Per affrontare la lettura del libro Manifesto
capitalista (sottotitolo: Una rivoluzione liberale contro
un’economia corrotta) si devono superare una repulsione psicologica nei
confronti di un titolo davvero infelice e l’ostacolo “di pelle” verso
l’autore, quel Luigi Zingales che è passato alla cronaca per la
maramaldata nei confronti del suo (fino ad allora) amico e sodale Oscar
Giannino, che invece – a onta della disavventura – continua a essere
simpatico ai più.
Una volta superate queste giustificate repulsioni, si
trova un lavoro interessante e ben costruito, ma scritto per “addetti ai
lavori”, pieno di tecnicalità che
disorientano parecchio il lettore medio, ed evidentemente scritto per un
pubblico americano, con riferimenti e modalità molto americani. Infatti è la
traduzione di A Capitalism for the
People, dal titolo originario un pochino più efficace.
Anche per tutte queste ragioni, la parte decisamente
più interessante è la postfazione aggiunta all’edizione italiana nella quale si
affrontano le vicende di casa nostra con una serie di elementi di analisi
condivisibili. Descrive lo
Zingales le condizioni di illegalità diffusa in cui sono costretti a muoversi
gli operatori economici nella penisola: qui il familismo amorale prevale sulla
competenza, non esiste reale libertà di concorrenza, la meritocrazia è un
concetto del tutto ignoto, non esistono regole chiare né un quadro legislativo
certo che proteggano i migliori e moralizzino il mercato e
l’imprenditorialità. Tutte cose risapute che l’autore ha il merito di
riuscire a descrivere con chiarezza anche grazie a una visione culturale
“esterna”. Dove il suo ragionamento mostra qualche limite è nella
enunciazione di come “creare le condizioni per la meritocrazia” e per
riportare l’Italia a una condizione di accettabile civiltà.
I limiti nella sezione propositiva sono
paradossalmente la parte più interessante del libro perché sono
fondamentali nel comprendere i caratteri e gli errori di una certa parte del
liberismo italiano: il ragionamento sviluppato dallo Zingales consente di
chiarire l’atteggiamento di una vasta parte del mondo liberale e
liberista.
I ragionamenti e – soprattutto – le proposte di soluzione
sono inappuntabili ma peccano di generalismo, sono limitate dal loro essere un
po’ apolidi e mondialiste. La situazione italiana è molto specifica e la
mancata comprensione di questa specificità storica, culturale e anche
antropologica è alla base dell’impotenza e del fallimento che si porta
addosso una bella fetta del mondo liberale italiano, dal più moderato (liberale
più a parole che nella sostanza) espresso dal berlusconismo, fino a
quello che si proclama più estremo e coerente del gianninismo e del milieu che
ruota attorno all’Istituto Bruno Leoni.
Tutto l’universo culturale e politico di costoro è
infatti costruito su giuste considerazioni che hanno il pregio ma anche il
difetto dell’universalità ma che tralasciano alcune specificità italiane.
Zingales esprime questa posizione quando elenca i
requisiti per garantire la meritocrazia e con essa la libertà di mercato e una
vera condizione liberista. Ne snocciola cinque: 1) la necessità di una efficiente giustizia penale e civile; 2) un fisco più giusto ed efficiente
con imposte più basse, certe e pagate da tutti; 3) regole chiare, comprensibili e rispettate per la concorrenza; 4) privatizzazioni vere; 5) risoluzione dei conflitti di
interesse. Aggiunge poi la necessità di favorire la meritocrazia mediante un
efficace sistema scolastico e una legge elettorale funzionante.
Tutte cose belle, buone e sante che valgono per qualsiasi
paese e condizione, e che perciò risultano essenziali anche per l’Italia ma
che qui non bastano.
Lo Stato è la sola garanzia di sopravvivenza dell’Italia:
lo statalismo è impossibile da ridurre perché è base stessa dell’unità. Libertà
e concorrenza si declinano naturalmente con un sistema federale e di autonomie,
che in Italia significherebbe però la fine dell’unità e perciò dell’Italia
stessa.
L’unità italiana si basa sull’associazione forzata di almeno
due gruppi di comunità: uno di struttura europea (e quindi bisognoso di libertà
e concorrenza) e uno che ha imparato a sopravvivere solo in forma parassitaria:
come succede per i parassiti animali e vegetali, la loro concentrazione
risponde anche a logiche spaziali e, quindi, geografiche.
Solo in Italia esiste una ossessiva interferenza sui
rapporti economici di efficienti strutture malavitose e – soprattutto – una
stretta interdipendenza fra queste e lo Stato.
L’immigrazione ha superato nei numeri e nella virulenza ogni
limite di guardia e gli immigrati sono diventati uno dei maggiori ostacoli a
una riforma liberale, alla concorrenza e al mercato. Con buona pace dello
stesso Zingales che, a un certo punto del suo ragionamento, arriva addirittura
(soggiogato dalla opportunità di essere politicamente corretto) a descrivere
gli immigrati come motore di cambiamento positivo.
Se non si tengono in debita considerazione questi elementi,
ogni progetto di riforma liberale è destinato a fallire: l’Italia non è un
paese normale e non potrà mai esserlo. Il solo intervento salvifico nei sui
confronti è di eutanasia.
Insomma, la ricetta liberista di Zingales si rivela
come la più puntuale cartina al tornasole dei limiti di certo liberismo, che
infatti non va da nessuna parte.
Esso può avere una funzione salvifica e determinante solo se
viene associato all’indipendentismo. L’Italia intera non potrà mai essere
liberale: diversa è la vocazione di sue cospicue parti geografiche,
che sono state la culla della libertà e del liberismo e possono rinascere e
prosperare solo se liberali, indipendenti e libere. C’è una parte
strutturalmente liberale e una inevitabilmente statalista e le due non possono
più convivere.
Come sempre, le motivazioni di ordine economico sono
sacrosante e sono l’elemento scatenante di ogni cambiamento, ma senza cuore,
passione, ideali e bandiere, non vanno da nessuna parte.
Fonte: srs di GILBERTO ONETO, da L’Indipendenza del 2 maggio
2013
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