Cento sedute e tre anni di lavoro: tanto ha impiegato la
Commissione parlamentare d’inchiesta sui danni provocati ai nostri soldati
dall’uranio impoverito, per giungere poi alla conclusione che l’isotopo
utilizzato per rendere più pesanti e penetranti i proiettili e i missili, non
aveva alcuna colpa nell’aumento dell’incidenza di patologie tumorali ai danni
di militari italiani impegnati in missioni internazionali. Ma andiamo con
ordine.
Nel 1999, con la fine della guerra nel Kosovo – e poi negli anni successivi con
l’aumento del dispiegamento di soldati italiani in teatri di guerra all’estero
– si è registrato un preoccupante aumento dell’insorgenza di tumori
(specialmente leucemie e linfomi) ai danni di militari del nostro Paese, nei
mesi successivi al loro rientro in patria. Secondo dati recentemente resi
pubblici dall’Associazione dei familiari delle vittime, si sarebbe registrato
un totale di 200 decessi e di 2.500 casi di malattia. Non conosciamo la
fondatezza di questi dati. Quello che conosciamo è il colpevole, il mostro
sbattuto in prima pagina dalla stampa fin dall’inizio di questa storia:
l’uranio impoverito.
In sostanza, secondo queste ricostruzioni, i nostri soldati schierati su
terreni nei quali erano stati disseminati proiettili all’uranio impoverito,
sarebbero stati esposti a radiazioni fatali. Lo stesso sarebbe accaduto in
Sardegna, agli abitanti nei dintorni del Salto di Quirra, dove nel poligono
militare si sarebbe fatto ampio uso del munizionamento incriminato.
Il responsabile, “un elemento nucleare”, è dunque stato
additato all’opinione pubblica come mortalmente pericoloso per un incalcolabile
numero di anni: la sola permanenza sui campi di battaglia dopo la fine delle
operazioni esponeva i nostri soldati a rischi gravissimi, mentre in Sardegna
anche i pastori e le loro greggi pagavano un duro pedaggio all’uso dell’uranio
impoverito.
Scriveva un sito web molto seguito nel 2011, all’inizio
dell’intervento delle forze NATO a sostegno dei ribelli libici: “In Libia
l’uranio impoverito farà più danni dei raid aerei…nei prossimi settant’anni i
casi di tumore cresceranno di 6.000 unità”. Di fronte a scenari così
apocalittici, anche il Parlamento italiano si è mobilitato e ha istituito una
Commissione d’inchiesta che ha concluso i suoi lavori il 9 gennaio
scorso.
Le conclusioni della Commissione
Prima di esaminare le conclusioni cui è giunta la Commissione, può essere utile
richiamare alcuni dati scientifici che, se fossero stati considerati con rigore
e attenzione all’inizio del problema, avrebbero forse bloccato sul nascere la
“caccia all’isotopo killer” e avrebbero potuto indirizzare da anni le indagini
sul vero colpevole.
Il primo dato risale alla natura dell’uranio impoverito e
alla sua “forza” radioattiva. Questo isotopo emette radiazioni “alfa”,
radiazioni innocue che non riescono ad attraversare neanche un foglio di carta
velina (figuriamoci la cute e le mucose umane), che sono permeabili, in parte
alle radiazioni “beta” e in toto alle radiazioni “gamma”. Queste sono nozioni
che uno studente di medicina apprende al primo anno di corso.
Le radiazioni emesse dai proiettili all’uranio impoverito non potevano e non
dovevano essere considerate patogene. D’altronde, come dimostrano le gravi
conseguenze legate al trattamento dell’amianto, se l’uranio impoverito avesse
capacità patogene, le prime vittime avrebbero dovuto essere i lavoratori delle
fabbriche di munizioni che giorno dopo giorno costruiscono e assemblano le
munizioni incriminate.
Si è registrato un incremento delle patologie tumorali tra
le maestranze delle fabbriche di proiettili e di missili?
Non c’è alcun dato scientifico in proposito ed è facile
immaginare che quando in Italia è esplosa la psicosi dell’uranio impoverito,
qualche ricerca nei Paesi di produzione sia stata condotta. Inoltre, nei teatri
operativi insieme ai nostri soldati operavano anche soldati di altri Paesi. Ci
sono stati casi simili a quelli registrati da noi, anche ai danni di militari
americani, francesi, inglesi o tedeschi?
