Di Alberto Solinas
Alberto Solinas (a
sinistra con il cane Virgo) durante una
visita al sito archeologico del Ponte di
Veja, 1981
Alberto Solinas, nato a Verona il 24 giugno 1940,
diplomato alla scuola d'arte Napoleone Nani nel 1958. «Figlio d'arte» di
Giovanni, si interessa di archeologia. Nelle sue ricerche accumula una grande
esperienza e conoscenza in campo paletnologico, che lo porta a scoprire il
paleosuolo di Isernia. Questo
accampamento del Paleolitico inferiore europeo è una delle più grandi scoperte
paletnologiche di tutti i tempi
1. STORIA DELLE RICERCHE
Il presente lavoro vuole illustrare come si sono svolte le
ricerche preistoriche, e come si è inserito l'uomo in Avesa e nella zona
circostante.
È da tener presente che le date e le ipotesi che si
avanzano, col passare degli anni possono subire dei cambiamenti, perché la
preistoria è una scienza molto giovane e quindi soggetta a continui
aggiornamenti. Quando andiamo a passeggiare, o a compiere delle scampagnate sulle
nostre colline, in genere non osserviamo con attenzione il terreno che
calpestiamo, altrimenti noteremmo quei fenomeni geologici che lo hanno
plasmato, e osserveremmo prima o poi, quelle pietre del tutto particolari, le
cui forme possono difficilmente spiegarsi come scherzi della natura: lame
sottili, ciottoletti più o meno rotondeggianti, punte, ecc., tutte per lo più
con quella patina lucida e biancastra, oppure variamente colorate e
dall'aspetto vetroso: sono le selci volgarmente chiamate folende.
Questi «sassi» si trovano generalmente concentrati in alcune
aree della collina, oppure, più raramente, nella pianura ai piedi delle
colline, ivi trasportati e sepolti dai dilavamenti delle piogge e delle nevi di
migliaia di stagioni, assieme alla terra che ricopriva i colli, formando
depositi terrosi che innalzarono il fondo delle valli.
Le concentrazioni di queste selci (lame, raschiatoi,
picconi, punte di freccia, scarti di lavorazione ecc.), che rinveniamo
abbandonati sul terreno nella zona di Avesa, sono parte degli strumenti che
servirono all'uomo primitivo per la sua attività, e costituiscono le più
tangibili testimonianze dei villaggi da lui costruiti sulle cime delle colline
migliaia di anni fa.
Oggi noi troviamo in superficie i manufatti si licei più
recenti, mentre i più antichi li possiamo rinvenire, o nelle grotte (come nei
ripari Mezzena e Zampieri) oppure, come abbiamo detto, trasportati nelle valli
dai fenomeni atmosferici, e depositati negli strati terrosi più profondi
(esempio: le cave di Ca' Rotta).
I primi strumenti silicei rinvenuti nei pressi della nostra
città, vennero raccolti nel 1874
sulla dorsale collinare a est di Avesa. Dopo circa 60 anni, nel 1930, si aprì
la cava di argilla ai piedi del monte Croceta
(Ongarine), in cui degli «appassionati» trovarono strumenti riferibili al
Paleolitico inferiore, i primi rinvenuti a nord del Po.
Nei trent'anni successivi, la zona Avesa-Quinzano si rivelò
della massima importanza per lo studio della preistoria, in quanto si è
scoperto che l'uomo vi ha lasciato le tracce della sua esistenza
«ininterrottamente» dall'antica età della Pietra fino ai nostri giorni: si è
qui in presenza di un fenomeno unico in Italia. Ciò fu possibile perché anche
le inondazioni dell'Adige rispettarono quell'angolo di terreno allo sbocco
delle due valli di Avesa e Quinzano, lasciandolo intatto. Purtroppo, questo
prezioso deposito, che poteva offrire ancora tanto materiale di studio, e forse
anche la soluzione di importanti problemi archeologici, è stato praticamente
distrutto con la costruzione di edifici sopra il deposito stesso.
La storia delle ricerche sulle tracce lasciateci dall'uomo
preistorico attorno ad Avesa, inizia con l'indiscusso padre della paletnologia
veronese Pietro Paolo Martinati. Egli ci fornì notizie delle sue ricerche,
compiute nelle vicinanze di Avesa, nell'occasione del discorso pronunciato alla
Prima Esposizione Preistorica Veronese, del 20 febbraio 1876, nel quale
annunciò che:
«Non è offesa da verun
dubbio l'antichità delle numerose selci tagliate che nell'autunno dell'anno
1874 osservai e raccolsi a fior di terra nello spiano che prospetta
l'amenissima Valpantena, fra le due ultime torri del colle detto Monte Cain o Gain con parte di un grande femore bovino».
Agostino Goiran
Agostino Goiran
Queste selci vennero esposte alla mostra e descritte nel
catalogo da Agostino Goiran (1), nel quale leggiamo:
«Espositore: Martinati Pietro-Paolo (a) Monte Gaino
o Caino presso Verona.
1. Porzione di femore
di bue;
2. Sassi da fionda,
coltelli, seghe, nuclei, scaglie ed altri oggetti di selce per la massima parte
tramutatasi in cacholongs; (2)
3. Punte di
giavellotti;
4. Una freccia
triangolare, altra freccia a foglia d'ulivo, tre frammenti di freccia».
Se Pietro-Paolo Martinati, invece di limitarsi alla dorsale
collinare, si fosse abbassato un poco, e avesse avuto in quel tempo
l'intuizione logica che successivamente ebbe Giovanni Solinas, secondo il quale
un villaggio preistorico aveva la necessità di una sorgente d'acqua vicina per
la sua fondazione, si sarebbe recato alla vicinissima sorgente del Copo (versante di Avesa) e avrebbe così scoperto il
primo villaggio preistorico sulla collina veronese.
Per circa 60 anni, nessuno dei maggiori studiosi di
paletnologia veronese come: Luigi
Pigorini, Carlo Cipolla, Giuseppe e Gaetano Pellegrini, Agostino Goiran, Stefano De Stefani, Achille
Forti, Ramiro Fabiani, Giorgio Dal Piaz, Alfonso Alfonsi e Raffaello
Battaglia si interessò a quelle ricerche paletnologiche iniziate da
Pietro-Paolo Martinati sulla collina a nord di Verona. Ai piedi del Monte
Croceta, nell'anno 1930, a circa metà' strada dell’attuale via Cava Bradisa e a occidente della stessa
(a nord-nord-est di villa Ca' Rotta),
la ditta Giovanni Battista Righetti
e Figli di Verona apriva una cava in località Bradisa per l'estrazione dell'argilla per la fabbricazione di
mattoni.
Una cartolina inviata a Giovanni Solinas «Paletnologo»
dagli amici del Museo di Storia Naturale di Verona, Sandro Ruffo, Angelo Pasa e
Francesco Zorzi nel 1933.
Nel 1932 si formò, all'interno del Museo Civico di Storia
Naturale di Verona, un gruppo di appassionati naturalisti, composto dal
trentaduenne paletnologo Francesco Zorzi
(assistente del direttore del museo Vittorio
dal Nero), dal geologo e paleontologo Angelo
Pasa allora poco più che ventenne, dallo studente Giovanni Solinas di diciotto anni, che collaborava con Zorzi e
Pasa, ed infine dal più giovane di tutti, il diciassettenne studente Alessandro Ruffo, futuro zoologo.
Di questo gruppo, il primo che si interessò dell'area
all'imbocco delle due valli di Avesa e Quinzano, fu Angelo Pasa che
periodicamente visitava la cava d'argilla, chiamata dagli operai Bradisa
(successivamente prenderà il nome di «cava orientale») (3). Qui egli raccolse delle ossa fossili e alcuni strumenti di
selce.
Non potendo essere continuamente presente all'estrazione
dell'argilla e di conseguenza non potendo raccogliere tutto il materiale che
gli interessava, propose agli operai di raccoglierlo per lui, che lo avrebbe
acquistato (il proprietario della cava, fino al 1938 non sapeva nulla dei
«guadagni» extra dei suoi operai e delle ricerche intraprese dal «gruppetto» di
appassionati naturalisti nelle sue cave) (4).
Il vecchio cavatore d'argilla Giulio Montresor era quello che vendeva maggiormente gli «ossi» e
le folende (selci) a Angelo Pasa. Agli inizi dell'anno 1933, questi,
resosi conto che il rinvenimento di selci aumentava, consigliò il Montresor a
venderle a Francesco Zorzi (5). Nel
1934, Zorzi accertò che la cava Bradisa
stava restituendo manufatti
importantissimi dell'industria paleolitica, e capì l'importanza del materiale
paletnologico: così, oltre ad acquistare le selci, iniziò a frequentare la cava
(6).
Planimetria della bassa valle di Avesa-Quinzano nel 1944-45, e posizione delle cave: 1) Cava
Vecchia o Occidentale e Cave Nuove; 2) Cava Bradisa (orientale); 3) Cava del
Cesiolo. Scala 1:25.000. (Da Zorzi F. - Pasa A. op. cit. 1944-45).
Seguendo i lavori di estrazione dell'argilla, Zorzi ben
presto si rese anche conto che nella Bradisa non esistevano solo selci di epoca
paleolitica, ma di quasi tutti i periodi preistorici. Questo fatto lo portò a
esplorare la zona attigua ad Avesa, con il risultato dell'individuazione di due
località preistoriche sul Monte
Calzerega e sul Monte Croceta (7).
Visti i buoni risultati ottenuti da Francesco Zorzi nelle
ricerche sulla collina, Giovanni Solinas
nel 1936 iniziò una serie di
ricognizioni sistematiche lungo le dorsali collinari comprese tra Avesa e
Quinzano, spingendosi a nord fino a Montecchio. Le esplorazioni dettero buoni risultati e
portarono all'individuazione di tutta
una serie di abitati preistorici.
Essi si trovano sul :
- Monte Cavro o Cavre,
- Monte Triarcole,
- Monte Faldè,
- quota 391,
- Monte Pavaglio,
- Le Rosele,
- Tramanal,
- I Patrizi,
- Tre Tempi,
- Ca' del Gabi,
- Monte Cossa,
- Monte Tosato,
- il Maso,
- Spigamonte,
- Monte Sarte, -
- Monte Spigolo di Avesa,
- Monte della Cola,
- Monte Spigolo di Montecchio,
- le Are,
- la Torricella la, attorno alla Fontana di Sommavalle,
- quota 239,
- il Còstolo,
- quota 326,
- Monte Arzan,
- dosso Ca' Vecchia, -
- Monte Croson -S. Vincenzo,
- Monte Solan,
- Montesel del Rocolo,
- la Crucola,
- Castejon,
- il dosso dei Gaspari,
- i monti della Tenda, l
- a Caseta (8).
Tutti i manufatti silicei raccolti da Giovanni Solinas
indicavano una serie di abitati preistorici costruiti sulle dorsali collinari:
ciò costituì una novità per la preistoria veronese. Ma tutti questi manufatti
non vennero e non vengono tenuti in considerazione per il fatto che le selci
non furono trovate in scavi regolari bensì in superficie.
Piano d'assieme delle cave di Ca' Rotta: 1) Cava
Vecchia (il punto nero segna la «Buca fonda»); 2) Cava Bradisa; 3) Cave Nuove. Le frecce indicano le principali
correnti alluvionali che causarono il riempimento delle cave. Scala 1:4.000. (Da Zorzi F. - Pasa A. op. cit.
1944-45)
Nel 1937 si
iniziò lo scavo della cava Vecchia o
occidentale; l'anno 1938 fu importante per i ritrovamenti: si rinvennero
parecchie selci musteriane, una amigdala acheuleana e il famoso osso occipitale umano. Francesco Zorzi si rese veramente
conto della grande importanza del deposito, e il 5 dicembre 1938 comunicava
alla Reale Soprintendenza di Padova che a Ca' Rotta gli operai avevano
rinvenuto ossi di animali e oggetti silicei (9).
L'amigdala acheuleana proveniente dalla «Buca fonda»
della Cava Vecchia. Lo stato fisico dell'amigdala e degli altri manufatti
silicei, trovati nello stesso strato, non presentano segni di rotolamento o
di accentuata degradazione: ciò sembra provare che essi non abbiano subito
trasporto naturale da luoghi vicini, ma si trovino in giacitura
primaria. Scala 1:1.
Il 15 dicembre, il prof. Raffaello Battaglia si recò a Verona, visitò la cava di Ca' Rotta ed esaminò il
materiale trovato (10). Durante il
sopralluogo, Zorzi si accorse che il Battaglia non mostrava interesse al
materiale preistorico, per cui inviò tutte le selci al prof. Paolo Graziosi dell'Istituto di
Paleontologia Umana di Firenze (11).
L'invio del materiale siliceo da parte dello Zorzi al Graziosi, provocò naturalmente un
contrasto tra i due studiosi (Zorzi e Battaglia), tanto che, durante gli scavi
regolari effettuati dall'aprile all'agosto dell'anno 1939 nella cava Vecchia
sotto la direzione di Raffaello Battaglia, a quanto pare, Zorzi non fu
presente: ciò si deduce da quanto scrive Battaglia stesso nel suo studio del
1939:
«Nelle mie visite agli
scavi ho potuto controllare come fu raccolto il materiale da parte degli operai
della cava per conto dello Zorzi. Il vecchio cavatore Giulio Montresor, ora
occupato nei nostri scavi, e che fu il principale fornitore di materiale allo Zorzi,
mi assicurò in modo categorico che a partire dal 1933, tutte le selci e le ossa
che venivano raccolte dagli operai durante l'estrazione dell'argilla, egli le
portava allo Zorzi, col solito specchietto della 'mancia competente'. Il Montresor mi assicurava che la maggior
parte delle selci (musteriane) meglio lavorate furono raccolte nella cava
orientale, in località Bradisa, la quale venne completamente esaurita già
durante l'anno 1937. Va corretto quindi,
in base alle assicurazioni dello Zorzi, che tutto il materiale da me esaminato
era stato raccolto nel corso di pochissimi mesi ... I depositi argillosi di Quinzano sono nel complesso
poveri di materiale, perché ci vogliono intere giornate di lavoro per
raccogliere qualche scheggia di selce o qualche pezzetto di osso. Pare che tali
ritrovamenti diventino un po' meno rari
negli strati più profondi del deposito ... e si possono dividere in tre gruppi:
selci di tipo neolitico e eneolitico e
di tipo campignano; selci musteriane;
selci chelleane»,
Sezione delle cave di
Ca' Rotta: 1) Cava Vecchia (la parte più bassa era conosciuta come «Buca
fonda»); 2) Cava Bradisa; 3) Cave Nuove. Scala 1:1250. (Da Zorzi F. - Pasa A.
op. cit. 1944-45)
Francesco Zorzi, oltre a non partecipare allo scavo, non
ebbe, a quanto sembra, neanche più contatti con Battaglia, perché in caso
contrario, ci sarebbero stati dei chiarimenti sulla sua prima lettera spedita,
come si è detto, in data 5 dicembre 1938 alla Reale Soprintendenza di Padova,
nella quale diceva:
« ... risulta che le
località in cui si eseguono i lavori di scavo corrispondono a due appezzamenti
di terreno ... Un muro divisorio separa i due lotti, dei quali l'orientale
(Bradisa, n.d.r.) fu sfruttato fin dal 1937 (Zorzi doveva scrivere 1930,
n.d.r.) e diede industrie liti che preistoriche» (12).
Perciò Battaglia ritenne che tutte le selci vennero raccolte
in pochi mesi, anche per il motivo che durante la sua prima visita del 5 dicembre 1938, dice:
« ... potei esaminare,
in una rapida visita, il materiale già
immesso nel Museo e visitare, guidato dal signor Zorzi la cava di argilla».
Zorzi come si comprende da questo scritto, mostrò al
Battaglia solo la cava occidentale, cioè la Vecchia, perché la Bradisa era
nascosta dal muro che divideva le due cave, ed era già stata chiusa fin dal
1937, e quindi aveva «perso» il suo interesse scientifico.
Sezioni stratigrafiche della cava Vecchia rilevate da
Angelo Pasa e Francesco Zorzi, con le posizioni degli oggetti ivi trovati: 1) corno di cervo e frammenti di denti di
elefante; 2) grande selce
acheuleana; 3) frammenti di ossi e di denti di elefante; 4) cranio di elefante; 5) amigdala acheuleana; 6)cranio di cervo e
frammenti indeterminati; 7) megàcero; 8) occipitale umano; 9) tibie
di elefante; 10) piccolo corno di cervide. Sulla grande quantità di materiale
archeologico e faunistico rinvenuto in così poco spazio, il geologo Mauro
Cremaschi scrive « ... e, soprattutto una notevole quantità di industria litica
senza traccia di trasporto postdeposizionale, di tecnica levallois e bifacciali,
associata a fauna tra cui Helephas e cervidi, ... è con tutta probabilità da
legarsi come un suolo d'abitato sepolto». (Cremaschi M. I paleosuoli ed
i depositi atriali delle cavità carsiche e dei ripari, in «Il Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca
Popolare di Verona 1984).
Quando Zorzi spedì il materiale preistorico al prof. Paolo
Graziosi, fu molto più esplicito con lui. Gli mandò dei cartoncini - come si usava
allora - con sopra legate le selci provenienti dalle due cave; le selci erano
attaccate in modo alquanto confuso, perché Zorzi le sistemava secondo le
indicazioni stratigrafiche indicate dagli operai che estraevano l'argilla. A
volte succedeva che alcune selci molto più «recenti» cadessero dall'alto delle
cave andando a finire sul fondo mischiandosi con le più antiche esistenti alle
basi delle cave stesse: per questo motivo, gli operai davano indicazioni errate
allo Zorzi.
I circa 70 manufatti silicei che raccolse nelle cave, Zorzi
li divise in tre gruppi: i primi due erano composti da 43 pezzi provenienti
dalla cava Bradisa: il gruppo più copioso portava l'indicazione da
profondità 7-8 m, quello più esiguo 6-7 m; il terzo gruppo era
composto da 25 manufatti provenienti dalla cava Vecchia e recava l'indicazione strati
5 e 6; ma alcuni:
« ... provengono senza
dubbio dalla superficie del suolo... si tratta di alcune lamette che possono
ben figurare in un complesso neolitico» (13).
Il prof. Paolo
Graziosi, una volta ricevuto il materiale preistorico, lo ritenne subito di
grandissima importanza e si recò a Verona due volte: il 24 gennaio e il 20
febbraio 1939. Anche in quelle occasioni Zorzi fu molto più esplicito con lui
che non con il prof. Battaglia nell'illustrare le cave di Ca' Rotta, tanto che
Graziosi scriveva nel 1939:
«Circa un mese fa il
signor Francesco Zorzi, direttore del Civico Museo di Storia Naturale di
Verona, mi comunicò di aver scoperto ai piedi del monte Ongarine, un giacimento
quatemario ... Quando visitai per la
prima volta il giacimento di Ca' Rotta, la cava orientale (la Bradisa, n.d.r.)
era stata interrata e sulla zona si estendevano di nuovo le colture agricole.
Nessuna possibilità quindi di studiare quella parte del giacimento che aveva
dato a suo tempo manufatti litici. Una trentina di metri più a valle, invece,
la cava occidentale (la Vecchia, n.d.r.) era, e lo è tuttora, in efficienza.
Un'ampia cavità subrettangolare si approfondiva nel terreno argilloso per una
dozzina di metri e su di una estensione di circa 500 mq».
Il prof. Graziosi, vista l'importanza del giacimento di Ca'
Rotta, si unisce subito al lavoro, e solo un mese dopo, nel marzo del 1939
licenziava le bozze perla stampa della sua nota sul giacimento, nella quale
sottolineava che a Ca' Rotta
«è rappresentato in
modo chiarissimo il Paleolitico inferiore del quale, come è noto, non si era
avuta fino ad oggi alcuna segnalazione in Alta Italia, a settentrione del Po».
