santa
Tecla, commissionato da una personalità importante della società romana della
fine del IV secolo - forse un nobile aristocratico, forse un ecclesiastico -
riproponga, in scala minore, il progetto figurativo pensato per l'edificio di
culto della via Ostiense.
Il volto di Paolo - che
tanto ha emozionato i primi visitatori - presenta i caratteri fisionomici
tipici del filosofo di plotiniana memoria, con un ovale asciutto, desinente
nella scura barba a punta, il naso pronunciato, gli occhi maggiorati e
fortemente espressivi, le tempie interessate da un'importante calvizie; la
fronte attraversata da profonde rughe di atteggiamento.
Tutte queste
caratteristiche rimandano, in maniera più o meno puntuale, alle scarse notizie
relative all'aspetto fisico di san Paolo. Se un veloce passaggio degli Acta
Pauli et Theclae definisce l'apostolo piccolo di statura, con la testa
calva, le gambe curve, un bel corpo, le sopracciglia congiunte e il naso un po'
sporgente, altri cenni di Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica,
VII, 8-4), di Basilio Magno (Epistolae, 360) e Giovanni Crisostomo (Oratio
in principes apostolorum, 1) riferiscono solo della bassa statura e del
tipo filosofico, mentre Agostino lascia prima intendere che i ritratti di
Paolo in circolazione erano pura invenzione iconografica (De Trinitate,
5-8), ma poi riferisce che una certa Marcellina carpocraziana, possedeva, per
adorarle, le immagini di Gesù, di Paolo di Omero e di Pitagora (De haeresibus
ad Quodvultdeus, 7).
Nelle nuove pitture
scoperte nel cubicolo di Santa Tecla, come si diceva, appaiono ambedue i
volti dei principi degli apostoli, definiti in tutte le peculiarità
fisionomiche, che li caratterizzeranno nella civiltà figurativa tardoantica,
bizantina e medievale e che giungeranno sino ai nostri giorni. Se, infatti, il
volto di Pietro - purtroppo molto rovinato dal punto di vista conservativo - si
impronta a una solidità fisionomica e a una potenza espressiva dai tratti
marcati e decisi, anche se adesso poco giudicabili, con capigliatura ricca,
candida, aderente al capo, l'ovale ampio, stereometrico, la barba corta e
mossa, quello di Paolo sembra ricavato da un contrappunto e si propone con le
sembianze di un pensoso e ispirato filosofo, dall'espressione esangue, sospesa
tra inquietudine e serenità.
La compresenza di Pietro
e Paolo nel soffitto del nostro cubicolo, seppure arricchita dalle altre due
immagini per ora ingiudicabili, ci accompagna verso quello slogan della concordia
apostolorum, ideato quale elemento determinante dell'ambizioso progetto
politico-religioso della renovatio Urbis, pensato simultaneamente dalla
propaganda imperiale e da quella pontificia, nell'ultimo scorcio del IV secolo
e nei primi decenni del seguente, in perfetta sintonia con la cronologia dei
nostri affreschi.
Qui, come si diceva, la
vecchia tematica paleocristiana si affianca a un nuovo repertorio, che si
apre, ad esempio, ad accogliere la storia del miraculum fontis, che ha
come protagonista l'apostolo Pietro, mentre disseta, con un miracolo, i suoi
carcerieri, secondo quanto raccontano gli scritti apocrifi. La scena,
dipinta nella parete d'ingresso, proprio in corrispondenza con il busto di
Paolo, mostra Pietro dal volto ben definito e simile a quello ripetuto nella
volta, mentre con un gesto solenne, fa scaturire l'acqua dalla roccia per
dissetare un carceriere, dal copricapo e dalla tunichetta tipica dei soldati,
che si inchina verso la piccola sorgente.
La compresenza dei
principi degli apostoli nel medesimo complesso pittorico vuole ribadire la
doppia apostolicità della Chiesa romana, che si affianca e forse vuole
sostituire il concetto del primatus Petri, basato sul Vangelo di Matteo
(16, 18): Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam.