No. L’uranio impoverito ha colpito solo gli italiani. La
Commissione parlamentare ha disposto lunghi e costosi sondaggi al Salto di
Quirra.
Il risultato? Nessuna traccia di uranio impoverito sotto
terra, come del resto sostenevano le nostre autorità militari, che da anni
giuravano di non aver usato munizioni “arricchite” nel sito sardo.
La Commissione parlamentare, nell’assolvere l’uranio impoverito, sembra aver
individuato il presunto-probabile colpevole: una poco prudente politica vaccinale che ha visto sottoporre i
nostri soldati in partenza per l’estero a batterie di vaccinazioni multiple,
concentrate in pochi giorni, per esigenze operative magari improvvise.
I vaccini, si sa, alterano temporaneamente l’equilibrio del
sistema immunitario e, se non diluiti nel tempo, possono generare falle
momentanee nelle difese immunitarie. Sottoposto a una forte scarica di
antigeni, il sistema può andare temporaneamente in default e aprire la strada
all’insorgenza di tumori.
Questa conclusione scientifica apre il varco ad alcune
imbarazzanti considerazioni: prima di farsi travolgere e terrorizzare da una
campagna stampa allarmistica e priva di basi razionali, le nostre autorità
sanitarie non avrebbero potuto e dovuto cercare una verità basata non sulla
suggestione ma sull’evidenza scientifica?
Per inseguire il fantasma dell’uranio si sono persi anni,
durante i quali i nostri inconsapevoli soldati hanno continuato ad essere
sottoposti a batterie di vaccinazioni, queste sì, palesemente pericolose.
Quanti problemi e quante morti si sarebbero potute evitare
se invece di inseguire le paure di un’opinione pubblica frastornata e
impaurita, si fosse ragionato con calma e, individuate le probabili cause, si
fossero pianificate, in nome del principio di precauzione, campagne vaccinali
più prudenti e meno pesanti?
Questo è il punto: c’è un problema?
Si trova il colpevole che va più di moda (abbasso il
nucleare!) e, intanto, il vero assassino, in silenzio, continua a lavorare.
Fonte: da Lookout
News
Link.
http://www.lookoutnews.it/credevo-fosse-uranio-invece-era-un-vaccino/
IN PRINCIPIO ERA L’URANIO IMPOVERITO….
Nello scorso mese di luglio è stata resa pubblica la
relazione finale della IV Commissione d’Inchiesta sull’uranio impoverito, uno
studio autorevole che ha fatto ulteriormente chiarezza sulle cause di un
fenomeno che ha colpito migliaia di soldati italiani negli ultimi vent’anni.
All’inizio del nuovo millennio, infatti, tra i nostri
militari che avevano prestato servizio nelle missioni balcaniche, in Bosnia e
nel Kosovo, si era verificato un improvviso aumento di casi di linfoma di
Hodgkin, tale da far prevedere un collegamento tra l’insorgere della malattia e
l’attività prestata in teatro.
Gravemente sospetta era apparsa la presenta in quei
territori di residui di uranio impoverito che, sotto forma di aerosol con
particelle micro polverizzare trasportabili dal vento anche a grande distanza,
erano suscettibili di entrare nell’organismo per inalazione o ingestione
attraverso alimenti contaminati.
Dopo non poche polemiche, non sempre prettamente
scientifiche, venne varata la Commissione Mandelli, incaricata dal Ministero
della Difesa di far luce sul fenomeno ed individuarne le cause scatenanti.
La commissione terminò i propri lavori nel 2004 senza
accertare un nesso diretto ed incontrovertibile tra l’esposizione potenziale
all’uranio impoverito e l’insorgenza dei linfomi, ma raccomandando un’ulteriore
fase di studio che monitorasse l’evoluzione del fenomeno.
Ne nacque, su indicazioni della Difesa, il Progetto SIGNUM,
acronimo per Studio di Impatto Genotossico Nelle Unità Militari, destinato a
coinvolgere su base volontaria 982 militari impiegati nella missione “Antica
Babilonia” in Iraq, dove le forze statunitensi avevano fatto largo uso di
munizionamento contenente uranio impoverito.