Anche il prof. Battaglia, dà il via alla stampa della sua
nota informativa sulle cave di Ca' Rotta il 4 settembre 1939. In essa accenna
nuovamente all'esiguità del materiale siliceo raccolto, ma pone l'attenzione
sull'industria chelleana presente nelle cave e sull'amigdala
«giacché non si tratta
evidentemente in questo caso di un oggetto sporadico raccolto in superficie, ma
di un manufatto 'in situ', in concordanza stratigrafica, a quanto pare, con
l'elefante antico. L'amigdala veronese è inoltre la prima del genere rinvenuta
'in situ' nell'Italia settentrionale».
Terminato lo scavo da parte della Soprintendenza, Zorzi
continua le sue ricerche nella cava Vecchia, e il 20 giugno 1940 raccoglie alla
base dello strato 5° una seconda amigdala.
L'ultimo scavo per l'estrazione dell'argilla nella cava
Vecchia viene eseguito il 3 ottobre 1940, e contemporaneamente si apre la Prima
cava Nuova e poco dopo la Seconda cava Nuova; nel febbraio del 1941 si inizierà
lo scavo nella Terza cava Nuova. In tutte queste cave lo Zorzi raccoglie nuovo
materiale siliceo, frammenti di ceramica dell'età del Bronzo, dell'età romana e
del XV o XVI secolo. Questa attività di
ricerca ebbe termine nel marzo del 1941, perché Zorzi si vide consegnare dalla polizia tributaria una diffida, da parte del Soprintendente di
Padova prof. Brusin (14).
Nel 1942 il prof. Piero Leonardi scrive una nota su tutto il
materiale rinvenuto durante le ricerche eseguite dalla Soprintendenza di
Padova. Il risultato di questo suo studio è simile ai due precedenti fatti dal
Graziosi e dal Battaglia.
È giusto a questo punto riportare quanto scrive il Leonardi
sulla stratigrafia delle cave di Ca' Rotta, per avere un'idea reale del loro
contenuto preistorico:
«Gli strati più
antichi (6° e 7°), hanno fornito una caratteristica e omogenea industria litica
musteriana riferibile ad un Paleolitico medio molto antico ... Lo strato 5° si è rivelato poverissimo di industria ... È
probabile che lo strato 5° sia più ricco
di industria in altra zona della cava ed abbia fornito i numerosi manufatti di
tipo musteriano più evoluto ... Lo strato 4° (crostone concrezionato) è
sterile. Il 3° si è pure rivelato assai povero di industria, e ciò è piuttosto
spiacevole perché la sua esatta datazione presenterebbe particolare interesse,
essendo stato trovato alla sua base il ben noto occipitale umano. Fra i non
molti manufatti rinvenuti ... propendo a ritenerli riferibili al Paleolitico
superiore, non si può escludere che essi siano già neolitici. In ogni caso è
quasi certo che il Paleolitico superiore è rappresentato nel deposito di Ca'
Rotta. Infine gli strati 2° e 1 e per la presenza della ceramica e per la
tipologia dei manufatti si dimostrano sicuramente riferibili alle culture
neo-eneolitiche».
Da questi dati, oggi si può comprendere l'importanza che
avevano le cave di villa Ca' Rotta, nelle quali l'uomo lasciò le sue tracce
«ininterrottamente» per ben 250 mila anni, cosa tuttora unica in Val Padana.
Nel 1945 Francesco Zorzi
e Angelo Pasa, pubblicano la nota sui depositi di villa Ca' Rotta (15), dove vengono per la prima volta
chiariti e trattati, gli aspetti paleontologico, paletnologico e geologico.
Circa 40 anni dopo, mi diceva il prof. Francesco Tagliente, che nel riordinare il materiale siliceo giacente
nel Museo di Storia Naturale di Verona,
sono stati ritrovati degli strumenti del Paleolitico superiore raccolti nelle
cave di Ca' Rotta nel lontano 1946 da mio padre Giovanni; mi faceva notare
l'importanza di quel materiale purtroppo mai pubblicato, che costituiva a
quell'epoca i primi strumenti appartenenti al Paleolitico superiore rinvenuti a
nord del Po. Infatti le prime notizie su questo periodo nel Veneto, si
riferiscono alle industrie litiche delle grotte
del Broion sui colli Berici trovate nel 1951 dal prof. Piero Leonardi (16).
Dobbiamo tener presente però, che nel giacimento di villa
Ca' Rotta alcuni manufatti raccolti da Zorzi o durante lo scavo regolare,
vennero descritti dal Graziosi e dal Leonardi come probabili appartenenti al
Paleolitico superiore. È certo che se a questo materiale si fosse aggiunto
quello trovato dal Solinas, e fosse stato tutto mostrato agli studiosi
interessati alle cave di Ca' Rotta, si sarebbe risolto molto prima il problema
del Paleolitico superiore a nord del Po, senza dover attendere il 1963, anno di
pubblicazione dello studio di Broglio e Zorzi sull'industria del Paleolitico
superiore nelle grotte del Ponte di Veja, in cui si afferma (17): «D'altra parte lo studio delle tre industrie del Paleolitico superiore
di Veja porta un contributo essenziale alla conoscenza del Paleolitico
superiore della Valle Padana, ignoto sino agli scavi di Veja ed ancor oggi
conosciuto solo in poche stazioni, con industrie piuttosto povere ... ».
Prima di chiudere con l'argomento sul Paleolitico superiore,
dobbiamo notare con rammarico ciò che scrive al riguardo Raffaello Battaglia nel 1957:
«Il materiale veronese
è purtroppo, dopo tanti anni dallo scavo, ancora e sempre inedito».
Cosa scriverebbe oggi il Battaglia, se sapesse che nella
bellissima opera Il Veneto nell'antichità edito nel 1984, non è neanche
citato questo preziosissimo materiale, importantissimo per il motivo che
costituisce l'industria (di questo periodo) trovata «in pianura» alla quota più
bassa, 66 metri sul livello del mare, l'unica finora della Valle Padana?
Raffaello Battaglia - essendo un antropologo - scrisse pure
una nota informativa nel 1939 sul frammento di cranio umano raccolto nella cava
Vecchia.
Tuttavia le notizie poco chiare fornite dallo Zorzi al
Battaglia fecero sì che anche l'osso occipitale iniziasse malamente il suo
percorso scientifico: lo strato di provenienza non era sicuro, e della rottura dell'osso venne
incolpato ingiustamente l'operaio Giulio Montresor: l'osso occipitale umano,
raccolto integro, è stato rotto in più pezzi dall'operaio nel portarlo a Verona
allo Zorzi, è stato detto. Solo nel 1945 si seppe la verità, quando
Francesco Zorzi scrisse come venne trovato l'osso:
«Nel pomeriggio del
giorno 8 ottobre 1938 nella cava Vecchia alla base dello strato terzo in
argilla rossa, l'operaio Fagioli Bortolo
battè col piccone contro un osso occipitale umano che andò in pezzi. In parte
questi furono raccolti e ci vennero consegnati la sera stessa da un altro
operaio: Giulio Montresor. Dopo aver messo insieme quattro frammenti e
constatata con facilità la mancanza di altri minuti pezzi, ci recammo sul posto
la sera stessa per cercarli e li trovammo subito fra la terra rossa».
Il Battaglia nella citata nota informativa, fa osservare
che, sebbene analizzato superficialmente, l'osso, senza alcun dubbio presenta
uno stato di fossilizzazione molto antico, che non si tratta di un
occipitale riferibile al Palaeanthropus Neandertalensis.
L'osso occipitale rinvenuto nella Cava Vecchia di Ca'
Rotta datato all'interglaciale Riss-Würm (120.000-80.000 anni fa).
Fotografato in grandezza naturale. (Battaglia R. op. cit. 1947-48).
Più specificatamente il prof. Battaglia tratterà lo studio
dell'osso occipitale nella nota scritta nel 1943, ma stampata solo nel 1948 (18). In questa nota egli ribadisce che,
nonostante la posizione stratigrafica e l'età geologica dell'occipitale umano siano incerte,
esse «devono ritenersi contemporanee agli strati inferiori (5°-7°) del
deposito».
In questi strati si rinvennero industrie silicee ricavate
con «tecniche clactoniane e
levalloisiane: ciò dimostra che esse appartengono ad un livello molto antico
del cosiddetto Paleolitico medio».
Pochi mesi dopo, nelle Memorie del Museo civico di storia
naturale di Verona, sempre il Battaglia scriveva un'altra nota sull'occipitale
veronese (19) nella quale ribadiva
la sua tesi: che l'osso appartiene al «periodo
geologico Riss-Würm,
in cui si diffusero sul suolo europeo i più antichi paleantropi neandertaliani
... I caratteri che maggiormente colpiscono esaminando l'occipitale sono:
1) lo stato molto
avanzato di fossilizzazione dell'osso;
2) il suo notevole
spessore;
3) la morfologia di tipo
attuale».
Con ciò il Battaglia voleva dire che l'occipitale
appartenuto a quell'uomo si avvicinava, come struttura cranica, più alle razze
attuali che a quella dei neandertaliani (Angelo
Pasa, nella revisione dei sedimenti delle cave di Cà Rotta (20), colloca gli strati inferiori della
cava Vecchia alla fine della glaciazione rissiana, perciò i dati in linea di
massima coincidono con quelli del Battaglia). Il Battaglia propone così la teoria secondo
cui, assieme all'uomo di Neanderthal, viveva anche un uomo dai caratteri fisici
simili ai nostri.
Questa teoria venne accolta da alcuni antropologi (21), ma da altri osteggiata: fra questi
Sergio Sergio. Ne nacque infatti una diatriba sull'argomento,
alla quale parteciparono anche antropologi stranieri (22). Sergio Sergi (23)
ritiene l'occipitale veronese un «documento
non attendibile, perché non è provata la sua posizione stratigrafica» nel
terreno. La persona più direttamente interessata all'occipitale era lo stesso
scopritore, il prof. Zorzi, il quale sostenne la tesi del Battaglia e indicò la
«sua posizione nello strato, nel quale, a
breve distanza, fu rinvenuto anche un raschiatoio litico prettamente musteriano»,
per questo fatto «l'osso occipitale umano
fu attribuito al periodo musteriano» (24).
Anche questo scritto non venne tenuto in considerazione, nemmeno nell'ultima
edizione del noto volume Razze e popoli della terra, UTET, Torino, 1967.
Finalmente nel 1971, riappare
l'occipitale veronese nel notissimo Catalogue
of fossil hominids edito
dal British Museum di Storia Naturale di Londra, dove si legge:
«... l'assegnazione al
penultimo interglaciale (Riss-Wiìrm) attribuita all'occipitale di Ca' Rotta dal
Battaglia è avvalorata dai risultati delle datazioni relative (eseguite con
il sistema della flourina e con la stima
radiometrica dell'uranio) eseguite dal British Museum»; con queste datazioni - basate su leggi fisiche
- rese possibili solo da pochi anni, si ha la conferma di tutto quello che fin
dall'inizio aveva intuito e sostenuto Raffaello Battaglia e successivamente
confermato dai due studiosi veronesi Zorzi e Pasa, chiudendo così
definitivamente la disputa tra studiosi sull'occipitale rinvenuto nella cava
Vecchia nel lontano 1938.
La tavola rilevata da Angelo Pasa nel 1956 dove
descrive dettagliatamente le fasi pedostratigrafiche e la sua interpretazione
cronostratigrafica che si è evoluta - probabilmente per l'intero Pleistocene -
nella valle di Avesa. La campionatura degli strati terrosi raccolti da Pasa,
prima dell'interramento delle cave di Ca' Rotta, e depositati al Museo di Storia
Naturale di Verona, sono oggi in fase di
riesame da parte del prof. Cremaschi per
una eventuale revisione dei dati raccolti.
Dopo la pausa delle ricerche scientifiche, causata dalla
seconda guerra mondiale, lentamente riprendono le attività nel Museo di Scienze
Naturali di Verona, e alla fine del 1945 si formerà all'interno del Museo
stesso il «Gruppo grotte». Questo gruppo inizierà una serie di
esplorazioni nelle grotte e nei ripari sotto roccia esistenti nelle valli a
nord di Avesa. Al gruppo partecipavano anche Zorzi, Pasa e Solinas, senza però
dimenticarsi delle cave di Ca' Rotta.
Alla fine del settembre 1947, vennero raccolte dagli operai
delle ossa umane (un femore e un bacino in connessione anatomica) provenienti
dagli strati argillosi 19° e 18° (25) nella Terza cava Nuova: si scopriva
cosi una necropoli composta di 13 individui.
I defunti erano stati adagiati in posizione rannicchiata sul
fianco sinistro nella nuda terra, in buche profonde da 50 cm a 1 m, quasi sempre rivestite di pietre, e sembra
anche da grumi o lastre di argilla mal cotta. Le sepolture si trovavano sparse
e senza un orientamento preciso, a distanze variabili l'una dall'altra dai 5 ai
10 m.
Il normale corredo al fianco del cadavere era composto da
strumenti silicei, piccole asce di pietra verde levigata e vasi a bocca
quadrata (26), ma è presente anche
il vaso campaniforme (27). L'inumato
era poi quasi sempre ricoperto di pietrame disposto a forma di cupola (28). Il pietrame fu la causa principale
del cattivo stato di conservazione con cui si sono rinvenuti i resti ossei:
quasi tutti gli scheletri presentavano evidenti caratteristiche di
schiacciamenti; il cranio, nella parte rivolta verso l'alto, era per lo più
deformato, compresso e fratturato; i crani e gli scheletri erano spesso ridotti
ad uno spessore di 5-6 cm: ciò rese impossibile il recupero totale dello
scheletro (di 7 individui si sono raccolti solo frammenti del cranio).
Cleto Corrain e Gilberta Malgeri traggono da questi
reperti le seguenti conclusioni (29):
«Di caratteristico la
serie dei 13 individui sembra avere un'evidente contrazione del volume facciale
rispetto al resto del cranio. Nella faccia, che è lunga e stretta in senso
relativo, non mancano altri indizi di affinamento: orbite ben proporzionate
nelle loro dimensioni; mesoconche; naso stretto in senso assoluto, ma non molto
alto; mandibola gracile nel complesso, ma ben disegnata e con un forte mento.
Non c'è caratteristica importante la quale non designi abbastanza chiaramente
il tipo convenzionale mediterraneo: dolicefalia, ort-ipsicefalia, mesoleptenia,
mesoconchia. La statura è medio-bassa: 162,9 cm, da 9 ossa maschili; 152,0 da 5
femminili ... Si tratta di materiale osteologico, importante anche se non
sicuramente neolitico. Infatti la suppellettile funeraria comprendeva vasi a
bocca quadrata ... ma è presente il vaso campaniforme»,
La presenza del vaso campaniforme nella necropoli venne
negata da Francesco Zorzi nel 1960; ma confermata da Giovanni Solinas nella sua
Storia di Verona del 1981.
1) Frammento di vaso campaniforme rinvenuto sulla Rocca
di Rivoli, disegnato in grandezza naturale; 2) vaso campaniforme (ridotto)
proveniente dalla tomba di S. Cristina, Brescia.
Paolo Biagi (30)
scrive che il materiale in questione è prettamente neolitico. Sennonché il
prof. Giuseppe Perin - grande
appassionato di preistoria - di passaggio a Verona all'inizio del 1948, si
recava a visitare la Terza cava Nuova, dove era situata la necropoli e «proprio
sotto i miei occhi», scrive Perin (31)
«il piccone del cavatore estrae uno
strano oggetto verde: era un'ascia piatta in rame puro». Essa quindi non venne trovata in una tomba (32). Subito acquistata dal prof. Perin
(i cavatori d'argilla non avrebbero dovuto venderla, perché si erano impegnati
a vendere il materiale di interesse scientifico solo agli incaricati del nostro
Museo di Storia Naturale) per evitare che un oggetto così importante andasse
magari perduto, venne tosto da lui regalata al prof. Zorzi. Si noti che a nord
del Veronese sono state rinvenute solo due asce: quella citata e un'altra a
nord di Avesa, alle Colombare di Negrar, vicino a Montecchio.
L'ascia in questione venne successivamente analizzata
accertando che il rame con cui era stata costruita proveniva dalla Spagna.
L'ascia piatta in rame rinvenuto alle Colombare di Negrar
nella capanna n° 1, durante gli scavi compiuti da Giovanni
Solinas nel giugno 1953. Disegnata
al naturale. E vaso a bocca quadrata della necropoli di Ca' Rotta.
Come si può capire da questi scritti, una datazione precisa
della necropoli di Ca' Rotta non è possibile; possiamo però capire dai dati
raccolti la presenza sicura dei vasi a bocca quadrata e dell'ascia in rame,
anche se non rinvenuta in una tomba, la quale ascia, come è noto, è
contemporanea al vaso campaniforme. Ciò starebbe a confermare che la necropoli non era
solo neolitica, ma potrebbe anche essere stata usata durante l'età del Rame;
oggi possiamo dire che la cosa è possibilissima, poiché secondo studi più
recenti (33), la «cultura del vaso campaniforme» ha un
periodo di tempo «molto breve», solo circa 400
anni e si svolgeva all'incirca tra i 4.150
e i 3.750 anni fa. È inoltre da
notare che durante gli scavi eseguiti nel 1953
da Giovanni Solinas nella capanna n. 1, alle Colombare di Negrar, l'ascia in rame ivi rinvenuta era associata a
frammenti di vasi a bocca quadrata e campaniformi.
Con l'ascia in rame si mettè la parola: fine ai rinvenimenti di manufatti di una certa
importanza nelle cave di Ca' Rotta.
Nel mese di marzo del 1949 viene pubblicato lo studio del
prof. Zorzi sul Campignano (34),
dove egli cita tutta una serie di località a nord di Avesa, nelle quali si
rinvengono questi tipici manufatti. Giovanni Solinas faceva notare all'amico
Zorzi, che parecchie località attorno ad Avesa interessate a questo argomento,
e che lui aveva individuato nel 1936, non erano state citate nel suo studio,
sebbene i manufatti campignani fossero stati depositati al Museo (forse erano
andati perduti durante il conflitto bellico). Zorzi e Solinas decisero così di ritornare
sulle colline di Avesa nelle località non citate dallo Zorzi, con il proposito
di arricchire la conoscenza del Campignano veronese.
Nello stesso periodo (1948-49) un altro studioso di preistoria
veronese, Umberto Grancelli(35), nota che alcuni abitati primitivi posti sulle
cime collinari di Avesa (M. Arzan, M. Croson e Castejon o Castagnon di Marzana)
potevano essere considerati dei
castellieri. Della stessa opinione erano anche Zorzi e Solinas (36).
L'anno successivo, il 1950, Giovanni Solinas scrive un appunto sul suo diario: «Domenica 15 Aprile 1950 .. Ad Avesa, ore 10 con Anna e Alberto. Visita
al Dosso dei Giacinti (successivamente si conoscerà il nome locale:
il dosso de la Busona, per
la dolina carsica che si trova su di esso, n.d.r.), Alberto scopre la grotta al Dosso (nelle sengele de la Busona, che prenderà poi il nome di Riparo Mezzena n.d.r.): poche selci ma
importanti.
Ancora selci al Roccoletto, alla Colombara Barbesi, al Dosso
della Lepre (il tenis n.d.r.);
molte al Roccolo Alto - Quota 354, moltissime selci, il più bel
castelliere della provincia. Ore 16
ritorno ad Avesa.
Mercoledì 18 Aprile
1950 con Zorzi a q. 354 detta, sul luogo, Costraga (nome gallico?) ... Nel pomeriggio ho
riordinato il gabinetto di paletnologia»,
In quello stesso anno Giuseppe Perin compiva alcuni
saggi di scavo nei ripari sottoroccia della «Busona» che prenderanno i
nomi «del Presepio», «Zampieri» e «Mezzenna», e consegnava
il materiale paletnologico raccolto al
prof. Zorzi.
Solo dopo sette anni queste tre piccole cavità, poste sul
versante sinistro del vaio Galina di Avesa, verranno prese in considerazione,
quando nell'aprile del 1957 lo studente Franco
Mezzena porterà nuovo materiale al prof. Zorzi. Il quale darà subito inizio
a scavi regolari che porteranno ai ben noti risultati (37).
L'appunto di Giovanni Solinas tratto dal suo diario, dove
annota tutte le località da lui esplorate assieme ai figli Anna e Alberto il 15 aprile
1950.