Il primato petrino viene
attutito dalla nuova ideologia della concordia apostolorum a cui si è fatto
cenno e che viene teorizzata proprio a fine secolo, in concomitanza con
l'esecuzione delle nostre pitture. In questo periodo, sulla scia dell'epigramma
damasiano dedicato agli apostoli, che tende a riequilibrare la memoria paolina,
congiungendola a quella petrina e in concomitanza con la creazione del
manifesto figurativo dell'abbraccio solidale tra Pietro e Paolo, si pronunciano
anche i più autorevoli Padri della Chiesa. Primus Petrus apostolus, nec
Paulus impar gratia est afferma un inno attribuito ad Ambrogio (De
Sancti Petro et Paulo apostolis, PL, 17, 12-53); hic regnant duo
apostolorum principes, alter vocatur gentium alter cathedram possidens primam
sentenzia Prudenzio (Peristephanon, II, 459); nec Paulus inferior
Petro dichiara Ambrogio in maniera più secca e persuasiva (De Spiritu
Sancto 2, 156).
In questo motto del De
Spiritu Sancto possiamo intravedere tutte le ragioni della riabilitazione e
della tematizzazione della figura di Paolo, che assurge a immagine-simbolo di
un cristianesimo che voleva farsi largo e penetrare tra gli intellettuali. In
questa delicata e ardua conversione degli ultimi pagani, arroccati nelle grandi
famiglie e negli ambienti senatoriali romani, la sofisticata figura
dell'apostolo dei gentili, il doctor gentium, il vas electionis,
il sapiens architectus, il magister scientiae diventa un elemento
determinante, tanto che Peter Brown ebbe a definire i cristiani vissuti
durante gli ultimi anni del IV secolo e gli inizi del seguente come la
"generazione di Paolo".
Il programma decorativo
del cubicolo di Santa Tecla, con la presenza simultanea dei principi degli
apostoli, si cala perfettamente in questa atmosfera politico-religiosa, che
vede la lotta contro gli ultimi baluardi della resistenza pagana e assurge a
traduzione figurata della doppia apostolicità di Roma, una sorta di manifesto,
ma anche "un invito alla conversione dei pagani - come osservava Richard
Krautheimer - un segnale che i tempi erano maturi per unirsi in una fede,
che era stata fondata da Pietro, il pescatore, ma anche da Paolo, l'apostolo
dai più alti compiti intellettuali".
(©L'Osservatore Romano -
28 giugno 2009)
DAL BUIO DI
UN MONDO SOMMERSO DUE VOLTI NELLA LUCE.
Catacombe di santa Tecla, cubicolo del Buon pastore.
di Gianfranco Ravasi
Proprio quando l'Anno
paolino tocca il suo apice conclusivo e la Chiesa celebra la solennità dei principi degli apostoli, un fortunato
intervento di restauro, promosso dalla Pontificia Commissione di Archeologia
Sacra nelle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, non lontano dal
complesso basilicale di San Paolo fuori le mura, ha offerto, tra l'altro, la
sorpresa di un busto dipinto di san Paolo. È un evento straordinario che
suggella in modo inatteso e sorprendente le iniziative che hanno cadenzato
questo denso anno giubilare.
Il cubicolo dipinto,
interessato dal restauro, rappresenta uno degli ultimi monumenti scavati nella
catacomba. Uscendo da Roma, lungo la via Ostiense, si incontra, prima, il
grande cimitero di Commodilla, dove riposano i martiri Felice e Adautto e, poi,
il piccolo ipogeo di Timoteo, probabilmente situato nella "roccia di
san Paolo", ricordato dagli itinerari medievali e forse riconoscibile
nella piccola catacomba ancora visitabile nel costone della rupe.
Ma così come Timoteo non
può essere identificato con il compagno di Paolo, anche la Tecla che
attribuisce la denominazione alla nostra catacomba - la terza che si incontra
percorrendo la via Ostiense - non può essere identificata con la
protagonista dell'antico apocrifo denominato Acta Pauli et Theclae.
Tale basilica-santuario,
come suggerisce la Notitia Ecclesiarum, cioè l'itinerario dei pellegrini
del VII secolo, era situata in australi parte (...) supra montem positam: corpus
eius quiescit in spelunca. La catacomba, già nota nel Settecento
all'archeologo Giovanni Marangoni, venne sistematicamente scavata negli anni
Sessanta del secolo scorso. Già allora si conobbe l'esistenza di una martire
romana di nome Tecla, della quale, purtroppo, non si hanno altre informazioni,
anche se, dalla cronologia generale del cimitero, si può ipotizzare che la
martire fu uccisa durante la persecuzione dioclezianea, agli inizi del IV
secolo. Un'iscrizione, rinvenuta nel vicino cimitero di Commodilla, ricorda
che un cristiano sepolto in questo complesso funerario morì nel natale
domnes Theclae, ma tale testo risulta mutilo, per cui è impossibile
conoscere almeno il dies natalis, ossia il giorno della morte della
martire.