Lo studio prevedeva la raccolta di informazioni dettagliate
sulla possibile esposizione dei militari oggetto dell’indagine all’uranio
impoverito e ad altri metalli pesanti mediante l’esame di campioni biologici
(urine, sangue e capelli) effettuato prima e dopo la missione, per un periodo
significativamente lungo (quasi otto anni).
Lo scopo era chiaramente quello di porre in essere una
sorveglianza clinica ed epidemiologica protratta nel tempo, per accertare
l’insorgenza di fenomeni a lungo termine.
Lo studio prendeva inoltre in considerazione altri fattori
potenziali di rischio quali le condizioni ambientali e climatiche presenti
nelle basi italiane di “White Horse” e “Camp Mittica”, gli stili di vita, la
dieta, il fumo ed altre condizioni tendenzialmente pericolose, inclusa, per la
prima volta, la somministrazione dei vaccini.
Il rapporto finale del progetto, redatto dal Comitato
Scientifico costituito da 14 esperti di fama provenienti dagli staff medici
delle università di Pisa, Genova e Roma, giunge già nel 2010 a conclusioni
sorprendenti.
Nei soldati monitorati la quantità di uranio impoverito
presente nel sangue e nelle urine non risultava aumentata al termine della
missione, ma diminuita.
Erano invece aumentati i livelli di cadmio e nichel,
notoriamente cancerogeni, ed ara cresciuto il danno ossidativo sul dna dei
linfociti, cioè delle cellule del sistema immunitario, in particolare tra i
soggetti che svolgevano intesa attività all’esterno ed avevano subito 5 o più
vaccinazioni. I monitoraggi ambientali escludevano invece contaminazioni
significative dovute ad uranio e l’esposizione ad altri specifici inquinanti
genotossici.
L’attenzione sui vaccini
L’uranio impoverito, il grande accusato dei Balcani, cessava
di essere il principale responsabile delle malattie sviluppate tra tanti
soldati italiani e di un numero tristemente crescente di decessi.
Il Comitato Scientifico di Signum si concentrava invece sui
vaccini, osservando una chiara correlazione tra le alterazioni ossidative del
DNA ed il numero di vaccinazioni effettuate a partire dal 2003.
La differenza più eclatante si registrava infatti tra i 742
soggetti che avevano ricevuto un massimo di quattro vaccinazioni e quanti, un
centinaio, ne avevano praticato un numero superiore, fino ad otto e
somministrate talvolta anche in rapida successione. Per questi ultimi il
differenziale di alterazioni ossidative era significativamente più elevato.
In particolare risultava sotto accusa il vaccino trivalente
vivo attenuato Mrp (morbillo parotite rosolia) suscettibile di compromettere le
cellule del nostro sistema immunitario incaricate di aggredire ed eliminare gli
agenti patogeni esterni.
Profilassi massicce, stress psico-fisico e forte
irraggiamento solare venivano pertanto individuati quali probabili concause di
linfomi e neoplasie.
Sulla base di queste conclusioni, per certi versi
inaspettate e spiazzanti, si costituì con delibera del Senato del 16 marzo 2010
una nuova Commissione Parlamentare di Inchiesta sui casi di morte e di gravi
malattie che avevano colpito il personale italiano impiegato all’estero. Di
fronte a questa il professor Franco Nobile, oncologo direttore del Centro
prevenzione della lega contro i tumori di Siena, rese noti gli esiti di uno
studio condotto su 600 militari del 186° Reggimento Paracadutisti “Folgore”
reduci da missioni internazionali.
Le risultante confermavano quanto emerso dal Progetto
Signum, evidenziando la possibilità che pratiche vaccinali particolari,
massicce e ravvicinate potessero comportare una “disorganizzazione del sistema
immunitario”, suscettibile a sua volta di concorrere alla manifestazione di
gravi patologie autoimmuni, quali tiroidite, sclerosi multipla, eritema nodoso,
lupus, artrite reumatoide, diabete e, secondo taluni studi, leucemie e linfomi.