Nell'aprile 1951 Giovanni Solinas rinveniva
l'importantissimo villaggio preistorico delle Colombare di Negrar.
Nel giugno del 1955
Giovanni Solinas scopriva a sudest della conca di Montecchio, sul Monte Rocolo del Maso a quota 556
circa, un complesso archeologico del massimo interesse, che è purtroppo ancora oggi
misconosciuto dagli «addetti ai lavori»,
ma è invece preso di mira dall'incoscienza degli scavatori abusivi (38).
Il paletnologo Arturo
Palma di Cesnola, nell'autunno del 1958 e del 1959, compiva scavi regolari
nel riparo Zampieri trovandovi del
materiale litico e faunistico, che tuttavia appariva più scarso rispetto a
quello rinvenuto nel vicino riparo Mezzena.
A conclusione di questa prima parte del nostro studio, si
deve sottolineare la grande importanza preistorica che aveva il giacimento di Villa Ca' Rotta, sita all'incontro
delle due valli di Avesa e Quinzano, per lo studio della paleontologia e della
paletnologia. Ma non fu possibile
portare a termine nessuno studio, perché nel 1956 iniziava l'interramento del
suddetto giacimento lasciando irrisolti molti problemi. Per fortuna Angelo Pasa
raccolse dei campioni terrosi per ogni strato delle cave, i quali oggi sono
oggetto di revisione e studio da parte dei geologi. Queste campionature
consentiranno uno studio più aggiornato della sedimentologia delle cave,
risolvendo uno dei tanti problemi legati ad esse (39).
Grave iattura è stata la distruzione, ad opera di vandali,
dei due ripari della val Galina Mezzena
e Zampieri. Oltre 7 mila studiosi di tutto il mondo avrebbero dovuto
recarsi ad Avesa nel 1962 per visitare gli insediamenti neandertaliani Mezzena
e Zampieri, ma l'incoscienza di tre giovinastri, purtroppo rimasti impuniti,
impedì che Avesa divenisse giustamente famosa per la presenza sul suo
territorio di un «testimonio» stratigrafico che costituiva uno dei più
importanti documenti della preistoria.
Dieci anni dopo, 1972, si constatò la necessità di un
riescavo del riparo Mezzena per chiarire alcune incertezze stratigrafiche. Ma
solo nel 1977 si iniziò lo scavo del
deposito lasciato intatto nel 1957. Di questo erano rimasti solo 70 cm di
spessore corrispondenti allo strato III: il resto venne distrutto da venti anni
di scavi abusivi.
Anche nella bassa valle avesana, che arriva fino all'Adige,
la recente e intensa urbanizzazione ha impedito il recupero di reperti
archeologici. Nel 1976, presso la scuola
media «Cesare Battisti», venne alla luce durante uno scasso edile, uno
strato archeologico contenente manufatti neolitici simili a quelli di Ca' Rotta
(40). Una revisione del materiale
siliceo, rinvenuto nelle cave di Ca'
Rotta, venne pubblicato dal prof. Carlo
Peretto nel 1984.
Ad Avesa e nelle zone confinanti, esisteva il più completo
patrimonio preistorico tanto che Avesa, almeno fino al 1959, poteva essere
considerata, come è stato scritto, la «capitale» della preistoria italiana.
Purtroppo, oggi, visitare le numerose località preistoriche per un più
approfondito esame dei reperti, è assai arduo, a motivo delle recinzioni
metalliche delle proprietà, installate di recente. D'altra parte le zone ancora
libere sono preda degli abusivi, che con la loro attività distruggono le
testimonianze degli insedia menti umani.
L'INSEDIAMENTO UMANO E L'AMBIENTE' FISICO DURANTE LA
PREISTORIA
NELLA VALLE DI AVESA
Le attuali conoscenze preistoriche collocano la nascita
dell'uomo in Africa alla fine del Terziario, e precisamente nel Pliocene (il
periodo geologico che va dai 7 milioni ad 1 milione e mezzo circa di anni fa). In Africa, forse circa 6 milioni di anni da
oggi, apparvero i più antichi ominidi (Australopithecus) anatomicamente simili
al genere Homo, con
una capacità cranica di 390-560 cc., i quali vissero fino ai 3-1 milioni di
anni fa.
Attraverso questi antichi ominidi, la continua selezione
naturale permise lo sviluppo di esseri con capacità intellettuali sempre più
elevate. Si pervenne così all'uomo chiamato Homo habilis dotato di ampio cervello (520-760 cc.),
in grado di fabbricare e usare strumenti ricavati da ossa, legni e ciottoli che
trovava facilmente lungo le rive dei fiumi e dei laghi, dove generalmente
viveva. L'habilis, con operazioni di scheggiatura, rendeva il ciottolo
adatto al potenziamento di alcune operazioni manuali come tagliare, spellare,
appuntire bastoni: vera e propria arma degli uomini di quel periodo. Tale
strumentò si chiama choppers
(ciottolo utensile). L'uomo habilis viveva in piccoli gruppi, forse
formati da 15-20 individui, si fermava
lungo le rive dei fiumi o dei 'laghi in campi base per una stagione di raccolta
o caccia.
La vita di questi uomini si calcola non superasse i 20 anni;
essi vissero all'incirca tra i 2,5 - 1,5 milioni di anni fa nelle zone
equatoriali e tropicali.
Durante il Pliocene, nella nostra penisola emergono dal
mare, più caldo dell'attuale, solo l'arco alpino e una parte della dorsale
appenninica, mentre le nostre colline sono lambite dal mare che ricopre ancora
la pianura padana. Tutte queste terre sono coperte da una fitta foresta
tropicale.
Verso la fine del Pliocene
(2,5-2 milioni di anni fa), il clima terrestre si evolve lentamente in senso
temperato, e il livello marino si abbassa notevolmente. Successivamente il
clima si fa sempre più umido e fresco: è il preludio alle imminenti
glaciazioni, che determineranno la fine del Terziario e l'inizio del Quaternario (Pleistocene ).
La ricostruzione geografica ideale dell'Italia all'inizio
del Quaternario, compreso tra i 2 e 1,5 milioni di anni fa, si può così
tracciare: il mare ricopre ancora in parte la pianura padana nonché varie zone
dei litorali adriatico e tirrenico e vaste regioni delle Puglie, della Calabria
e della Sicilia. Sulle terre emerse, in particolar modo in Lessina, il paesaggio rimane ancora in
parte forestale ma si fa più aperto con ampi spazi erbosi, dove pascolano
elefanti, rinoceronti, cavalli, cervidi, bovidi, ecc., insidiati da leoni,
tigri con denti a sciabola (Machairodus) e iene; nei fiumi nuotano ippopotami e
nella foresta vive anche una scimmia (Macaca fiorentina).
All'inizio del Quaternario, in Africa appare una nuova
specie umana molto simile alla nostra, chiamata Homo erectus. Questo uomo è alto metri 1,40-1,60, più
robusto del precedente; possiede una capacità cranica media superiore a 1.000
cc., e a lui si devono meravigliose conquiste umane come l'uso del fuoco, le
tradizioni culturali e religiose, l'utilizzazione delle sostanze coloranti ecc.
Sempre in questo periodo, un nuovo fenomeno geologico e
climatico va lentamente formandosi: sono le glaciazioni, che causano un
ulteriore abbassamento dei livelli marini, perché bloccano lo scioglimento
delle nevi e dei ghiacci. Tali fenomeni danno la possibilità all'uomo erectus
di attraversare il continente africano raggiungendo le zone temperate e poi
l'Europa. L'Homo erectus sembra che raggiunga le regioni meridionali
dell'Europa (Spagna e Francia) verso il milione e mezzo di anni fa. Le sue
tracce le troviamo nel giacimento all'aperto di Chilhac vicino a Brioude in
Alvernia (Francia), dove sono stati raccolti però solo 5 manufatti.
I giacimenti più antichi vicini all'Italia li troviamo a Mentone (Francia) nella grotta del Vallonnet, datati fra i
950.000 e i 900.000 anni fa; segue poi la grotta di Sandalja nei pressi di Pola,
dove si sono rinvenuti solo due ciottoli
lavorati dall'uomo, in un deposito che è stato datato a circa un milione di
anni fa.
Attraverso lo studio di queste due grotte a noi
geograficamente «vicine», si può apprendere che attorno al milione di anni fa,
avviene una variazione climatica, una prima vera espansione glaciale (Günz).
Si instaura un nuovo ambiente poco arboreo, steppico e arido; di conseguenza si
cambiano anche le faune precedenti e si rinnovano con la presenza di elefanti,
e compaiono i megàceri (cervi grandi come cavalli), bisonti, alci, cavalli,
cervi, lupi, cinghiali, ippopotami, rinoceronti, leoni, tigri, leopardi, orsi,
iene, scimmie ecc. Finalmente in Italia appare l'uomo attorno a 850.000 anni or
sono; la sua presenza viene scoperta a Ca'
Belvedere di Monte Poggiolo, nei pressi di Forlì. L'uomo aveva il suo
accampamento più in alto sulla collina e si recava in questo luogo - allora era
il delta padano - per scegliere i ciottoli migliori e per ricavarne,
scheggiandoli, degli utensili.
Segue un nuovo cambiamento climatico temperato, fresco e
molto umido; ritorna un ambiente più alberato, la vegetazione è tipicamente
lagunare e costiera, formata in prevalenza da conifere, tra cui un pino (pino
degli ombrelli) che oggi cresce spontaneo soltanto nell'isola giapponese di
Hondo; conseguentemente si instaurano nuovi tipi di associazioni faunistiche, miste a quelle di
ambienti aperti e forestali; l'acqua comincia a ritirarsi lasciando qua e là
lagune e piccoli golfi, il livello
marino è superiore di 200 m rispetto al livello attuale (oggi Avesa centro è a
m 97, e il Monte Croceta a m 281 s.l.m.); il tavolato lessineo era tutt'uno con
il Monte Baldo, doveva essere ancora molto più basso e pianeggiante
dell'attuale e degradava leggermente.
Sul tavolato lessineo si ergevano ad arco delle catene
montuose; esso era solcato da piccoli fiumi che scendevano impetuosi dalle
montagne con il loro letto scavato sempre più profondamente lungo le faglie,
che si erano aperte a ventaglio da nord verso sud durante il sollevamento del
piastrone lessineo; si venivano così
creando le nostre valli, i fiumi alimentavano anche piccoli laghetti, oggi riconoscibili
ad altezze variabili dai 1.000 ai 250 metri
s.l.m.; i fiumi giunti al mare
creavano un delta con vasti cordoni sabbiosi.
In quest'epoca, gli strumenti di base usati da questi gruppi
umani: choppers, grattato i e
schegge, erano costruiti con il quarzo e la quarzite. Ma la migliore materia prima è la selce, e
l'uomo ben lo sapeva, per cui era ricercatissima.
A questo punto, seguendo un ragionamento logico, dobbiamo
presumere che se l'uomo erectus esisteva a Nizza, a Pola e a Forlì,
senz'altro doveva vivere anche sulle nostre colline, perché oltre ad avere qui
l'ambiente ideale per la sua vita, egli aveva anche, a portata di mano, gli strati di selce che i fiumi mettevano
in vista durante il lento lavorio di scavo delle valli. Le sue tracce sono
state probabilmente distrutte o trasportate a valle dal dilavamento che hanno subito
le nostre colline, e sepolte nelle valli. Forse un giorno potremo rintracciare il
passaggio di quest'uomo in epoche così remote: nelle colline di Avesa ci sono
delle zone - doline, conche, avvallamenti ecc. - dove l'acqua piovana ha
accumulato durante i millenni, tutto quello che vi era attorno.
Il prof. Carlo
Peretto rafforza la nostra convinzione quando afferma in Il Paleolitico inferiore (41) «Le più antiche industrie del Veneto presentano alcune somiglianze anche
con quelle raccolte in località Ciola di Monte Poggiolo», Queste industrie
sono datate, in cronologia convenzionale, al periodo medio-finale della glaciazione
mindeliana, tra i 500 e i 370 mila anni da oggi.
Manufatti silicei di tecnica clactoniana provenienti
dagli strati più profondi della Cava Vecchia di Ca' Rotta, perciò i più
antichi: 1) scheggia; 2), 3), 5) denticolati; 4) raschiatoio.
La scheggia e il denticolato n° 2 sono
simili a quelli raccolti sul Monte Poggiolo di Forlì. Disegnati al naturale. (Da Leonardi P. op. cit.
1942).
Verso i 700 mila anni
fa, inizia la glaciazione mindeliana.
Da questo momento, il succedersi degli
avvenimenti climatici si fa più frequente. La nuova glaciazione
del Mindel comporta un abbassamento del livello marino, causato dal
formarsi di grandi masse glaciali.
La pianura padana per la prima volta emerge dal mare e su di
essa si formano vaste foreste a pini, abeti, betulle, cedri ecc., ciò
permetterà all'uomo di muoversi più liberamente in tutta la valle padana. La
fascia pedemontana si presenta come una prateria umida e fresca; su di essa
vivono elefanti, leoni, leopardi, machairodus, lupi, iene, orsi,
megàceri, cervi, caprioli, camosci, stambecchi assieme a piccoli roditori
steppici. Un imponente ghiacciaio scende dove è ora il lago di Garda e forma un
grande arco morenico. Sotto il ghiacciaio nasce anche l'Adige, che trasporta
nella pianura padana le ghiaie orientali del lago e quelle trasportate dai suoi
affluenti, che scendono dalla Lessinia. Queste
ghiaie contengono anche noduli silicei, ma sono spesso fratturati o di piccole
dimensioni, perciò non adatti a farne strumenti come le amigdale. Molto
probabilmente, la ricerca di grandi ciottoli silicei, verso la metà della
glaciazione mindeliana (circa 500 mila anni fa) spinge gruppi di uomini erectus
a risalire il corso dell'Adige alla ricerca degli affioramenti di selce
messi in luce dal lavorio delle acque, lungo le grandi incisioni vallive che
vennero poi, in parte, colmate dalle ghiaie alluvionali trasportate dalle
glaciazioni successive.
Sicuramente verso la fine della glaciazione del Mindel e
l'inizio dell'interglaciale Mindel-Riss
(350.000 - 300.000 anni fa), l'homo erectus raggiunge
l'imbocco della valle di Avesa, seguendo il corso del Lorì. Il paesaggio attorno ad Avesa si presenta a
quest'uomo considerevolmente diverso dall'attuale: la valle è molto più bassa,
la pianura è di carattere steppico con ampie praterie, l'area è ricca di quella
fauna sopraindicata e il clima è arido con rare ma violenti precipitazioni, che
causano il ritiro del ghiaccio, dando cosi inizio all'interglaciale
Mindel-Riss.
Profili geologici della bassa valle di Avesa (da: De Zanche V - Sorbini L. - Spagna V., “Geologia del territorio del Comune di Verona”. «Memorie del Mus. Civ. di St. Nat. di Verona», IIa serie, N. 1, 1977;
Profili geologici della bassa valle di Avesa (da: De Zanche V - Sorbini L. - Spagna V., “Geologia del territorio del Comune di Verona”. «Memorie del Mus. Civ. di St. Nat. di Verona», IIa serie, N. 1, 1977;
Sorbini L. - Accorsi C.A. - Bandini Mazzanti
M. - Forlani L. - Gandini F. - Meneghel M. - Rigoni A. - Sommaruga M. “Geologia e geomorfologia di una porzione
della pianura a sud-est di Verona.” «Memorie del Mus. Civ. di St. Nat. di
Verona», IIa serie, N. 2, 1984).
Il fondo del pozzo
comunale in via Cavalcaselle - all' imbocco della valle di Avesa - tocca la
roccia a m 97,50 (forse si è in presenza
qui un paleoalveo del Lorì). Un sondaggio, eseguito nell'ospedale di Borgo
Trento (Maternità), ha incontrato la roccia a soli 26 metri di profondità: ciò
dimostra con tutta probabilità, che la
dorsale collinare si prolungava al di sotto delle attuali alluvioni della
pianura. L'uomo sale la dorsale del Monte Ongarine, trova una piccola
depressione carsica di forma allungata, chiamata, dai cavatori di argilla «Buca fonda» (si trova oggi sepolta sotto
10 metri di terra, dove esisteva la cava Vecchia o occidentale), la sceglie
come sua comoda dimora perché si adatta benissimo ad un accampamento riparato
dai venti freddi.
Reperti silicei di tecnica levallois: 1) frammento di
scheggia; 2) raschiatoio latero-traversale; 3) punta; 4) lama; 5) scheggia. Le selci vennero raccolte nella Cava Vecchia:
la n. 1 nello strato n. 5 e le altre nella «Buca Fonda». Dimensioni. 1:1.
(Piero Leonardi op. cit.1942). .
Quanti uomini vivevano in questo villaggio? Secondo una
statistica, in tutta la provincia veronese vivevano in quel periodo
(Paleolitico medio e inferiore) circa 80 individui. Se contiamo tutte le
generazioni apparse nei 315 mila anni trascorsi fino ad allora, possiamo
assommare la popolazione «veronese» a 1milione e mezzo di persone.
In quel periodo, l'uomo, essendo nomade, cacciatore e raccoglitore trovava nella valle
di Avesa un posto ideale per la sua vita: abbondanza di acque e facilità di
caccia di elefanti, bisonti, megàceri, orsi, camosci, stambecchi; ma la cosa
più importante erano le miniere di selce che si trovavano nelle immediate
vicinanze.
Per migliaia di anni l'homo
erectus visse, oltre a Ca'
Rotta, anche su tutta la Lessinia,
e in pianura. Si riscontrano infatti le sue testimonianze nei seguenti luoghi
(tra la valle di Negrar e la
Valpantena):
alla 2a
Torricella, a
Fontana di Sommavalle,
Costraga-M. Solan,
Piasentin,
M. del Rocolo,
Rocoleto,
Rocolo Ferroni,
Rocolo Ederle,
Paroloto,
bosco delle Colombare,
Busona,
Caselle,
quota 356,
la Calzerega,
Montericco,
Ca' Roncati,
M. Cossa,
Montecchio,
M. Tondo,
M. Triarcole,
M. Faldè,
la Tenda,
Volpare,
Volparette,
colle degli Echini (q. 379),
M. Pigno,
Tramanal,
Coghetta,
Marognole.
E da notare una cosa importante: tutte queste località hanno
restituito strumenti silicei molto omogenei tra di loro, ma «diversi» da quelli
delle altre località. Ciò fa pensare a specifiche tribù umane, che abbiano
frequentato per migliaia di anni questi luoghi.
Mentre scorreva la vita degli uomini accaddero, nei
millenni, enormi cambiamenti geologici e climatici. L'interglaciale Mindel-Riss, verso i 300 mila anni fa, porta un clima caldo
umido di tipo sub-tropicale con periodi più aridi; il nostro ambiente si
presenta di tipo mediterraneo con foreste e ampie radure, dove vivono anche
grossi mammiferi, e dove ritorna la bertuccia Macaca sylvana; geologicamente si approfondiscono le
valli nei monti Lessini e con i detriti montani si innalza la pianura.
Alla fine
dell'interglaciale Mindel-Riss (circa
250 mila anni fa), il clima si sposta in termini oceanici più freschi, e
nuovi ghiacciai cominciano a scendere lungo le valli: ha inizio così la glaciazione rissiana. Questo fenomeno glaciale
deposita detriti ghiaiosi nelle basse valli a sud di Avesa (in alcuni punti le
ghiaie rissiane si trovano sepolte a circa 150 metri sotto l'attuale piano di campagna).
Secondo Angelo Pasa,
sugli alti Lessini e sul M. Baldo si formano piccoli ghiacciai, e forse l'Adige
rompe la Chiusa di Ceraino. Successivamente
il clima si fa più temperato, e si forma una prateria umida, poi torna arido
dando inizio a un periodo steppico. In parte rivivono gli animali della
precedente glaciazione mindeliana e l'uomo si spinge a cacciarli fino al limite
dei ghiacci (si inoltra fino al Passo delle Fittanze sopra la Sega di Ala). In
questo periodo dell'interglaciale Mindel-Riss, l'uomo si specializza
ulteriormente nella lavorazione della selce: scheggia il nucleo siliceo in
maniera da ottenere manufatti della forma da lui predisposta e non più casuale.