A questa Tecla, ricordata
anche dalle fonti medievali, venne dedicata una basilichetta ipogea a cui si
accede attraverso una scala laterale, che conduce alla navata destra, delle due
che costituiscono l'edificio di culto. Esso, originariamente, doveva
comprendere tre navate, manomesse da interventi moderni, che trasformarono
l'edificio in cantina. Sul fondo, in un nicchione, rischiarato da un
lucernario, era forse collocata la sepoltura della martire.
Là si conservano due
frammenti di intonaco dipinto trasferiti da un mausoleo rinvenuto durante la
costruzione della via Cristoforo Colombo. Il primo frammento mostra una scena
con una figura femminile aggredita da un uomo, evocazione della biblica
Susanna molestata dagli anziani (Daniele, 13); il secondo frammento reca
dipinta una coppia di figure virili, che indicano una stella, forse per
alludere a una profezia.
Tornando alle
sorprendenti scoperte di questi giorni, avvenute nel cubicolo situato nel
settore meridionale della catacomba, dobbiamo, però, ricordare che il restauro è
ancora in corso e che altre scoperte potrebbero incrementare il repertorio, già
estremamente ricco, della pittura catacombale romana. Per ora, possiamo
ammirare lo straordinario volto di Paolo, ma anche quello di Pietro, meno
conservato, ma suggestivo.
È un'ulteriore e
importante testimonianza di quella concordia apostolorum, che è nel
cuore della concezione religiosa della Chiesa romana nell'ultimo scorcio del IV
secolo, concezione avviata già da
Papa Damaso (366-384). Giorno dopo giorno, i restauratori stanno riportando
alla luce storie della Bibbia e i volti degli apostoli, scrivendo un nuovo
capitolo della storia dell'arte tardoantica, che rappresenta anche l'ultimo
segmento della pittura catacombale, quando questa consegna idealmente il
testimone all'arte monumentale degli edifici di culto.
Nel comunicare la
scoperta del suggestivo busto clipeato di san Paolo nella catacomba di Santa
Tecla, va ricordato che le ultime acquisizioni dell'iconografia paolina - se si
eccettua il bronzetto di Cornus (Sardegna) e gli affreschi della grotta di
Efeso - sono venute proprio dalle catacombe romane e dagli scavi o dai restauri
curati dai responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.
Negli anni Ottanta del
secolo scorso, infatti, durante alcuni lavori di restauro, nella tricora
orientale di San Callisto, venne alla luce un piccolo frammento di
sarcofago, scolpito nell'atelier ove si era approntato il celebre sarcofago di
Giunio Basso, alla metà del secolo IV. In questo esiguo frammento marmoreo
- ora esposto alla mostra dedicata a "Paolo in Vaticano" nel Museo
Pio Cristiano - si riconoscono i bei volti del Cristo e dell'apostolo delle
genti, tra i più espressivi che ci abbia consegnato la produzione plastica
paleocristiana.
Alla fine degli anni
Novanta, poi, nelle catacombe dell'ex vigna Chiaraviglio, collegate al grande
complesso funerario di San Sebastiano, furono intercettati alcuni ambienti
dipinti con una maiestas Domini, ossia con l'immagine del Cristo tra i
principi degli apostoli, e con il celebre abbraccio tra Pietro e Paolo,
riferibili, come gli affreschi di Santa Tecla, alla fine del secolo IV,
ossia alle ultime manifestazioni della pittura catacombale. Abbandonando il
sereno repertorio augurale delle scene bibliche, si sceglievano sistemi
iconografici più complessi, sperimentati nelle absidi, negli archi absidali e
trionfali, lungo le navate e nelle controfacciate dei più prestigiosi edifici
di culto del tempo.
Tutte queste scoperte
provengono da un "mondo sommerso", da quelle oscure catacombe per
troppo tempo considerate tristi luoghi di persecuzione, fuga e morte. Da quelle
gallerie, da quei cubicoli, da quegli arcosoli, salvati miracolosamente
dall'obliterazione e dagli interri, spuntano adesso le testimonianze eloquenti
del cristianesimo dei primi secoli. Si crea, così, un vivace linguaggio
iconografico, prima elementare, poi catechetico e, infine, sempre più
sofisticato e allineato al pensiero dei Padri della Chiesa e dei Pontefici,
destinato a tradurre in figura le idee, i programmi e i nuovi progetti della
fede.
(©L'Osservatore Romano -
28 giugno 2009)
Fonte: da gli Scritti.it
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