Sotto accusa erano soprattutto le modalità di
somministrazione vaccinale, con un nesso sempre più evidente tra vaccinazioni
ravvicinate e abbassamento delle difese immunitarie, ed il loro stesso
contenuto, che evidenziava la presenza di metalli pesanti quali alluminio e
mercurio, senz’altro cancerogeni, utilizzati in alcuni tipi di vaccini come
eccipienti e conservanti per migliorarne l’effetto.
Il ruolo dei vaccini risulterebbe suffragato soprattutto
dall’insorgenza di numerosi casi di malattie in situazioni che escluderebbero
altri fattori, primo fra tutti l’uranio impoverito.
Secondo dati di fonte ufficiale, infatti, l’85% dei militari
che hanno contratto patologie gravemente invalidanti o sono addirittura
deceduti per cause tumorali non hanno preso parte a missioni militari
all’estero.
Si giunge così ai giorni nostri, con la pubblicazione, nel
mese di luglio, della Relazione della IV Commissione d’Inchiesta sull’uranio
impoverito che, nonostante il nome, si è occupata di tutti gli aspetti relativi
alla tutela della salute del personale militare.
Sono state esaminate anche tematiche particolari, relative a
determinati siti utilizzati dalle forze armate e potenzialmente contaminati
dalla presenza di amianto, gas radom o elementi radioattivi specifici
utilizzati nel sistema di tracciamento IR del missile Milan.
Oltre a questo la Relazione si è soffermata ampiamente di
nuovo sulla somministrazione dei vaccini.
Ricordando gli esiti del progetto Signum e gli studi del
Prof. Nobile sui militari della Folgore che collegavano in maniera molto netta
il significativo incremento della frequenza di alterazioni ossidative del DNA
dei linfociti con un numero di vaccinazioni superiore a cinque, il documento
raccomanda che tale numero divenga limite prescrittivo nella somministrazione
di vaccini ed adottato come specifica prescrizione.
Indicazioni utili anche per civili e bambini?
A tale proposito la Commissione suggerisce di
predisporre una serie di esami pre-vaccinali specifici per individuare i
soggetti particolarmente esposti a patologie gravi e per i quali è
assolutamente sconsigliabile la vaccinazione, estendendo tali test in futuro
anche alle reclute in fase di valutazione di idoneità all’arruolamento. In ogni
caso per tutto il personale in servizio si raccomandano esami prima della
somministrazione, per valutare immunità già acquisite e si sottolinea l’opportunità
di non effettuare vaccinazioni in prossimità della partenza per le missioni,
perché indurrebbero uno stato di immunodepressione che aumenterebbe
paradossalmente il rischi di contrarre quella stessa malattia o altra
patologia.
Infine la Commissione esprime il convincimento che farmaci
vaccinali forniti in soluzione monovalente e monodose ridurrebbero
significativamente i rischi della profilassi vaccinale, in particolare in
presenza di soggetti già immunizzati nell’infanzia, con profilassi specifica o
per aver contratto la malattia.
Dopo quasi vent’anni di polemiche spesso ideologiche e ben
poco scientifiche, accese campagne di stampa talvolta fuorvianti, circa 4000
soggetti ammalati ed alcune centinaia di decessi, sembrano finalmente
identificate con sufficiente chiarezza le cause principali di un fenomeno così
grave e devastante.
Nell’auspicare che il Ministero della Difesa e la Sanità
Militare diano attuazione con la massima sollecitudine e solerzia alle
direttive espresse dalla Commissione, non possiamo ignorare che l’apparizione
di questo autorevole documento sia coinciso con le forti polemiche registrate
in tema di vaccinazione dei bambini in età scolare, vaccinazioni numerose (10
obbligatorie e 4 facoltative) ed effettuate anche con farmaci polivalenti.
A dispetto delle granitiche certezze manifestate più volte
dal ministro della salute ci domandiamo se non sia opportuno suggerire anche
per i bambini maggiori cautele e specifici accorgimenti pre-vaccinali per
escludere rischi legati all’iperimmunizzazione, valutando caso per caso i
possibili effetti delle somministrazioni sull’equilibrio immunitario.
Fonte: da ANALISI E DIFESA del 28 settembre 2017