Con la fine della glaciazione rissiana si chiude il lunghissimo periodo
preistorico del Paleolitico inferiore (120
mila anni fa); l'Homo Erectus si estingue e appare l'Homo Sapiens
Neandertalensis. I Neandertaliani danno avvio ad una nuova
civiltà chiamata Paleolitico medio o
Musteriano. Essi erano abilissimi nel fabbricare strumenti, furono i primi
a dare sepoltura ai propri morti e a praticare riti magici legati al mondo
della caccia.
Nell'interglaciale
Riss - Wiirm, nella bassa pianura, si riscontra un clima subtropicale umido
con abbondanti precipitazioni ed inverni miti, ma sono state riscontrate anche
fasi climatiche più aride. A Montorio è stato possibile riconoscere un ambiente
forestale-aperto con latifoglie e radure a steppa carsica di tipo mediterraneo:
tale ambiente è riscontrato fino alle quote di 1.100 - 1.300 m.
Il più antico resto fossile umano del Veneto è l'occipitale rinvenuto a Ca' Rotta, attribuito da Raffaello Battaglia a questo
interglaciale. Esso è di morfologia moderna, e ciò confermerebbe che assieme ai
Neandertaliani vi erano anche uomini molto simili agli attuali. Se dei ripari
sottoroccia Mezzena e Zampieri (nelle sengele della Busana) si
conosce tutto su quello che ci hanno lasciato i Neandertaliani (42), poco o nulla si sa invece delle
altre località (in superficie) importantissime, che gravitano attorno ad Avesa.
Oggi possiamo dire che gli studiosi non
tengono in considerazione le cave di Ca'
Rotta forse perché i dati scientifici non sono sufficienti a trarre delle
conclusioni precise su questo periodo della storia umana.
Dagli scritti di Pasa e Zorzi apprendiamo una interessante
nota, che merita di essere riportata: «Una
sera del marzo 1941 sul fondo della 2a cava Nuova notò sulla roccia,
poco lontano dal punto in cui qualche giorno prima venne trovata una selce
musteriana, alcune pietre disposte ad U con i lati esterni di circa un metro e mezzo ... questo piccolo
recinto, aperto da un lato, a monte, era costruito da nove pezzi di calcare
eocenico accostati, arrotondati all'esterno e alti una quarantina di
centimetri. Nel mezzo giacevano a mo' di pavimento molti frammenti dello stesso
calcare. La mancanza di carboni nel mezzo o di qualsiasi altra traccia di
fuoco, nonché di resti fossili lì intorno, escluderebbe, standosi alle prime
incomplete osservazioni, la suggestiva funzione di focolaio, ma il fatto che le
pietre erano movibili e accostate con ordine non può lasciar dubbio che si
tratti di lavoro intenzionale» (43).
Il Prof. Zorzi aveva ragione nell'attribuire grande
importanza a quel recinto, ma, come già sappiamo, egli dovette interrompere gli
scavi perché venne diffidato dalla Soprintendenza di Padova.
Ma cosa era quel recinto a forma di U? Forse la base
di una capanna, o una sepoltura. Non lo sapremo mai perché gli scavi furono
abbandonati e poi richiusi.
Circa 80 mila anni fa, inizia l'ultima glaciazione, la würmiana.
Essa è la meglio conosciuta per la possibilità di avere oggi datazioni assolute
con il metodo del C14.
Sezione della parte centrale del deposito musteriano nel
riparo Mezzena disegnata da Angelo Pasa. Legenda:
1) sedimenti siltosi; 2) sedimenti siltosi concrezionati; 3) focolari; 4) terreni argillosi bruni. (Da Bartolomei G.
- Cattani L. - Cremaschi M. - Pasa A. - Peretto C. - Sartorelli A. Il riparo Mezzena. «Memorie
del Mus. Civ. di St. Nat. di Verona», IIa serie, N. 2., 1980).
L'inizio del glaciale Würm comporta un clima
continentale a nord delle Alpi, mentre da noi assume un carattere più mite, con
inverni rigidi e lunghi, ed estati temperate calde, con scarse piogge.
L'ambiente naturalistico nella nostra zona è così formato: nella pianura,
foreste composte da piante di tipo sia
mediterraneo che continentale; sulla collina piccoli boschi e praterie; oltre i
650 m s.l.m. la steppa montana. L'uomo
di Neanderthal caccia, attorno ad Avesa, una fauna molto varia, da quella di
tipo forestale a quella tipica di montagna: indice questo di un abbassamento
dei limiti glaciali. Essa è composta da bisonti, elefanti, rinoceronti, iene,
leoni, cinghiali, cavalli, cervi, caprioli, gatti, lupi, volpi, orsi, marmotte,
alci, camosci, stambecchi ecc. Nelle
località all'aperto frequentate da quest'uomo, oggi rinveniamo sovente grossi
noduli silicei in parte scheggiati, provenienti dalla media e alta Lessinia.
Per questo motivo possiamo intuire che, mentre l'uomo di Neanderthal cacciava,
si dedicava anche alla raccolta di tali noduli per lavorarli poi vicino a
«casa».
Intorno ai 60 mila anni fa il nostro uomo viveva in un
ambiente climatico continentale umido ed abbastanza temperato. Questo
cacciatore-raccoglitore, nomade, attraverso praterie e boschi formati da
ontani, betulle, carpini e noci cacciava megaceri, cervi, caprioli, gatti
selvatici, iene, bovidi, cinghiali, volpi, lupi, orsi bruni e orsi delle
caverne (loro principale sostentamento). Probabilmente durante una di queste
battute di caccia, l'uomo di Neanderthal scopriva i due ripari nelle sengele de la Busona -
quelli che poi prenderanno il nome di Mezzena
e Zampieri - e decideva di
frequentarli periodicamente.
Strumenti silicei
raccolti nel Riparo Mezzena: 1-2-3, raschiatoi latera-trasversali (punte
déjetées); 4-5-6-7, raschiatoi; 8- 9-10, grattatoi; 11- 12, nuclei levallois. Disegno di A. Almerigogna e B. Santochi, a 2/3
della grandezza naturale.
All'incirca attorno
ai 55 mila anni da oggi iniziava un nuovo periodo climatico che durerà circa 10 mila anni. In principio il clima era simile a
quello dell'inizio della glaciazione würmiana, che causerà una prima grande avanzata dei ghiacci.
Il grandissimo ghiacciaio che scendeva dal Trentino, era
frenato a sud dagli alti Lessini, che non gli permettevano la discesa verso la
sottostante pianura padana.
Analizzando il deposito terroso nei ripari Mezzena e Zampieri,
troviamo i resti dei pasti dell'uomo di quel tempo e i pollini trasportati con
la terra dal vento.
Strumenti silicei
raccolti nel Riparo Mezzena: 1-2, punte di tecnica levallois; 3- 4, lame di
tecnica levallois; 5-6, schegge di
tecnica levallois; 7, coltello a dorso naturale; 8- 9-10-11, punte musteriane; 12- 13-14, punte
musteriane allungate; 15-16, punte denticolate, 17, limaces; 18-19-20, denticolati; 21-22, troncature;
23-24-25, becchi (punteruoli); 26-27, bulini. Disegno di A. Almerigogna e B. Santochi, a 2/3
della grandezza naturale.
L'uomo d'oggi è in grado di ricostruire l'ambiente in cui
viveva l'uomo attorno ai 55 mila anni fa: la fauna era simile alla precedente,
ma con la presenza dello stambecco, del camoscio, dell'alce e della marmotta,
la iena era scomparsa, mentre esisteva il leone delle caverne (simile
all'attuale tigre siberiana), che insidiava l'uomo; nella pianura vivevano il
mammout, il rinoceronte lanuto ed il bisonte. Ad Avesa vi era una prateria composta da
Graminacee, e nelle zone umide e acquitrinose formate in parte dal Lorì, vi
crescevano le Ciperacee; radi erano i boschi composti da pini silvestri, ontani
e betulle; poco sopra la zona di Montecchio, cresceva già la steppa montana.
Tutti questi dati ecologici ci indicano un primo abbassamento dei limiti
nivali.
Successivamente attorno
ai 50 mila anni da oggi il clima diventava più rigido e freddo, come quello
continentale asiatico, con inverni rigidi, aridi e lunghi, ed estati temperate
calde con scarsa piovosità. A volte però, era alternato anche da periodi più
umidi. Tutta la pianura aveva un aspetto simile all'attuale Siberia, ma ad
Avesa, l'ambiente naturalistico era più ameno del circondario; ciò possiamo dedurre
dal fatto che l'uomo trovava ancora quella selvaggina che abitualmente
cacciava. Esisteva solo una variante: l'abbondanza della marmotta fra i resti
dei pasti dell'uomo di Neanderthal. Il
numeroso popolamento della marmotta ci fa pensare che la zona, dove l'uomo
cacciava, era prevalentemente prativa e
di tipo montano. Nel suo insieme
possiamo dire che la flora in questo contesto non era molto variata rispetto
alla precedente: dalle alte colline innevate per molti mesi all'anno,
scendevano copiosi ruscelli. Vicino alle nevi vi era la prateria dove regnavano
le marmotte; accanto ai ripari Zampieri e Mezzena cresceva una boscaglia
arbustiva molto aperta, formata da diverse specie di ontani; più in basso nelle
valli vivevano faggi, pini silvestri, mughi, ginepri e betulle; lungo le sponde
dei ruscelli e del Lorì crescevano abbondanti salici nani.
Planimetria dello strato 2° del riparo Mezzena rilevato da Angelo Pasa.
I cacciatori-raccoglitori nomadi neandertaliani,
abbandonarono definitivamente i ripari Mezzena e Zampieri verso i 43 mila anni fa. Non
si comprende il motivo di questo abbandono, anche perché i due ripari sono i
più a sud di tutti gli abitati, che oggi
conosciamo, i più «caldi» in un periodo glaciale come questo. Qui la possibilità di vita dell'uomo era
ottima. Non possiamo sapere se questi ultimi rappresentanti della razza Neanderthalensis
si siano trasferiti in basso nella pianura di Avesa, dove la caccia ai
grandi mammiferi era più abbondante, perché sono troppo pochi gli strumenti
silicei di questo periodo, raccolti nelle cave di Cà Rotta, per poter fare un
confronto tipologico con quelli raccolti nel riparo Tagliente o delle Tesare
presso Stallavena, la cui stratigrafia può essere presa come modello di
riferimento per le industrie musteriane della Valle Padana.
Durante «l'assenza» dell'uomo nella valle di Avesa, il
nostro ambiente naturalistico subisce enormi cambiamenti. Il clima verso i 40 mila anni da oggi, tornava a
farsi più temperato; diminuiva la steppa e avanzava il bosco con querce, tigli,
aceri, carpini ecc; attorno ai 37 mila
anni il bosco aveva la sua massima espansione. Due mila anni dopo (35 mila anni dal presente) le condizioni climatiche ritornavano più
fredde e aride di tipo continentale, nella pianura si estendevano aree a
foreste miste di conifere, faggi, betulle, ontani e salici; aumentavano anche le zone palustri, in collina si estendevano
praterie a steppa.
Un miglioramento
climatico iniziava verso i 33 mila anni, e, a circa 28 mila anni dal presente, raggiungeva il massimo periodo
caldo e piuttosto umido, che favoriva lo sviluppo di foreste a querce, carpini,
tigli, aceri, olmi, frassini, noci ecc. Si
sviluppavano anche arbusti come: sambuco, corniolo, nocciolo, bosso ecc.;
terminava così il primo Pleniglaciale.
Verso i 27 mila anni
fa il clima tornava a farsi arido e freddo e nel nostro ambiente si formavano
vere steppe.
Riguardo la zona di Avesa possediamo dei dati precisi circa
l'ambiente floristico, che si sviluppava attorno ai 25 mila anni fa (44). Il livello della valle presso la chiesa di San Martino era più basso di 20 metri rispetto all'attuale
piano di campagna.
Analizzando il campione torboso prelevato sotto terra a meno
20 metri, presso la detta chiesa, si ha
una datazione assoluta collocata a 24.000± 2.000 anni da oggi, e possiamo anche
sapere come si presentava il paesaggio in questo momento preistorico: la flora
era composta per circa il 25% da pini silvestri, pochi erano i faggi, gli
ontani, i castagni; gli arbusti erano rappresentati solo dal ginepro. Il resto
75% del terreno era coperto da abbondanti Graminacee, Asteracee, Plantaginacee,
Chenopodiacee, poche erano le igro-idrofite (Cyperaceae più Potamogeton),
inoltre vivevano anche numerose
Zigospore di alghe verdi. In base a
questi dati, possiamo immaginare il paesaggio avesano: esso si presentava a
praterie con zone umide e zone steppiche, intervallate da boschi a pini
silvestri; più in basso vivevano anche faggi e castagni.
Mentre avvenivano questi cambiamenti nella flora e, di
conseguenza, anche nella fauna, l'uomo non rimaneva estraneo ai mutamenti. Si
estingueva l'Homo sapiens Neanderthalensis e, all'incirca verso i 35 mila anni fa, apparivano i primi
uomini attuali, l'Homo sapiens
sapiens. Questo fenomeno naturale si evolveva lentamente, e a
dimostrarlo è anche l'occipitale umano di morfologia moderna raccolto nelle
cave di Cà Rotta, nonché un
frammento di mandibola umana con forte sviluppo del mento, rinvenuto nel riparo Mezzena.
Il clima si faceva via via molto più freddo del precedente,
con inverni rigidi e lunghi, mentre le estati erano fresche, distinguendosi
perciò dal primo Pleniglaciale.
Sempre verso i 27
mila anni fa iniziava il secondo
Pleniglaciale, i ghiacciai alpini avanzavano nuovamente, lingue glaciali si
dirigevano sempre più verso la pianura padana, e i limiti nivali si abbassavano
notevolmente.
Sul monte Baldo e sulla Lessinia si riformavano piccoli
ghiacciai locali, dai quali scendevano lungo le valli brevi lingue glaciali.
Il paesaggio avesano prendeva l'aspetto dell'attuale
tundra-steppa siberiana ghiacciata per parecchi mesi all'anno, con estese
praterie dove dominavano le Graminacee. Dalle
colline innevate scendevano piccoli torrentelli, che giunti al piano,
rallentavano la loro corsa, formando stagni e torbiere. Vicino all'Adige iniziavano a crescere mughi,
pini silvestri e salici nani; più in basso nella pianura si trovava una vera e
propria steppa, con praterie a graminacee e rari boschi di betulle e faggi;
nella pianura padana vi erano anche foreste con querce, castagni e cornioli. Attorno alle nostre colline vivevano l'orso
bruno e l'orso delle caverne, il leone delle caverne e rare iene, assieme alla
marmotta, lo stambecco, il camoscio e l'alce; nella foresta c'era ancora il cervo, mentre
nelle, aree libere pascolavano bovidi e il mammout.
Secondo le datazioni eseguite con il radio carbonio,
sappiamo che nel periodo di tempo compreso tra
i 20 mila e i 19 mila anni fa, i ghiacciai, che per molti millenni avevano
ricoperto una buona parte dell'Europa e dell'Asia, raggiungevano la loro massima
espansione, ma le fronti glaciali, che scendevano dalle Alpi, non superarono
mai quelle della precedente glaciazione rissiana. Il livello marino si abbassava
enormemente - di circa 120 metri dal livello attuale - di conseguenza emergeva
tutto l'alto Adriatico fino oltre Ancona.
Un miglioramento
climatico si ebbe verso i 18 mila
anni fa: incominciavano a fondersi i ghiacciai, il clima si faceva sempre
più temperato, la steppa diminuiva e avanzavano le aree boschive. La
deglaciazione della regione alpina rinvigoriva i fiumi, immense masse d'acqua
trasportavano e depositavano sulla pianura padana grandi quantità di alluvioni.
L'Adige veniva sbarrato dalla dura roccia della Chiusa di
Ceraino (nonostante l'incisione prodotta dalla glaciazione precedente) e
dall'anfiteatro morenico del Garda. Il fiume formava così un grande e lungo
lago nella bassa val Lagarina, fino oltre la conca di Rovereto (45). Alla Chiusa di Ceraino l'acqua del
grande lago raggiungeva sicuramente parecchi metri sopra l'attuale letto del
fiume; l'Adige irrompeva nella Valpolicella trasportando ghiaie e sabbie,
causando il lento ma continuo innalzamento della pianura.
I fiumi, per loro natura, scavano il loro alveo verso il
monte, e depositano il materiale trasportato verso la valle; questo meccanismo
naturale, portava l'Adige alla sua uscita dalla Valpolicella a seguire la linea
delle colline veronesi, erodendo così i primi depositi terrosi e ghiaiosi
trasportati dai torrenti nelle valli lessinee, che si affacciano sulla pianura.
L'Adige giungeva impetuoso all'imbocco
della valle di Avesa, erodeva i sedimenti vallivi, formati dal Lorì e dai
torrenti che scendevano dalle colline, fino alla roccia, posta alla profondità
di circa 97 metri dal piano di campagna attuale (pozzo di via Cavalcaselle). Riempiva
successivamente l'erosione con grandi masse ghiaiose, formando un terrazzo alto
circa 94 metri, riconoscibile oggi poco a nord delle vie Ca' di
Cozzi, via Trento, via Mameli.
Le acque del fiume entravano in profondità nella valle di
Avesa, e la inondavano sicuramente fino al centro abitato, perché troviamo le
sabbie atesine in via Torrente Vecchio,
a una profondità di circa 16 metri per uno spessore di 3 metri. Il massimo innalzamento delle acque dell'Adige
nella pianura padana - e di conseguenza l'inondazione di Avesa - probabilmente
avvenne verso i 16 mila anni fa,
quando il clima temperato raggiungeva il suo apice.
Sembrerebbe a questo punto che la glaciazione würmiana
sia al suo termine ma, poco dopo, il
clima si faceva nuovamente rigido, arido e freddo. Verso i
15 mila anni fa la pianura riprendeva nuovamente l'aspetto di una steppa. Circa 1.000 anni dopo (14.000 anni fa) terminava il secondo
Pleniglaciale.
Il tardiglaciale
iniziava circa 14 mila anni fa, con
un progressivo riscaldamento climatico. Attorno ad Avesa incominciavano a
diminuire le aree a steppa e avanzavano quelle a prateria. Secondo una
datazione assoluta eseguita mediante il radio carbonio, sappiamo che il clima temperato raggiungeva la sua
massima espansione circa 13200 anni fa.
Mentre accadevano questi fenomeni naturali sulla terra,
l'uomo preistorico era «assente» dalla zona avesana, ed era invece presente
nella provincia di Verona, ma solo fino al periodo culturale chiamato Aurignaziano, compreso fra i 34 mila e
i 29 mila anni fa.
Si perde ogni traccia umana nel Gravettiano (29 mila - 20 mila anni fa) e nell'Epigravettiano antico (20 mila - 15 mila anni fa).
Nel successivo periodo preistorico l'Epigravettiano evoluto-finale, iniziato circa 15 mila anni fa e terminato all'incirca 10 mila anni dal presente, i
cacciatori-raccoglitori nomadi erano presenti nuovamente nella valle di Avesa,
come certamente lo erano nella Lessinia.
Ancora oggi, non conosciamo le cause dell'assenza dell'uomo
dalla nostra provincia, per un così lungo periodo di tempo - circa 14 mila anni
- o se veramente la sua mancanza c'è stata; probabilmente l'assenza è dovuta a
cause naturali. Il miglioramento
climatico iniziato verso i 18 mila anni da oggi, comportava lo spostamento
graduale della selvaggina abitudinariamente cacciata per millenni dall'uomo:
stambecchi, alci, camosci ecc. che si
spostavano verso nord seguendo il ritiro dei ghiacci. L'uomo, essendo essenzialmente cacciatore e
nomade, naturalmente li seguiva e abbandonava le nostre aree.
Le successive tremende inondazioni causate dallo
scioglimento dei ghiacci (17.000-15.500 anni fa), limitavano il transito dei cacciatori
attraverso la pianura padana. Il ritorno del clima freddo bloccava il disgelo delle
masse glaciali: di conseguenza rallentava l'attività fluviale, e l'uomo aveva
la possibilità di ritornare nella pianura padana. I ghiacci iniziavano
nuovamente ad avanzare attorno ai 15 mila anni dal presente, e forse
cancellavano le tracce lasciate dai cacciatori, che inseguivano le prede nel
Trentino.
Queste sono ipotesi che hanno finora solo pochissime
dimostrazioni: nel Veneto, l'uomo, in linea di massima, è presente durante
tutto l'Aurignaziano; nel successivo periodo, il Gravettiano, pare che frequenti
raramente solo la grotta del Broion
nei colli Berici; poi durante l'Epigravettiano antico è presente nel Veneto in
sole due vicinissime grotte nei colli Berici. Gli uomini che abitavano saltuariamente queste
due grotte cacciavano abbondanti orsi delle caverne e alci, raramente i lupi,
le volpi, gli stambecchi, le marmotte, gli uri, i cervi e i cinghiali; (46) questi animali, indicavano che il
clima non era ancora troppo freddo. Dopo i 13 mila anni fa, il clima si faceva via
via sempre più arido e freddo, la steppa riconquistava la nostra zona. In tale
periodo, la vita nomade dei cacciatori epigravettiani li portava sicuramente
nella valle di Avesa. Questi uomini facevano parte di una tribù composta,
mediamente da 20 a 50 persone (secondo una recente stima, alla fine del
Paleolitico superiore, la nostra penisola era abitata da circa duecentomila
uomini; nella provincia di Verona vivevano circa trecentodieci persone, una
ogni 10 Kmq).
Anche se non abbiamo finora trovato nessuna traccia di
abitazioni di quel tempo nella valle di Avesa, in base alle conoscenze di cui
disponiamo sulle abitudini dell'uomo in questo lontano periodo, possiamo fare delle ipotesi abbastanza valide. Seguendo gli spostamenti della selvaggina,
questi uomini si costruivano un accampamento stagionale vicino alle rive del
Lorì, con la possibilità di rioccuparlo la stagione seguente. Iniziavano col
costruire un recinto di pietre o a scavare una fossa nel terreno, generalmente
di forma ovale; vi piantavano una solida struttura di pali e la ricoprivano di
pelli, sistemavano il pavimento per renderlo comodo e al centro collocavano il
focolare. La capanna così costruita poteva ospitare una o più famiglie. Il
paesaggio attorno all'accampamento era steppico, conseguenza di un clima arido
e freddo in cui prevaleva una vegetazione erbacea di tipo montano con rari pini
silvestri, mughi e ginepri. In tale ambiente, quasi simile a un deserto freddo,
l'uomo trovava da cacciare lo stambecco, il camoscio, il Bos primigenius e
un asino tipico delle steppe l'Equus hydruntinus.
Il clima glaciale perdurava fino a circa 12700 anni fa, poi
iniziava nuovamente un progressivo miglioramento climatico, e dopo circa 700
anni (12 mila anni fa), il clima temperato raggiungeva il suo apice. I ghiacciai nel frattempo si ritiravano
ulteriormente, e si innalzavano i livelli marini.
Nella valle di Avesa le generazioni umane vedevano
scomparire la steppa, e circa 11500 anni
fa il nuovo clima raggiungeva il suo massimo periodo temperato e favoriva
il formarsi di una prateria ricca di specie arboree ed erbacee, alternate da
cespugli di mughi e ginepri, con boschi a pini silvestri, e nelle zone più
temperate crescevano nuovamente le foreste del querceto misto. In questo
ambiente l'uomo, nella valle di Avesa, non trovava più da cacciare la fauna
glaciale (vi era rimasto solo lo stambecco e limitato nelle aree montane) ma
cacciava prevalentemente il cervo, il capriolo e il cinghiale.
La glaciazione würmiana tuttavia non era ancora
terminata, perché il clima ritornava via via sempre più freddo e arido; circa 10.500 anni fa nella nostra zona
riapparve la steppa. I ghiacciai si
erano ritirati quasi alle quote attuali; a causa dell'aridità del clima l'attività
nivale non era sufficiente per farli scendere nuovamente lungo le valli alpine.
L'Adige non era più alimentato notevolmente dalle acque che scendevano dalle
montagne, e si inaridiva, lasciando libera quasi tutta la sua valle con quella
serie di laghi e laghetti che lui stesso aveva formato fra la Chiusa di Ceraino
e Bolzano. Il letto dell'Adige alla
Chiusa di Ceraino, era allora ad una quota più elevata dell'attuale, perché
poco a nord di essa, nel riparo roccioso
del Soman, posto a circa 17 metri dall'alveo
attuale, si sono rinvenuti depositi di sabbie e limi atesini sui quali avevano
dimorato gli ultimi uomini del Paleolitico superiore.
Circa 11000 anni dal
presente, i cacciatori-raccoglitori mesolitici del lontano Medio Oriente
(Mesopotamia ed Egitto), facevano i primi tentativi di addomesticamento degli
animali: capre, gazzelle, maiali, buoi selvatici ecc.; mentre le donne si
occupavano della coltivazione di piccoli orti.
La glaciazione del Würm terminava circa 10.000 anni fa, e iniziava il postglaciale
o Olocene (l'epoca attuale), che si
annunciava con un progressivo aumento della temperatura.
I ghiacciai, già notevolmente ridotti, si ritiravano
definitivamente e si attestavano ai limiti attuali; il mare si innalzava e il
limite di costa era a meno 50-60 metri dall'attuale. La vegetazione, che era riuscita. a
sopravvivere alla glaciazione würrniana, si espandeva e assumeva la sua
attuale fisionomia; le foreste, generalmente costituite da pini silvestri,
raggiungevano le altitudini attuali. L'aumento della temperatura non veniva
però compensato dalla piovosità: si creava così un clima di grande aridità.
Nella nostra provincia, all'inizio del Postglaciale,
compreso fra i 10.000 e i 9.000 anni fa,
il clima era di tipo preboreale: ancora temperato arido in
pianura, mentre in montagna era arido di tipo steppico. Nella bassa valle di Avesa il terreno
diventava argilloso e sabbioso, e crescevano praterie simili alle attuali
savane, a Graminacee e arbusti, assieme a cespugli di noccioli; più a sud
prosperavano i boschi di pino silvestre e del querceto misto; sulla collina
arida e secca crescevano le Graminacee, tra le quali primeggiava la stipa pennata o stipa delle fate. Questa
pianta oggi cresce nelle zone tropicali aride a steppe e savane, su terreni
notevolmente permeabili, poco ospitali alla flora, dove quest'erba può essere considerata una specie pioniera. Le faune si impoverivano: dei grandi mammiferi
restavano principalmente cervi, caprioli, cinghiali e orsi bruni (l'orso delle
caverne si era estinto, forse a causa dell'intensa caccia esercitata
dall'uomo), stambecchi e camosci
vivevano ancora in alta montagna.
La fine della glaciazione portava dei mutamenti anche nella
vita quotidiana dell'uomo: nasceva anche da noi, seppure in ritardo, la nuova
civiltà detta Mesolitico. Durante
questa cultura, sembra che anche per il nostro uomo ci fossero state delle
difficoltà nel reperire il cibo, perché analizzando i resti dei suoi pasti,
lasciatici nelle dimore, si nota un cambiamento abbastanza radicale nella
alimentazione: non cacciavano più solo i grandi
mammiferi ma anche i piccoli, inoltre intensificavano l'uccellagione e la
pesca; l'attività della raccolta, sia dei molluschi che dei vegetali, aumentava
di molto in rapporto alle epoche precedenti.
L'inizio del Postglaciale agiva gradatamente in modo assai
negativo sulla flora e la fauna che vivevano sulla nostra collina, e in
particolare sulla bassa Lessinia, perché l'aumento della temperatura seguita
dalla scarsa piovosità, su un terreno geologicamente carsico, dove la poca
pioggia veniva subito assorbita limitando così l'attività idrografica di
superficie, rese il nostro ambiente collinare di tipo subdesertico. Questi fenomeni naturali spiegherebbero,
forse, il perché dello spopolamento graduale dell'uomo nella Lessinia: infatti,
finora, abbiamo la sua presenza al riparo Tagliente in Valpantena solo
all'inizio del Mesolitico. Nella vicina valle dell'Adige il clima era caldo e
arido, e il fiume, sia pure scarso d'acqua, si «comportava» come oggi il Nilo
nella sua valle: rendeva cioè la Val
Lagarina un luogo ricco di fauna e flora, e l'uomo, di conseguenza, vi
trovava un luogo adatto al suo insediamento. Questo lo si deduce dal fatto che nel riparo Soman all'imbocco della Valle
Lagarina, troviamo sopra i depositi terrosi del Paleolitico superiore (Epigravettiano evoluto finale), quelli
del Mesolitico antico (Sauveterriano)
simili a quelli rinvenuti nel già citato riparo Tagliente in Val Pantena.
La valle dell'Adige, all'inizio del Preboreale, si presentava ricca di foreste in prevalenza a pino
silvestre, dove le tribù dei cacciatori-raccoglitori, provenienti in parte
dalla Lessinia, trovavano ancora un ambiente simile a quello precedente, nel
quale erano abituati a vivere. Conducevano una vita relativamente stabile in
insediamenti permanenti lungo le sponde dei fiumi o dei laghi, dove l'ambiente
offriva loro varie risorse alimentari: la pesca, la raccolta di vegetali e la
caccia a grandi e piccoli mammiferi e agli uccelli. L'uomo cacciava caprioli,
cervi, cinghiali, orsi, lupi, volpi, gatti, scoiattoli, tassi, martore, lontre,
castori, tartarughe e uccelli; a volte risaliva le pendici del monte Baldo e
dell'alta Lessinia per cacciare stambecchi e camosci, e ne approfittava per
rifornirsi di selce.
Strumenti silicei: 1) lama
a dorso; 2) grattatoio. Attribuiti forse al Paleolitico superiore dal
prof. Piero Leonardi, che studiò i
materiali silicei raccolti durante gli scavi regolari eseguiti nelle cave di
Ca' Rotta sotto la direzione del prof. Raffaello Battaglia nel 1939. (Da
Leonardi P. op. cit. 1942, dimensioni 1:1. - Incisione pettiniforme sul cortice della
selce n° 3, attribuita dal prof. Graziosi [op. cit. 1939] e
dal prof. Leonardi al Paleolitico superiore [Epigravettiano finale]).
Nella stessa epoca l'uomo che viveva nel Medio Oriente,
compiva un passo avanti importante verso una nuova civiltà. La semisedentarietà,
l'addomesticamento e l'orticultura portarono in breve tempo alla prima delle
grandi «rivoluzioni» della storia dell'umanità, quella neolitica.
Con il Neolitico, l'uomo non dipendeva più del tutto dagli
eventi naturali, ma diventava, in parte, produttore di risorse. Ciò portava ad
un incremento della popolazione umana, obbligandola a creare nuovi insediamenti
e ad occupare nuove aree da coltivare, mentre il pastore si dedicava al
nomadismo neolitico. La necessità di grandi zone da coltivare, e il bisogno di
ampie praterie per il pascolo delle mandrie diedero origine sicura alle prime
guerre (la prima «guerra», narrata nella Bibbia, è quella fra Abele pastore e
Caino agricoltore) e anche alle «professioni» degli artigiani, dei commercianti
e dei razziatori.
Circa 9 mila anni dal presente, iniziava la fase climatica
boreale ed il clima era sempre di tipo caldo arido; in pianura esistevano
ancora aree a steppa con scarsa vegetazione. Il mare Adriatico si allargava
ulteriormente nella pianura padana, il suo limite di costa era allora 30-40
metri più basso dell'attuale. L'influenza
dell'umidità marina e il clima caldo, facevano avanzare lentamente le praterie
e le foreste a latifoglie che sostituivano le steppe e i boschi di conifere.
Nella valle dell'Adige, il bosco a conifere lasciava il
posto a quello del querceto misto e a sud della Chiusa di Ceraino esistevano
aree non più solo di tipo steppico.
In pieno clima boreale, circa 8 mila anni fa, il mare
allagava maggiormente la pianura padana, il limite di costa risaliva, ed era
inferiore all'attuale di circa 15-20 metri.
L'umidità aumentava e raggiungeva anche
le prime colline, le foreste di caducifoglie si diffusero su tutta la pianura
padana, mentre in montagna si creavano le praterie alpine e le foreste a
conifere.
La foresta a caducifoglie e la relativa prateria, che
sostituivano le atee a steppa, portavano con sè una associazione di fauna e
flora più ricca della precedente, e pronta per essere sfruttata dall'uomo
mesolitico che viveva nella pianura padana, come veniva sfruttata circa 3 mila
anni prima, dalle popolazioni del Medio Oriente.
Nella valle di Avesa, il clima boreale aveva ristabilito
l'ambiente ideale per la vita dell'uomo, favorendo il suo ritorno.
Fino al 1975 non si avevano notizie della presenza dell'uomo
mesolitico nella provincia di Verona, poi si rintracciarono sul Monte Baldo i
primi bivacchi alpini dei cacciatori mesolitici castelnoviani, vissuti da
circa 7800-7500 a 6500 anni dal
presente. Se l'uomo frequentava il Monte
Baldo in questo periodo, e il clima aveva ristabilito sulle prime colline che
si affacciano sulla pianura, un ambiente adatto alla sua vita, egli doveva aver
lasciato le sue tracce anche in Lessinia. Bastava ripercorrere tutte le località
preistoriche dove si rinvengono manufatti di tipologia mesolitica (nelle quali
non si trovava l'utensile «guida», il
trapezio) e ristudiarle alla luce delle nuove cognizioni per rendercene
conto. Infatti nel 1984 si rinvenivano
quei trapezi silicei che servivano ai cacciatori mesolitici per costruire le
armature delle frecce (47), e ai
primi agricoltori per costruire anche coltelli-sega e falcetti.
Sulle colline di Avesa vi sono località, dove si raccolgono
manufatti di tipologia mesolitica e quasi del tutto prive di ceramica (la
ceramica indica la fine del Mesoliti co e l'inizio del Neolitico). Questi villaggi preistorici si trovano
principalmente sul dosso Ca' Vecchia,
sul Monte Solan, ai Tre Tempi, sul Monte Spigolo di Montecchio e a Case Antolini. Solo nel
1986, (48) vicino a una di queste
località (mi scuso con i lettori se non cito il nome della località, perché
essendo importante questo luogo, non vorrei che ricerche compiute da abusivi,
portino alla sua distruzione, come è già avvenuto per altre stazioni preistoriche attorno ad Avesa), si
raccolse un trapezio. Questo
rinvenimento, ci autorizza ad ipotizzare la presenza dell'uomo mesolitico in
Avesa.
D'altronde dobbiamo pensare che l'uomo abbia avuto un
incremento demografico (secondo una stima approssimativa, la popolazione era
aumentata dal Paleolitico superiore al pieno Mesolitico di 10 volte) e che
nella nostra provincia vivessero circa 3100 persone, una per ogni Kmq. e con buone probabilità che esse
frequentassero anche la zona attorno ad Avesa. Ci si augura che le prossime
ricerche (proprietari del terreno permettendo) possano confermare questa
ipotesi. La crescita delle popolazioni e la ricerca di nuove aree da coltivare
o da pascolare, costringevano l'uomo alle prime grandi migrazioni. Dal Medio
Oriente l'uomo iniziava a migrare sia per via terrestre che marina. In Italia i
primi coloni agricoltori giunsero circa 7500 anni fa, e approdarono in Puglia,
dove la zona è ricchissima di selce,
utile per la fabbricazione dei nuovi strumenti adatti all'agricoltura: i «tranchets» e i «pics», quegli scalpelli-picconi silicei che, immanicati nel bastone
da scavo, formavano le prime zappe, primi veri e propri strumenti
dell'agricoltura.
Verso la fine del
Boreale, circa 7 mila anni dal presente, il mare si innalzava ancora e il
suo livello si trovava a meno di 15-20 metri dall'attuale; la foresta era
sempre più in espansione; e la nuova civiltà neolitica risaliva lentamente la
penisola italiana.
All'inizio del clima atlantico, circa 6500 anni fa,
l'ambiente diventava caldo umido; il mare risaliva ulteriormente, e il suo
limite di costa saliva a meno 5-8 metri dall'odierno; la foresta a caducifoglie
si espandeva sulle colline e si portava a ben 200-300 m al di sopra del livello
attuale; la valle di Avesa diventava così un ambiente ideale per la vita
dell'uomo.
Microliti in selce di forma geometrica (Trapezi), riferibili al Mesolitico recente o al primo Neolitico. Venivano inseriti come armature di arpioni in legno o in osso, erano usati anche per ottenere coltelli-sega e falcetti.
Il n° 1 è stato raccolto sulle colline a nord di Avesa, gli altri nella valle di Mezzane. Sono stati disegnati al naturale da G. Chelidonio, L. Brunetto e A. Solinas.
L'avvento del Neolitico nella pianura padana iniziava tra i
6500 e i 6000 anni fa. Non sappiamo ancora se i nostri abitanti mesolitici imparassero
le nuove tecnologie agrarie dai portatori della cultura neolitica, oppure se i
coloni neolitici fondassero direttamente nuovi villaggi nella nostra provincia.
Io propenderei a pensare che essendo la
pianura coperta da una fitta foresta, rendesse difficile la risalita ai nuovi
coloni, rallentando, perciò, la loro penetrazione verso nord, mentre i
cacciatori-raccoglitori mesolitici locali, seguendo lo spostamento della
selvaggina avevano più probabilità di incontrarsi e avviare così fra di loro
un'attività di scambi culturali e materiali. Gli agricoltori offrivano granaglie e bestiame addomesticato,
e insegnavano ai cacciatori-raccoglitori come coltivare e allevare; mentre quelli davano in cambio dell'ottima
selce lessinica, estremamente necessaria alla vita degli agricoltori
(rammentiamo che i primi agricoltori sbarcarono proprio in Puglia dove la
selce, che era materiale indispensabile all'agricoltura, è abbondantissima come
in Lessinia) perché la selce alluvionale, che si rinviene in pianura, è di formato ridotto e spesso
fratturata, perciò non adatta alla costruzione di efficienti strumenti litici. Questa ipotesi potrebbe essere forse
avvalorata mediante lo studio degli abitati che esistono sull'altopiano
lessinico, dove sono presenti manufatti litici dell'antico Neolitico (la
Cultura di Fiorano) ma dove è assente totalmente la ceramica, come in alcuni
villaggi precedentemente citati. Se i coloni neolitici si fossero inseriti nel
veronese, noi avremmo dovuto trovare, ovviamente, nei villaggi in questione,
anche la ceramica che invece è assente. Gli abitanti di questi primi villaggi
oltre a praticare la caccia coltivavano piccoli orti e allevavano bestiame; ma
questi abitati erano situati appositamente vicini alle miniere selcifere per
poter sfruttare e commerciare la selce.
Uomini delle isole Figi con
il bastone da scavo corredato da una pietra levigata. Il bastone da scavo è costruito con due pezzi
di legno tenuti assieme da una legatura di vimini. La pietra levigata (nel
nostro caso un tranchet, disegnato al naturale), essendo cuneiforme, viene
fissata a pressione fra i due legni
del bastone, in modo da poter essere sostituiti con facilità.
Il commercio di questo materiale può essere confermato dal
fatto che la selce lessinica è notevolmente diffusa nella pianura padana, in
particolare a sud del Po. Ciò è confermato dal prof. Bernardino Bagolini: «Tali
fatti implicano l'esistenza di traffici sistematici e ben organizzati lungo le
vie fluviali padane in grado di porre in contatto l'area alpina con quella
appenninica e la padana interna con gli ambienti costieri» (49).
In pieno clima atlantico, circa 6 mila anni fa, l'area di
Avesa aveva assunto l'aspetto naturalistico simile all'attuale. Nella pianura a sud dell'Adige vi era un
interrotto mosaico boschivo di latifoglie costituito prevalentemente da querce,
carpini, ontani e frassini; nelle zone palustri crescevano rigogliosi i
giunchi. L'Adige scorreva pressappoco
nell'alveo attuale e aveva lasciato nel ritirarsi dalla valle di Avesa (più
bassa di circa un metro e mezzo rispetto al livello attuale), ampie dune di
sabbia e limi. Si formarono così terreni
altamente produttivi, sui quali crescevano boschi di olmi, frassini, querce e
carpini; il Lorì e le sorgenti formarono nella bassa valle di Avesa ampie zone
umide, libere dai boschi; le prime colline risentivano ancora del clima arido e
secco, e su di essa crescevano le Graminacee e la stipa pennata, (penei) vera
pianta pioniera dei terreni aridi, secchi e poveri, che prepara il substrato
alle future praterie. Questa pianta tipica delle attuali savane e steppe
tropicali, meridionali e mediterranee, vive tuttora sulle pendici sassose delle
colline di Avesa. La presenza di questa
pianta costituisce un fatto molto importante, perché indica un clima particolarmente mite del periodo
invernale.
Sull'altopiano della Lessinia si era ricreato un ambiente
biologicamente attivo: querce, olmi, frassini e carpini, crescevano dove oggi
esistono pini e faggi, formando così un'ampia foresta di piante termofile.
La valle di Avesa aveva assunto un aspetto ideale per la
vita dell'uomo neolitico. In un luogo della valle, non ancora ben individuato,
circa 6 mila anni fa, sul finire della Cultura
di Fiorano, una tribù neolitica aveva fondato, vicino alla riva del Lorì,
un villaggio: nasceva la futura Avesa. L'uomo
era ritornato nella nostra area dopo ben
cinquemila anni di assenza. I resti
ceramici e litici neo-eneolitici, si rinvennero sparsi su tutta la vasta zona
delle cave di Ca' Rotta, ma
specialmente nei pressi della necropoli, posta ai piedi dello sperone collinare
del monte Ongarine e orientata a sud
verso l'attuale corso dell'Adige.
Questi uomini avevano scelto come loro sede, una zona
elevata rispetto all'alveo dell'Adige, con terreno argilloso e fortemente
sabbioso misto a ciottoli o blocchi calcarei e alpini dei depositi würmiani
atesini. Il villaggio era sorto tra il
limite del bosco e la riva del Lorì, dove il terreno era più fertile e comodo
da coltivare e irrigare. Le capanne erano costruite con una semplice struttura
autoportante a pianta generalmente rettangolare, formata da una o più file di
robusti pali d'albero probabilmente di ontano o frassino, del diametro medio di
circa 10 cm. Questi erano infissi verticalmente nel terreno e intervallati uno
dall'altro a sostegno del tetto. Gli interspazi tra un palo e l'altro, che
formavano le pareti, erano poi riempiti da graticcio costruito da un intreccio
di rami, forse di nocciolo e canne. Tutta la struttura verticale era poi
intonacata con argilla; il tetto era sostenuto da una intelaiatura di pali e
ricoperto da mazzette di giunchi; nel mezzo vi era un foro che permetteva la
fuoriuscita del fumo del camino; il pavimento era spesso ricoperto di tavole
rozzamente tagliate; al centro della capanna veniva creato un camino di forma
quadrata o circolare. All'interno di questo unico locale, come struttura fissa,
oltre al camino esisteva, forse, anche un telaio per la tessitura. La capanna
così costruita durava pochi anni e serviva a un solo nucleo famigliare.
All'esterno venivano costruiti poi, attorno alla capanna, dei pozzetti regolari
del diametro di poco più di un metro e profondi altrettanto; a volte erano
foderati con argilla. La loro funzione era forse quella di piccoli silos, che
quando si rovinavano venivano usati come piccoli letamai.
Nelle vicinanze del villaggio gli abitanti costruivano anche
una necropoli (la necropoli di Ca' Rotta
è finora la più consistente numericamente a nord del Po, con tredici
sepolture). Gli inumati venivano deposti in fosse profonde da cinquanta
centimetri a un metro, distanziate da cinque a dieci metri l'una dall'altra. I cadaveri venivano adagiati sulla nuda terra
in posizione rannicchiata e su un fianco, con corredo di arco e frecce, asce di
pietre levigate, strumenti in osso e vasi; alcuni venivano poi coperti da
grossi sassi, «intorno ad essi stavano grossi grumi e frammenti lastiformi di
argilla mal cotta, che fanno pensare a fuochi accesi presso il cadavere sul
suolo argilloso» (50).
Purtroppo, non abbiamo notizie sull'orientamento delle
sepolture e la divisione dei corredi per sesso della necropoli di Ca' Rotta. Ma
vedendo la posizione dell'inumato n° 8 di sesso maschile, ricostruito ed
esposto in una vetrina nel nostro Museo cittadino di Storia Naturale, possiamo
dire che il rito della sepoltura non si differenzia dagli altri di quel
periodo: gli inumati venivano generalmente deposti rannicchiati sul fianco
sinistro, il volto orientato verso il, sorgere del sole (Est); erano di solito
più ricchi i corredi delle sepolture maschili, con punte di frecce, asce in
pietra verde levigata e vasi; mentre nei corredi femminili si trovavano aghi in
osso e collane, raramente vasi.
I sassi con resti di argilla attaccata, che coprivano le
inumazioni, possono essere paragonati ai ciottoli che racchiudevano i focolari
accesi per i banchetti funebri, in onore del defunto, come vennero interpretati
dallo Zorzi.
Il professor Cleto
Corrain che aveva studiato i resti scheletrici di questi inumati, ci
fornisce (51) delle notizie sulle
caratteristiche fisiche degli abitanti del villaggio. Le 13 sepolture erano in
prevalenza maschili, con 9 individui. Di
uno di essi abbiamo dei dati più precisi (la sepoltura n° 8); esso era un adulto dell'età di 20-22 anni ed alto, da vivo, cm
164,7; di un’ altro individuo sappiamo che era un adulto dell'altezza di cm
161,3; un terzo era un giovane di 18-20
anni; era stato sepolto anche un bambino di 6-7 anni. Degli altri cinque uomini sappiamo solo che erano deceduti in età
adulta.
Le femmine inumate erano 4: una era morta quando aveva meno
di 20 anni, e misurava cm 155,0 da viva; una seconda era deceduta forse verso i
18-20 anni, e misurava cm 148,1; della terza sappiamo solo che aveva anch'essa
18-20 anni; dell'ultima sappiamo solamente che era deceduta in età adulta.
Dai raffronti eseguiti, sempre dall'antropologo prof.
Corrain con altri resti ossei umani dell'età neo-eneolitica, risulta abbastanza chiaramente la somiglianza
morfologica tra gli inumati di Ca' Rotta e i neolitici liguri delle Arene Candide (Savona) e di alcuni
«stranieri» della Bassa Austria,
della Boemia, della Moravia, della Slesia, della Franconia
e della Turingia. Non concordano
invece con quelli francesi e svizzeri.
I tratti somatici degli abitanti del villaggio erano di tipo
mediterraneo, con statura medio-bassa; la faccia era relativamente lunga e
stretta: con orbite ben proporzionate; naso stretto, ma non molto alto;
mandibola gracile, ma ben disegnata e con forte mento. Da uno studio del 1970,
fatto dall'antropologo R. Riquet su
un'area estesa all'intera Europa, al bacino mediterraneo e all'Asia anteriore,
gli studiosi Alciati, Marcolin e Rippa Bonati (52) traggono le conclusioni che gli inumati di Ca' Rotta appartengono
al gruppo che Riquet denomina piccoli
dolicocrani, gracili mediterranei, forse legati alla più antica agricoltura
del Vicino Oriente.
La sepoltura dell'inumato n. 8 (esposta in una vetrina del Museo Civ. di St. Nat.
di Verona), di sesso maschile presumibilmente di età adulta. La statura, nel
vivente, di cm 164,7 è classificabile come media per quel periodo.
Da queste esposizioni sulle caratteristiche antropologiche
degli uomini sepolti nella necropoli di Ca' Rotta, forse possiamo dedurre che i
primi «fondatori» di Avesa provenivano dal Medio Oriente, dove nacque l'agricoltura.
L'economia di questa popolazione era basata sull'agricoltura
e la pastorizia. Le attività tradizionali come la caccia, la pesca e la
raccolta erano tuttavia ancora largamente praticate. Gli animali cacciati erano
superiori quantitativamente a quelli di allevamento. Un ruolo importantissimo
aveva anche il commercio della selce.
La vita stabile del villaggio e il maggior benessere avevano
prodotto un forte aumento della natalità. Gli abitanti neolitici che vivevano
nella valle di Avesa, si evolvettero gradualmente; il possesso di grandi
armenti li obbligavano a spostarsi e così occuparono tutta la valle fino alla
riva dell'Adige; il commercio della selce era continuamente in aumento, e li
costringeva a recarsi sempre più a nord sulle colline verso le miniere
selcifere del ponte di Veia.
All'apice del Neolitico, circa 5500 anni fa, il territorio
veronese diventava una terra ambita e ricca: per questo, i villaggi dovevano
essere spesso presi d'assalto dai razziatori. Questo motivo, probabilmente, costrinse alcune
tribù, che vivevano nella pianura, a dirigersi verso la collina, dove le
possibilità difensive erano maggiori; il fatto possiamo dedurlo dal sorgere di
numerosi villaggi lungo le dorsali collinari, in posizione strategica e in
vista uno dell'altro, difesi anche da mura a secco e palizzate.
Nel triangolo geologico che ha come base, a occidente, il
paese di Parona, a oriente la città di Verona, e al vertice il monte Comun (a nord di Montecchio)
esistono alcuni cordoni collinari, limitati dalle due ampie valli di Negrar e di Valpantena. Nell'interno di questo triangolo si sono
formate cinque valli minori: dei Ronchi,
di Quinzano, la val Borago, la val Galina
e Valdonega. Questa zona, ideale per l'uomo, si popolava
«enormemente» rispetto alle altre della Lessinia, ed A vesa, con la sua ampia
valle, ne era la «capitale».
Sorgevano villaggi sui monti Longo-Sassine di Arbizzano, Triarcole,
Cavro, Faldé, Mattei e il Pigno; al Pavaglio e al Tramanal;
sui monti Sarte e Tondo; a quota 668, alle Colombare, sul Castelletto, a quota 745 e alle Cee; ai Patrizi, ai Tre Tempi, al Ca' del
Gabi; sui monti Cossa, Tosato; al Maso e sul monte Ròccolo,
alla Calzarega; sui monti Spigolo di Avesa e di Montecchio, alla Cola, alla prima torre
massimilianea; al Casalecchio,
al Còstolo, al dosso di Ca' Vecchia; sui monti Arzan, Croson-San Vincenzo, Solan-Costraga,
sulla Crucola, sul Castejon, ai Gaspari, sulle collinette della Crosara-Case Vecie, Basalovo e le Balzare.
I villaggi principali sorsero in prossimità di sorgenti e in
luoghi strategici, sulla sommità delle prime colline che si affacciano verso la
pianura, per avere la possibilità di difendersi da possibili incursioni
ladresche, sempre più frequenti nelle valli, e controllare gli eventuali
commerci. Villaggi importanti si
formavano sul monte Longo-Sassine,
da dove si dominava la pianura padana e l'accesso alla Valpolicella; essi
attingevano l'acqua lungo i tre ruscelli che scendono nella valle dei Ronchi.
Un altro importante abitato sorgeva sul monte
Faldé, da dove si potevano controllare le valli dei Ronchi e di Quinzano,
in prossimità della fonte delle Anguane
(streghe). Un villaggio, sia pur
piccolo ma importante, sorgeva in località Patrizi con la possibilità di
bloccare l'accesso all'alta valle di Quinzano e di attingere l'acqua presso la
fontana del Figarol;. sul vicino
monte dei Tre Tempi, esisteva un
insediamento dal quale si dominava la bassa valle di Quinzano e di Avesa, che
usufruiva delle acque del Figarol.
Il villaggio, che era sorto sul monte Spigolo di Avesa, era
l'unico che aveva scarse possibilità di reperire l'acqua, ma la sua posizione
altamente strategica rese necessaria la sua costruzione, perché controllava
tutta la bassa valle di Avesa e l'accesso a quelle del Borago e della Galina.
Sul monte Arzan e Dosso Ca' Vecchia vennero fondati i
villaggi dominanti la valle di Avesa: essi usavano la sorgente del Copo.
Sulla dorsale che si affaccia sulla Valpantena doveva
esistere senza dubbio un grande abitato sito sullo sperone collinare di Castel San Pietro, ma gli eventi
storici ne hanno forse cancellato ogni traccia. Da esso si poteva tenere sotto
controllo il guado sull'Adige, nei pressi del Ponte Pietra, ed esercitare la
sorveglianza sulla Valdonega e la Valpantena; gli abitanti del villaggio si
servivano dell'acqua della fontana del
Ferro. Alla chiusura della Valdonega, per garantirne la sicurezza e
controllare la Valpantena, veniva fondato un piccolo abitato nel luogo dove
oggi sorge la torre massimilianea n° 1
vicino alla fontana di Sommavalle.
Un grosso villaggio esisteva sul monte Croson-San Vincenzo-Solan-Costraga,
posto a controllo del vajo della Galina
e per vigilare sui due passi dello
Squaranti e del Biciclin, che
dalla Valpantena conducono sulla collina. L'acqua l'attingevano dalle due vicine sorgenti dello Squaranti e del Biciclin. In fine, il villaggio
costruito sul Castejon, sorvegliava
sulla via principale che saliva dalla Valpantena,
lungo il vajo del Molin; nelle
vicinanze vi sono alcune sorgenti d'acqua.
L'economia di questi villaggi era prevalentemente pastorale
e comprendeva capre, pecore, maiali e bovini. La caccia veniva ancora
abbondantemente praticata, sia ai grossi mammiferi come il cervo, il capriolo
il cinghiale e l'orso, sia ai piccoli mammiferi, martore, faine, volpi, tassi,
lepri e gatti selvatici, e non erano esclusi gli uccelli. La poca agricoltura
era praticata costruendo gradoni sul fianco delle colline, sostenuti da muri a
secco: «le marogne». Il commercio
della selce aveva una grandissima importanza per questi abitanti: ciò possiamo
dedurre dall'elevato numero di speciali nuclei
silicei di tipo Corbiac o trancianti
- rinvenuti proprio nella nostra area - appositamente costruiti per il
commercio (53).
Verso la fine del Neolitico, la popolazione veronese era in
forte aumento: aveva raggiunto la considerevole cifra di oltre trentamila
persone pari all'incirca a 10 individui ogni Kmq. L'aumento della popolazione
nella pianura padana e l'importante ruolo svolto dalle vie di comunicazione
terrestri e marittime, concorsero al moltiplicarsi dei contatti umani, e all'allargamento
delle esperienze e delle conoscenze culturali tra i vari popoli, coinvolgendo
anche i gruppi umani che vivevano nella nostra provincia.
Nucleo di tipo «Corbiac» o tranciante. Nell'interpretazione corrente, questo
rarissimo manufatto viene considerato come nucleo da trasporto, cioè l'uomo lo
portava con sé nei suoi spostamenti e all'occorrenza ne staccava lame per farne
strumenti sul posto. La rarità di questi nuclei ha permesso solo a pochissimi
esemplari di giungere intatti fino a noi (3 in Lombardia e 3 nell'area
vicentina); il «grande» numero di 6 trancianti (3 di grandi e 3
di piccole dimensioni) raccolti in superficie nella ristretta area attorno
ad Avesa, fanno ritenere che questi particolari manufatti silicei venissero
costruiti sulla Lessinia, portati poi nei villaggi che sorgevano vicino alla
pianura e poi commerciati in tutta la pianura padana. Il tranciante è stato disegnato al naturale ..
(Broglio A. Trancianti di industrie neo-eneolitiche del Veneto, Atti
XI e XII riunione scientifica, Ist. Italiano di Preistoria e Protostoria,
Firenze 1968; Solinas G. Avesa
dalla preistoria alla romanità 1979; Biagi P. - Coltorti M. Tre nuovi
«trancianti» in selce in Lombardia. Annali
Benacensi di Cavriana n. 7. 1981; Chelidonio
G. Appunti sulla predeterminazione nei nuclei da lame. La tecnica di
«Corbiac», Preistoria Alpina n. 20 1984).
Circa 4500 anni fa comincia nel veronese l'età dei metalli, con l'avvento della civiltà del Rame
o Eneolitica. La diffusione del metallo stimolò anche nella nostra regione le
innovazioni culturali, incentivò i rapporti commerciali e i contatti umani con
risultati, sul piano economico e sociale, di grande rilievo.
Si accentuarono i centri di potere e di ricchezza, e la rivalità tra villaggi ricchi e poveri;
aumentarono la bellicosità e la tensione tra i vari gruppi. Il nascere della violenza tra gli uomini lo si
può dedurre in particolare dalle sepolture, dove l'uomo viene adagiato insieme
alle sue armi da combattimento: il pugnale e l'alabarda, simboli di potenza e
regalità.
La civiltà del Rame, molto probabilmente, venne portata da
mercanti di origine iberica, impegnati nel commercio del rame con cui
costruivano pugnali, alabarde e asce piatte. Essi sceglievano per i loro traffici i luoghi
ricchi di risorse naturali o i crocevia di strade importanti. Un luogo ideale per il loro commercio doveva
essere la nostra provincia, in particolare la Lessinia, già avviata nel
commercio della selce, e soprattutto la valle di Avesa, dove l'Adige si poteva
guadare facilmente e raggiungere così il Trentino. A conferma di questo,
rammentiamo che solo nel bacino geologico della valle di Avesa costituito dal grande
triangolo Parona, monte Comun, Verona furono
trovate due asce piatte di rame, uniche di tutta la Lessinia: una nelle cave di Ca' Rotta, e l'altra alle Colombare di Negrar poco a nord di
Montecchio.
I commercianti erano bene accolti dagli abitanti dei
villaggi, con i quali esplicavano vantaggiosamente la loro attività. Questi commercianti (da alcuni studiosi paragonati agli attuali zingari) dovevano
venire dalla Spagna attraverso la Francia, per via terra: ciò è provato dal
fatto che l'ascia piatta in rame di Ca'
Rotta era stata forgiata con minerale spagnolo, e pure il vaso
campaniforme, trovato nella necropoli, attesta la sua probabile origine dalla
Spagna (il vaso o bicchiere campani forme, si rinviene in un'area vastissima:
dalla penisola iberica alla Boemia, dall'Africa settentrionale alla Danimarca.
Il popolo che costruì il vaso, pare fosse originario della penisola
iberica, ma recenti ricerche avrebbero localizzato la sua nascita in Boemia. Alcuni
studiosi, però, ritengono che la sua origine sia da ricercare in entrambe le
regioni).
Nelle suppellettili della capanna n° 1 delle Colombare, venne trovata la ceramica decorata con motivi
a metopa, affine a quella proveniente da
Fontbouisse nella Francia meridionale, assieme alle perline alate e a un
pendaglio in selce lessinica a forma d'artiglio d'orso, probabilmente copiati
da quelli di origine francese; inoltre, fra queste suppellettili, venne trovata
anche la famosa ascia piatta in rame.
Suppellettili rinvenute nel villaggio preistorico {delle Colombare di Negrar:
1) vaso decorato a motivi metopali di tipo Fontbouisse (riferibile alla cultura di Remedello);
2) dente d'orso bruno usato come pendaglio;
3) pendaglio in selce a forma d'artiglio d'orso;
4) perlina ad alette; 5)dente canino di cane, forato, usato come pendaglio;
6), 7), 8) cuspidi di freccia;
9) lama di pugnale in selce. Tutti gli oggetti, escluso il vaso, sono disegnati al naturale.
In questo periodo, l'industria della lavorazione della selce conobbe il massimo della sua produzione,
in modo particolare nella fabbricazione di armi. Tra queste armi, il pugnale
triangolare era diventato un simbolo di potenza e ricchezza, specialmente se
costruito in rame; ma essendo questo metallo particolarmente costoso per le
nostre popolazioni, gli abilissimi artigiani della Lessinia pensarono bene di
metterne in commercio delle imitazioni in selce, che si rivelarono infine, di
migliore qualità. I particolari pugnali
silicei presero sfortunatamente il nome di pugnale della cultura di Remedello, perché vennero raccolti per
la prima volta nel 1884 nella necropoli di Remedello (un paese bresciano),
mentre oggi, più opportunamente, dovrebbero essere chiamati della cultura lessinica, essendo stati tutti
costruiti in Lessinia da dove si diffusero in tutta la pianura padana.
Pugnale in rame della cultura di
Remedello e pugnale lessinico in selce imitato da quello in rame, rinvenuto
nella tomba eneolitica di Soave. I due
pugnali sono disegnati al naturale. Disegno di A. Solinas. Da Gecchele M., S. Giovanni Ilarione, val. 1° , Verona 1984.
Per la costruzione dei pugnali, gli artigiani litici
preistorici usavano la selce di colore grigio o quella bionda, essendo le due
varietà a grana molto fine, perciò ottimamente adatte; tali selci, dovevano
trovarsi in arnioni di notevole grandezza e freschi di cava, perciò non facilmente reperibili in superficie.
La selce con queste
caratteristiche oggi la si trova in grande abbondanza inserita sia nei calcari
a Pentacrinus, sia nel Biancone, sia in altri calcari dei
Cretaceo. Certo, l'uomo non aveva la possibilità di estrarla dalla roccia con facilità; perciò la
cercava nei depositi di tera tònega (argilla), contenenti grandi'
quantità di selci fratturate. Però assieme alle selci fratturate l'argilla
conteneva anche gli arnioni, più voluminosi e compatti, che resistettero alle
azioni meccaniche del trasporto alluvionale e all'attività termoclastica per
affioramento.
L'uomo preistorico estraeva gli arnioni con zappe e picconi
(tranchets e pics): ciò spiegherebbe
perché si rinvengono in abbondanza i «tranchets» e i «pics» Campignani, sparsi
su tutto l'altopiano lessinico, anche a quote elevate (54), dove non vi era la possibilità di coltivare i campi, sebbene
si era in pieno clima atlantico, ma dove esistevano gli affioramenti dei
calcari cretacei e i depositi di argilla, gli uni e gli altri ricchi di noduli
silicei. È da notare il particolare che le zappe e i picconi erano nati con
l'agricoltura, per dissodare la terra, e da noi cominciano ad apparire
sicuramente nei depositi antropici del Neolitico recente sulla Rocca di Rivoli (55) circa 5000 anni fa.
Veduta aerea del villaggio
capannicolo delle Colombare di Negrar, con la posizione delle varie capanne: la
1a
e la 2a furono scavate completamente; la 3a
e la 4a (nella quale fu scoperto in una nicchia
naturale quasi intatto un focolare) furono scavate solo parzialmente; nella 5a,
6a e 7a
fu eseguito solo un saggio di scavo;
le rimanenti 8a - e 9a furono distrutte nel novembre del 1963. Solo nell'estate del 1967 fu
recuperato, dal terreno smosso dalle pale meccaniche, poco materiale
archeologico. Oggi si potrebbe riprendere lo scavo del villaggio e risolvere
così tutti i problemi inerenti
creati dagli scavi precedenti del 1953 e 1954. (Da Zorzi F. op. cit. 1960).
In Lessinia, presumibilmente essi esistevano già 500 anni
prima, e il loro massimo fiorire lo abbiamo dal Neolitico recente all'inizio
dell'età del Bronzo, quando era massima la richiesta di strumenti silicei.
Perciò, il nostro uomo preistorico era costretto alla ricerca della selce
scavando i terreni, come facevano i nostri folandieri nel 1700-1800, per
la costruzione delle pietre focaie da acciarino per i fucili (56).
Luigi Venturi nel 1841 scrisse che « ... i Folandieri col cavar sassi levando la verde cotenna dai prati, fanno il mal maggiore perché questi ,
scioperati a guisa dei topi, invece di seguire una traccia di quelle miniere,
quasi ad unica malignità zappano in mille luoghi ... ».
Pianta e sezione della capanna n° 1 alle Colombare di Negrar. Gli scavi regolari della capanna furono iniziati il 14-6-1953 tracciando sul terreno un quadrato di m 7,55 di lato, e suddividendolo in un reticolo di circa 57 metri quadrati e partendo, nel tracciarlo, da un metro dall'esterno del muro, che affiorava di pochi cm dal terreno, e ritenuto dal proprietario del fondo, sempre 'esistito perché segna un confine di proprietà. Lo scavo venne eseguito a «rebaltina», come si usava in quel tempo, cioè a trincee, scavando un metro cubo di terreno, rovesciandolo, e raccogliendo il materiale archeologico. Nella mattina del 17 venne in luce una bella ascia in rame. Dopo 5 giorni si scavarono oltre 32 metri quadrati di terreno, mettendo in luce tutta la pianta della capanna, e si sospesero quindi gli scavi. Vennero ripresi il 4-7-1953 e proseguirono per 12 giorni. Una nota curiosa è che sotto il muro del lato maggiore, alla base del primo strato, si rinvenne lo scheletro di un neonato non in connessione anatomica.
Una popolazione così numerosa sulle nostre colline, doveva
avere senz'altro un centro di culto; esso si trovava forse sul monte Roccolo di Montecchio, (57)
che domina su tutta la nostra area e si trova al centro di essa. Era la
posizione ideale per una costruzione simile. Purtroppo il complesso di queste
mura che ancor oggi si possono vedere non è ancora stato studiato ed è
prematuro darne una giusta interpretazione e datazione: si sa solo che i pochi
e frammentati cocci, assieme alle selci che si raccolgono, possono essere
collocati nel periodo neo-eneolitico.
Veduta parziale delle fondamenta sul Monte Roccolo in una fotografia di G. Solinas del giugno 1955.
La fine dell'età del Rame, verso i 4000 anni fa, con
l'instaurazione di una nuova fase climatica e l'inizio dell'età del Bronzo,
tradizionalmente collocata nel Veneto attorno ai 4000 anni fa, portarono
lentamente, nel «breve» tempo di circa settecento anni, al disfacimento di
quasi tutte le comunità umane che esistevano sulle nostre colline.
Pianta delle fondamenta d'una
costruzione presumibilmente preistorica, non ancora esplorata sulla sommità del
Monte Roccolo di Montecchio.
Una delle tre strade che
convergono alla cima del Monte Roccolo, dove sorge la costruzione preistorica.
Uno dei muri di recinzione della
zona, su cui sorge la costruzione preistorica sulla cima del Monte Roccolo.
Le condizioni climatiche si facevano via via sempre più fresche e umide di tipo boreale, e causarono una graduale diminuzione della
temperatura. Nella nostra area il lento
mutare del clima avviava il declino del querceto misto (58) e favoriva lo sviluppa
di formazioni steppiche con grandi quantità di Graminacee e di Cicorioidee; era
però sempre presente il faggio e il
castagno (59). Sui versanti
collinari, la pioggia più abbondante dava origine a fenomeni erosivi e limitava
le coltivazioni degli orti; nella bassa
valle di Avesa, i torrenti impetuosi e il Lorì trasportavano grandi quantità di
detriti terrosi, innalzando il
fondovalle fina a due metri sotto al piano di campagna attuale, e creavano anche delle zone paludose (60).
Con l'avventa dell'età del Bronzo diminuiva l'importanza
della selce, e di conseguenza calava anche il sua commercio. All'inizio dell'età Enea gli abitanti della
nostra area riuscirono a far fronte a
questi due nuovi fenomeni (il clima e la diminuzione di richieste della selce),
e restarono tuttavia ancora nelle loro sedi collinari,
farse perché il fondovalle, resosi acquitrinoso era malsana e poco ospitale.
L'economia dei nostri villaggi era parecchio mutata. Le ampie praterie causate dalle diverse
condizioni climatiche favorivano la pastorizia a scapito dell'agricoltura; il commercio
della selce era ancora abbastanza attivo; la caccia doveva avere ancora un peso
determinante sulla vita di queste comunità. Certa è, che la vita di questi villaggi,
doveva essersi parecchio impoverita rispetto a quella che si svolgeva in
pianura e specialmente lungo le spande del lago di Garda e del sua anfiteatro
morenico.
Fortunatamente per i nastri abitanti, circa 3500 anni fa il
clima evolveva lentamente versa un periodo più asciutto: Si passava da quello di tipo boreale a quello atlantica. Perciò, verso i
3300 anni da oggi, quando armai le
risorse alimentari sulla collina erano in fase di esaurimento, la maggior parte delle
popolazioni ivi stanziate si trasferirono in pianura.
Di tutti i villaggi che si insediarono in Avesa, ne rimasero
attivi salo pochissimi.
A soli 3 Km in linea d'aria dai villaggi avesani, si trovava
quello delle Sassine di Arbizzano,
che è l'unico abbastanza studiato. Di
questo villaggio, scriveva Francesco Zorzi: «Presso Quaro di Montericco, sorge una piccola altura, arida e tormentata dall'intenso dilavamento e
dall'azione erosiva del carsismo che
hanno messo a nudo molti tratti di roccia e provocato il franamento di innumerevoli massi: da questo aspetto di rovina venne al luogo la denominazione
dialettale di 'Le Sassine'.
I reperti di questa zona mostrano che ivi esisteva una
stazione la quale perdurò per tutta l'età del
Bronzo ed ebbe rapporto di parentela e di commercio con i palafitticoli
(dell'area benacense n.d.r.).
L'industria litica è modesta, ma sufficiente a documentare un'attività
agricola che doveva svolgersi nei campi attigui, là dove anche oggi si
estendano le coltivazioni, gli avanzi dei pasti danno un quadro
significativo di una fauna in cui le specie domestiche prevalgono di gran lunga su quelle selvatiche, la qualità
scadente degli abbondantissimi resti della ceramica e la mancanza del metallo denunciano condizioni di povertà. Tuttavia il piccolo villaggio mostra l'alta
grado di evoluzione sociale dei suoi
abitatori poiché ha la struttura di un castelliere, come è chiaramente indicato
dalla sua posizione dominante, dalle spesse mura di pietrame scaglionate lungo
i fianchi del monticciuolo e dalle
tracce di parecchi fondi di capanne, disposte alcune a semicerchio sul versante S.W. e altre su gradinate sostenute da muri a secco.
Siamo dunque di fronte ad un insediamento organizzato permanentemente in stato di difesa
e cioè a un villaggio fortificato, che presuppone una società unitaria e
indipendente, creata per condurre più efficacemente la lotta per la vita,
oppure, in embrione, a una comunità statale, fondata su legami di stirpe, e
diretta da un capo; è palese un acutirsi
dello spirito bellicoso provocato da
contrasti per l'occupazione di terre a da crisi economiche stagionali, come le
carestie e le morie di bestiame, o da dissidi tribali, o da scorrerie di orde
straniere» (61).
Da questo periodo la bellicosità degli uomini sarà sempre
più agguerrita: ciò è dimostrato dal fatto che gli oggetti più «costosi» in
metallo (in bronzo) erano in prevalenza armi. Questi aggetti da difesa o da
offesa erano costituiti da spade,
alabarde, pugnali, punte di lancia, asce o accette; vi erano pure oggetti di ornamento come i diademi finemente decorati, spilloni, spille (fibule),
pettini e rasoi
che solo in parte erano costruiti in metallo; pochissimi erano gli oggetti domestici in
rame: ami e falcetti messori.
L'importanza assunta dal villaggio sorta sul Castejon, aveva reso necessario il
proseguimento della sua esistenza anche in questo periodo data la sua posizione
strategica. La piccola comunità umana
che ci viveva costruì un recinto di forma
rettangolare con muretti a secca e lo rese pianeggiante per facilitare
l'insediamento delle abitazioni. Altri muri vennero costruiti per cingere il monte
con il duplice scopo di difesa del villaggio, e della creazione di terrazzi adatti alla
coltivazione di orticelli. L'attività
commerciale esercitata dai residenti di questo villaggio era forse più intensa di quella svolta dagli
abitanti delle Sassine. Infatti nel villaggio del Castejon il prof. Giuseppe Perin (62) trovò nel 1951, fra l'altro, abbondanti ceramiche di influenza
adriatica (62/63). Questi manufatti non furano trovati, invece, nel villaggio delle Sassine.
Del villaggio sorto più vicino ad Avesa conosciamo salo
l'esistenza, ma niente della sua struttura, perché è andato completamente
distrutto dalla costruzione della prima torre massimilianea. Possiamo però dedurre, che esso era sorto su una posizione della massima importanza
strategica, se in epoca moderna nello
stesso sito venne costruita una fortificazione simile. Ma il villaggio di gran lunga il più importante, sorto nella
vasta area di influenza avesana, doveva esistere, anche in questo periodo, sul Castello di S. Pietro.
Classificazione dei castellieri
dallo studio di Carlo Marchesetti ( I Castellieri
preistorici di Trieste e della regione Giulia, Trieste 1903): 1) apicali: villaggi costruiti sulla
sommità di un colle; laterali: se la cerchia muraria si svolgeva su un
versante sotto la cima; 2) incompleti, quando uno dei versanti
del monte cade ripido oppure l'abitato era costruito sul margine di un
altopiano tagliato da pareti a picco; 3) gemini: sarebbero quei
castellieri in cui due valli sono disposti sullo stesso piano l'uno unito
all'altro; 4) doppi: quando
i valli circondano due cime vicine e sono uniti da un muro comune
esterno.
Raffaello Battaglia, che fu il maggiore studioso dei castellieri istriani,
scriveva nel 1958 (I castellieri
della Venezia Giulia, in «Le meraviglie del passato», vol. II ): «Il
toponimo castellier (e varianti) corrisponde nella Venezia Giulia a località
elevate sulle cui vette si conservano di solito tracce di antichissime
costruzioni ... per indicare villaggi murati costruiti ... durante l'età dei
metalli, nel corso dei due millenni che precedettero la nascita di Cristo ...
Il castelliere nel suo aspetto attuale è
caratterizzato da una o più cinte di detrito calcareo ... il cosidetto vallo, che può raggiungere la larghezza di oltre
20 m e un’ altezza di 8; e dai ripiani, spazi pianeggianti larghi da 5
fino a 50 m, racchiusi dai valli, e che rappresentano l'area
abitativa .... Il Marchesetti segnala nei castellieri carsici mura dello
spessore da m 1,40 a 3,10 ... Sotto la comune etichetta «castelliere» si
nascondono, dunque, costruzioni e abitati di tipo differente. Queste differenze
potrebbero derivare da fattori cronologici ed etnici, ma anche da adattamenti
delle costruzioni murarie e delle difese alla morfologia del suolo». Francesco
Zorzi fu il massimo studioso dei castellieri veronesi e sull'argomento pubblicò
l'opera: I castellieri dei monti Lessini in «Architettura nei monti
Lessini» , Verona 1963. Per quanto riguarda Avesa scrisse: «Mura
e terrazzature si notano pure sui Monti Tosato, Anamarole, Cossa e Ongarine, sul Monte Arzan e sul
Castejon sopra Marzana, sul dosso pianeggiante di Monte Faldà, sui Monti
Triarcole e sulle Torricelle».
Per avere un'idea dell'aspetto antropologico della
popolazione, che viveva sulle colline avesane durante una parte dell'età del Bronzo (media e
finale), dobbiamo spostarci verso la pianura, e precisamente a Bovolone. Nella necropoli
scoperta in questa località (la più consistente di sepolcreti e la più vicina
ad Avesa), appare evidente che l'uomo nell'età del Bronzo iniziava a cambiare
il rito della sepoltura dei propri morti: li cremava, e gli inumati non
venivano più deposti solo in posizione rannicchiata, ma generalmente anche in
posizione supina. Cleto Corrain, Gabriella
Espamer e Mara Biasi, che
studiarono i resti scheletrici della necropoli di Bovolone, così scrivevano: « ... gli incinerati prevalgono sugli inumati:
36 contro 28. Gli incinerati possono ben rappresentare un campione qualunque di
una popolazione, fatta di uomini, donne e bambini. Infatti su 29 incinerati a noi consegnati 18
possono essere riferiti ad adulti (6 maschi e 12 femmine) e 11 bambini. Altrettanto possiamo dire degli
inumati: 5 uomini, 10 donne e 13 bambini di varie età. Dopo di che procediamo ad una breve sintesi in
merito alle caratteristiche antropologiche degli inumati adulti, ...
La statura maschile a
Bovolone si rivela bassa anche rispetto alle modeste stature di confronto
(Franzine Nuove di Villabartolomea, Verona; Fiavè, Trento; Solteri, Trento; loc. di Romagnano, Trento;
San Vitale, Bologna; Monte Ursino non Orcino, in Istria; n.d.r.). Queste
sono modeste al medesimo grado, fatta eccezione per quella di Fiavè e di Monte
Ursino.
Va fatta notare la difformità delle medie nelle vicine
Bovolone e Franzine.
In conclusione,
trattandosi degli inumati di Bovolone, è lecito parlare di quasi uniformi
dolicocefalia e ortocefalia: crani stretti, moderatamente lunghi ed alti, con
ossa frontali bene sviluppate in larghezza, di capacità discreta. La faccia potrebbe essere stata di medie
proporzioni, le orbite bassine, il naso larghetto e l'arcata alveolare corta e
larga. La statura è bassa e non bene discriminata tra i sessi .... Parliamo
anche della faccia, con i suoi particolari anatomici, raramente conservata in condizioni
rilevabili metricamente: i confronti si riducono. Si noti il buon accordo delle
medie, trattandosi delle due vicine stazioni di Bovolone e di Franzine. Trattandosi
delle altre stazioni le maggiori convergenze si riscontrano a Monte Ursino. Qualche debole risonanza in Fiavè; ma la
necropoli di S. Vitale sembra viaggiare per conto proprio» (64). Architettonicamente le strutture dei villaggi,
che sorgevano sul Castejon di Marzana, alla prima Torricella massimilianea e
sul Castel di S. Pietro erano in questo periodo (3.500-2.800 anni fa) simili ai
castellieri istriani. I nostri abitanti
non avevano in comune solo i caratteri antropologici con le popolazioni
istriane (vedi M. Ursino) ma anche i contatti culturali come afferma il
Cardarelli: (65) « ... i
contatti (delle popolazioni castricole n.d.r.) con l'area veneta e con la
facies subappenninica dell'Italia centrale sembrano piuttosto intensi (cfr.
Leonardi, s.d.; Fasani-Salzani, 1975; Fasani 1973) ... » (66). «Il primitivo ma efficace sistema dei castellieri,
afferma Bernardini, che persistette fino alla romanità ed ebbe grande sviluppo
durante l'età del Ferro, fu adottato in quasi tutto l'arco alpino, fino al
versante esterno delle Alpi Marittime, e sembra corrispondere ad una risposta
delle popolazioni agricolo pastorali nel periodo delle aggressioni esterne e
delle scorrerie interne in una fase di grande irrequietezza .... Il
ritrovamento di insediamenti analoghi nell'Italia centrale e in altre regioni
della penisola suggerisce l'esistenza di un fenomeno culturale più ampio del
previsto, meritevole di approfondimento» (67). In conclusione avevano ragione Grancelli, Solinas e Zorzi
quando affermavano l'esistenza dei castellieri anche nel veronese.
La torricella massimilianea n. 1 costruita sul preesistente villaggio preistorico, e il
campo dove si rinveniva maggiormente il materiale archeologico, in una foto del
1957.
L'inizio dell'età del Ferro, tradizionalmente collocata a circa 3000 anni fa, coincide con l'ultimo
periodo della preistoria. In quest'epoca si hanno le prime civiltà
protostoriche: quella della nostra regione prenderà il nome di Protoveneta, ma sarebbe più giusto
chiamarla Euganea, nome dato dagli
storici latini. Il periodo di passaggio
dall'età del Bronzo all'età del Ferro fu caratterizzato da grandi migrazioni di
popoli in tutta l'Europa e di conseguenza l'attività di rapina andava assumendo
un ruolo molto importante nell'economia, specialmente dell'ottavo secolo a.C. Con le scorrerie i popoli vicini e le bande di
briganti, non rapivano solo animali o provviste, ma anche uomini, donne e
bambini per venderli poi sui mercati degli schiavi. Queste scorrerie minacciavano soprattutto i
piccoli villaggi solitari, sparsi nelle campagne e mal difesi (lo storico
ateniese Tucidide, nato intorno al
460 a.C., ci fa notare che in quell'epoca l'attività
di rapina non era considerata disonorevole, anzi procurava gloria). Questi motivi portarono probabilmente le
popolazioni che gravitavano attorno ad Avesa, a unirsi a quelle che vivevano
sul Castel San Pietro, il colle che vide sicuramente l'insediamento umano
fondatore della città di Verona, data la posizione del colle altamente
strategica e sito ideale per controllare tutti i traffici che si svolgevano
lungo il fiume e lungo la probabile strada che univa i vari castellieri
affacciantisi alla pianura, via che successivamente prenderà il nome di
Postumia (68).
Nel periodo di transizione fra l'età del Bronzo e l'età del
Ferro, iniziava un nuovo deterioramento climatico: terminava il clima atlantico
sostituito dal sub-boreale più umido e fresco. Ad Avesa i boschi a querceto misto del clima
mediterraneo andavano via via scomparendo, lasciando il posto alla prateria e
ai boschi a faggi. Quel clima causava
anche l'impoverimento delle coltivazioni agricole. In pianura le elevate
precipitazioni trasformarono molte zone in malsani acquitrini, e
l'impaludamento di gran parte delle terre coltivabili costringeva alcune
popolazioni ad abbandonare le zone depresse e a costruire i villaggi sulle dune
sabbiose dell' Adige (69).
Le nostre popolazioni, per la scarsità delle risorse
alimentari, furono costrette a migrare in cerca di nuove terre coltivabili,
lasciando così liberi gran parte dei
villaggi. Questo fu un altro motivo che
portò le poche popolazioni rimaste nel territorio avesano a ritirarsi in Castel
San Pietro, dove le capacità di difesa erano maggiori, e dove vi era la
possibilità di coltivare sul colle e lungo le valli laterali: Valdonega e San. Giovanni in Valle.
Questo spopolamento sembra sia stato di breve durata, perché
tra i 3000 e i 2900 anni fa, le popolazioni riconoscibili con il nome di
Euganei, rioccuparono i villaggi collinari da poco abbandonati.
Ricostruzione ideale del
castelliere che sorgeva sul colle di San Pietro (Castel San Pietro o Monte Gallo) di Verona, del probabile ponte in legno
costruito sull'Adige e del villaggio che, forse, esisteva tra l'area del Duomo
e il Ponte Pietra. (Da un disegno di Danilo Benacchio per la Storia di
Verona di G. Solinas).
Dopo i 3000 anni fa - secondo Tito Livio - si erano
insediate nel Veneto genti di origine indoeuropea. Queste popolazioni erano gli
Èneti provenienti dall'Asia Minore che, cacciati in seguito ad una guerra ,
dalla loro terra, la Paflagonia si allearono ai troiani.
Sconfitti dai greci furono costretti a migrare; trovarono in
Antenore un condottiero, che li
condusse verso nuove terre. Èneti e Troiani scacciarono gli Euganei dalle loro
sedi tra le Alpi e il mare e ne occuparono il territorio: le nuove popolazioni
vennero chiamate Veneti. (Lo storico e geografo greco Strabone nato verso il 62 a.c. e morto circa il 20 d.C. scrive che,
con il nome generico di Veneto, si chiamavano allora tutte le terre della gran
pianura adiacente alle lagune dell'Adriatico, dove scendono i fiumi Isonzo,
Tagliamento, Livenza, Piave, Musone, Brenta, Sile e Adige).
Ma a tutt'oggi, il problema di come siano arrivati i Veneti
nella nostra provincia, già occupata dagli Euganei, è sospeso. L'arrivo degli
Èneti paflagonici, secondo gli scrittori latini, avviene dopo la guerra di
Troia, datata tra il XIII e il XII secolo a.C., cioè all'inizio della grande
migrazione.
Le fotografie illustrano, in grandezza quasi naturale, il più antico manufatto finora trovato nel centro storico di Verona: una punta di giavellotto. E stata raccolta in uno strato sabbioso depositato dall'Adige ad una profondità di circa m 4,50 dal suolo dove oggi sorge il cortile del tribunale, al di sotto di una buca posta al lato sud-est, scavata per estrarre sabbia in periodo alto medievale. Lo stato fisico della punta silicea non presenta segni di rotolamento o di esposizione ai raggi solari, perciò, probabilmente, venne persa da un cacciatore neolitico abitante nei villaggi che gravitavano attorno all'area di Avesa.
Per quanto riguarda la nostra area, le fonti archeologiche
ci indicano che parte degli abitati collinari occupati dagli Euganei, vengono
nuovamente abbandonati per circa 200 anni; fra i 2800 e i 2500 anni fa (70). Forse ciò in parte coincide con la
penetrazione dei Veneti nelle nostre terre, ma anche perché il clima in questo
momento mutava nuovamente, in quanto oltre a rimanere fresco diventava anche
abbastanza arido, permettendo il ripopolamento della pianura, dove la terra era
molto più fertile. Ma Castel san Pietro,
per la sua posizione naturale e come massimo centro commerciale, doveva
senz'altro essere ancora abitato, come dimostra una fibula veneta databile
all'VIII sec. a.C., rinvenuta ai piedi del colle, a porta S. Giorgio (71).
Com'è logico pensare, all'invasione dei Veneti, gli Euganei
vennero in parte «sottomessi» e in parte si ritirarono sulle Alpi dove si
fusero con i Reti.
Nel frattempo, nella valle padana si sviluppa anche la
colonizzazione degli Etruschi, i quali con i mezzi superiori di cui disponevano
preparavano in Val Padana quell'ambiente idoneo all'agricoltura, che sarà poi
sfruttato dai Galli. Il predominio
etrusco sull'Italia settentrionale venne ostacolato ad oriente dall'Adige e dai
Veneti, a nord dai Reti e ad occidente dai, Liguri.
Non si sa ancora niente di preciso circa le popolazioni retiche. Gli studiosi le considerano popolazioni forse
preindoeuropee o ariane fortemente influenzate
dalla superiorità della civiltà degli Etruschi. A partire da circa 2450 anni fa si raggiunge
l'apice dell'Età del Ferro e la nostra zona entra nella protostoria.
Circa 2500 anni fa, il clima da fresco arido diventava lentamente arido caldo. L'aridità permetteva alle popolazioni di
rioccupare anche le zone depresse della valle padana, dove venivano costruiti
nuovi villaggi e molte strade. Nello
stesso periodo i nostri villaggi collinari ritornavano ad essere abitati dai
Reti; i Veneti, che vivevano nella pianura, non li ostacolarono ma strinsero
invece buoni rapporti commerciali con loro. Plinio attribuisce ai due popoli Reti e
Euganei la fondazione della città di Verona. Poco tempo dopo,
iniziavano ad inserirsi nella pianura occidentale veronese le prime popolazioni
galliche. Tra i 2500 e i 2400 anni fa si ebbe un incremento demografico e
l'area sul colle di San Pietro non era più sufficiente a contenere la popolazione.
Ed infatti troviamo oggetti e strutture abitative di tipo retico-alpino nella
Valdonega, confinante con la Valle di Avesa. Il riparo Mezzena veniva probabilmente
frequentato da pastori dell'età del Ferro. L'incremento demografico è indice di
un periodo tranquillo nella vita della popolazione, confermato anche
dall'intensificarsi dei traffici commerciali lungo le vie fluviali e terrestri con
l'Etruria e in modo particolare con le popolazioni galliche provenienti
dall'area lombarda. All'inizio dei 2400
anni dal presente, viene conclusa l'invasione gallica nell'Italia settentrionale.
Di conseguenza nella pianura occidentale veronese la presenza gallica è sempre
più consistente. I dati attuali raccolti
attraverso l'archeologia, ci indicano che i Galli non si insediarono a
Verona.
Frammenti ceramici, disegnati al
naturale, con sopra graffite lettere e sigle dell'alfabeto retico, rinvenute
sul Castejon di Colognola ai Colli. Queste ceramiche graffite si rinvennero anche nelle seguenti località:
Archi di Castel Rotto, San
Briccio di Lavagno, S. Anna d'Alfaedo,
Velo Veronese ed altre.
Questi rinvenimenti archeologici
fanno ritenere che i nomi antichissimi
di Avesa e Verona siano di origine più retica che gallica, anche perché i Galli
giunsero a Verona quando già esisteva la «citta», e non vi entrarono come
conquistatori ma vi si insediarono pacificamente. Quindi rispettarono
toponimi e tradizioni locali. (Disegno di A. Solinas).
Tito Livio scrive
che la tribù dei Galli Cenòmani sarebbe giunta fino ai luoghi dove ora stanno
Brescia e Verona. Poi Livio è ben preciso nel ribadire che tutta la valle del
Po venne occupata dai Galli excepto Venetorum angulo.
Strabone
indica come terra veneta l'area compresa tra l'Adige e l'alto Adriatico.
Polibio (nato nel 200 a.C. e morto prima del 120 a.C), dice
che al suo tempo i Veneti avevano ancora una consistenza etnica propria, ma
abitudini poco differenti dai Galli (l'antropologa Mariantonia Capitanio afferma che le tombe galliche di Valeggio
appartenenti al II-I secolo a.C. hanno sì corredo gallico, ma gli inumati sono
antropologicamente da ritenere veneti), e ci assicura che quando i Galli Senoni
guidati da Brenna invasero Roma nel 390 a.C., i soli Veneti irruppero nell'agro
gallico costringendo gli stessi Galli a scendere a patti con i Romani ed a
farli ritirare nel loro territorio.
Qualche tempo dopo (283 a.c.) il Senato Romano strinse patti
con i Veneti e i Cenomani per frenare l'infiltrazione gallica, in modo
particolare nella zona compresa tra l'Adige e il Po, per rendere i Galli meno
pericolosi. E solo nella guerra contro i
Galli Boi, Insubri e Cesati, culminata nella battaglia di Talamone (225 a.C.) i
Veneti ed i Galli Cenòmani furono alleati di Roma. Le fonti archeologiche ci
dicono che solo dopo questi avvenimenti si riscontra una forte presenza gallica
nel veronese.
Il territorio veronese era passato definitivamente sotto il
dominio cenòmano. Il Salzani scrive che «durante la tarda età del Ferro lo sviluppo
colturale della pianura veronese diviene dunque strettamente collegabile con
quello della Lombardia e diventano più rimarchevoli la differenza con l'area
colturale della collina che si è sì celtizzata, ma che è soprattutto
qualificata da una massiccia presenza di elementi retici ... » (72). Solo in questo momento (circa 2200
anni fa) si può ritenere che i Galli giunsero a Verona, quando la città già
esisteva. Tutto ciò spiega perché l'etimologia dei nomi di Verona e di Avesa
sia contesa fra Euganei, Reti, Veneti, Etruschi e Galli. Naturalmente l'abitato sul colle di San
Pietro, essendo situato in posizione strategica, fu senz'altro occupato dalle
genti galliche. Ciò può spiegare perché
per secoli il colle di Castel San Pietro venne chiamato Monte Gallo (73). L'occupazione degli abitati
collinari da parte dei Galli, secondo le notizie archeologiche, non fu violenta
ma pacifica. Durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.), i Cenòmani e i
Veneti furono alleati dei Romani. Nel 194 a.C. vennero sconfitti
definitivamente i Galli, e poi nel 176 a.C. i Liguri e due anni dopo gli Istri.
A conclusione di queste operazioni militari i romani iniziarono la
colonizzazione della valle Padana. La via Postumia verrà costruita nel 148 a.C.
e con essa si instaurava la presenza romana nella nostra città e dintorni.
I romani sembra che si interessassero quasi subito alla
Valle di Avesa, la quale assunse un certo interesse verso il 50 a.C., quando
nella costruzione delle mura della città di Verona venne impiegato il «tufo»
locale (74).
Verso l'anno 15 a.C. veniva costruita la grande via
consolare Claudia Augusta, il suo tracciato attraversava la bassa valle di
Avesa da est ad ovest, ed essa riacquistava vita e floridezza. Vi prosperavano
l'agricoltura e le cave di calcare e venivano costruite anche ville lussuose (75). D'ora innanzi la vita di Avesa
sarà sempre più legata alle vicende storiche della città di Verona.
Tavola cronologica che
rappresenta parte dell’ultima era geologica( il Quaternario, in cronologia
convenzionale). Sono evidenziati i vari stati glaciali con i rispettivi
cambiamenti climatici dell’Italia settentrionale; l’evoluzione fisica
dell’uomo, le sue civiltà e la conoscenza attuale della sua presenza nella
Valle di Avesa. (Disegno Alberto Solinas)
NOTE
(1) Goiran A., Catalogo
degli oggetti presentati alla Esposizione Preistorica Veronese, inaugurata
il 20 febbraio 1876, Verona.
(2) È la selce
alterata dalla luce solare, che con il passare del tempo acquista sempre più
quella caratteristica patina biancastra.
(3) Graziosi P., Un
giacimento paleolitico a Quinzano presso Verona, Archivio per
l'Antropologia e l'Etnografia, vol. LXIX, anno 1939.
(4) Battaglia R.,
L'uomo fossile nel Veneto, in «Il giacimento pleistocenico di Ca' Rotta
a Quinzano presso Verona». Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere
ed Arti, anno accademico 1938-39.
(5) Battaglia R.,
1938-39, op. cit.
(6) Lenoardi P., Risultati
paletnologici di uno scavo sistematico nel deposito pleistocenico di Quinzano
presso Verona, «Pontificia Accademia Scientiarum», anno VI, vol. VI, 1942.
(7) Zorzi F. -
Pasa A., Il deposito Quaternario di Villa di Quinzano, «Bollettino di
Paletnologia Italiana», nuova serie, anno VIII, 1944-45.
(8) Dagli appunti
inediti di Giovanni Solinas.
(9 Si noti che le
zone più ricche di materiale si liceo in Italia si trovano sui Lessini e sul
Gargano.
(10) Battaglia
R., 1938-39, op. cit.
(11) Zorzi F. -
Pasa A., 1944-45, op. cit.
(12) Graziosi P.
1939, op. cit.
(13) Graziosi P.
1939, op. cit.
(14) Zorzi F. -
Pasa A., 1944-45, op. cit,
(15) Zorzi F. -
Pasa A., 1944-45, op. cit.
(16) Leonardi P.,
La grotta del Broion nei colli Berici (Vicenza). Nuova stazione preistorica con industria
paleolitica gravettiana, «Rivista di Scienze Preistoriche», vol. VI, 1951.
(17) Broglio A. -
Laplace G. - Zorzi F., I depositi quaternari del Ponte di Veja, le
industrie, «Memorie del Museo Civ. St. Nat., Verona» vol. XI, 1963.
(18) Battaglia
R., Osso occipitale umano rinvenuto nel giacimento pleistocenico di Quinzano
nel Comune di Verona, «Palaeontographia Italica», vol. XLII, anno 1942-46,
Pisa 1948.
(19) Battaglia
R., L'uomo fossile di Quinzano e I Protofanerantropi Europei del Pleistocene
antico «Memorie del Museo Civ. di St. Nat. di Verona», vol. I, anno
1947-48.
(20) Pasa A., Posizione
e confini, storia geologica e aspetto fisico del territorio veronese, «Verona
e il suo territorio», vol. I, 1960. Istituto per gli studi storici veronesi,
Verona.
(21) Hebere G., Der
«Quinzano - Fund» (Oberitalien) und seine Bedentung fiir die Herkunftsfrage
des heutigen Menschentypus, «Naturwiss. Rundschau», Stuttgart, 1951; Idem, Das
Prdsäpiens problemen «Moderne
Biologie » festschrift fiir Hans Nachtsheim, Berlin 1950.
(22) Vallois
H.V., Neandertals and Praesapiens, The Huxley - Lecture «Journ.
R. Anthropol. Inst.», LXXXIV, Londra, 1954.
(23) Sergi S., I
tipi umani più antichi, in R. Biasutti, «Le razze e i popoli della terra»,
2ª
ed., Torino, 1953, vol. I. Idem, 3ª ed. UTET Torino 1958.
(24) Zorzi F., Insediamenti
e stirpi, «Verona e il suo territorio», vol. I, 1960, Istituto per gli
studi storici veronesi, Verona.
(25) Pasa A., Nuovi
indici paleoclimatici nel deposito di Quinzano (Veronese), «Atti
dell'Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona» Serie VI vol. VI,
anno 1954-55.
(26) Vaso in cui la bocca circolare veniva modificata fino ad
ottenerne una forma quadrata. È caratteristico del Neolitico medio in Italia
settentrionale che è compreso fra circa 6.000 a 5.000 anni fa.
(27) Il nome di
questo caratteristico vaso deriva dalla sua forma simile ad una campana, e
veniva costruito durante tutta l'età del Rame, che è in genere datata
convenzionalmente per l'Italia fra i 4.200 e i 3.800 anni da oggi.
(28) Corrain C., I
resti scheletrici umani dei livelli superiori del deposito quaternario di
Quinzano Veronese, «Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona»,
vol. VIII, 1960.
(29) Corrain C. -
Malgeri G., Le stazioni neo-eneolitiche dell'Italia nordappenninica le
sepolture ed i resti scheletrici umani, «Quaderni di Antropologia e di
Etnologia», I, Padova 1975.
(30) Biagi P., Il
Neolitico di Quinzano Veronese, «Memorie del Museo Civico di Storia
Naturale di Verona», vol. XX, 1972.
(31) Perin G., Scienza
e poesia sui Lessini, Verona 1972.
(32) Fasani L., L'età
del Bronzo, «Il Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria», edizioni
Banca Popolare di Verona, 1984.
(33) Fasani L.,
1984, op. cit.
(34) Zorzi F., Contributo
alla conoscenza della civiltà campignana nel Veronese, «Memorie del Museo
Civ. di St. Nat., Verona», vol. I, 1947-48.
(35) Grancelli
U., La difesa retica della Lessinia occidentale, «Mem. del Museo Civ. di
St. Nat., Verona», vol. I, 1947-48; - Grancelli
U., Vestigia di abitati castricoli nella Lessinia, «Accademia di
Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona», serie VI, vol. IV, anno 1952-53.
(36) Solinas G., Storia
di Verona, 1981. - Zorzi F., Il castelliere del monte Purga di Velo
Veronese, «Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona», serie V,
vol. XXVI, anno 1949-50.
(37) Zorzi F., Un
'amigdala acheuleana scoperta a Lughezzano di Valpantena nel quadro del
Paleolitico inferiore e medio veronese, «Memorie del Museo Civ. di St.
Nat., Verona», Vol. VII, 1959. - Palma di Cesnola A., Gli scavi del Riparo
Zampieri presso Verona «Memorie del Museo Civ. di St. Nat., Verona», vol.
IX, 1961. - Bartolomei G. - Cattani L. - Cremaschi M. - Pasa A. - Peretto C. -
Sartorelli A., Il Riparo Mezzena, «Memorie del Museo Civ. di St, Nat.,
Verona», (2ª serie), sezione dell'uomo N. 2, 1980. - Solinas G., Dalla
preistoria alla romanità, in «Avesa» vol. I, la Consortìa di Avesa, 1979.
(38) Solinas G., Lessinia,
Quaderno primo, Verona 1975. - Solinas G., Dalla preistoria alla
romanità, cit.
(39) Cremaschi
M., I paleosuoli ed i depositi
atriali delle cavità carsiche e dei ripari, «Il Veneto nell'antichità,
preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona 1984.
(40) Spadoni F., Ponte
Crencano, «Bollettino del Museo Civ. di St. Nat. di Verona», vol. IV, 1977.
(41) Peretto C., Il Veneto nell'antichità, op. cit.,
1984.
(42) Bartolomei
G. - Cattani L. - Cremaschi M. - Pasa A. - Peretto C. - Sartorelli A., Il
Riparo Mezzena. «Memorie del Museo Civ. Se. Nat. Verona», II serie, sezione
Scienze dell'Uomo, N. 2, 1980; - Palma di Cesnola A., Riparo Zampieri, «Riv,
Sc. Preist.», XIV, 1959; - Palma di Cesnola A., Gli scavi del Riparo
Zampieri presso Verona, «Mem. Mus. Civ. Sco Nat. Verona», IX 1961; -
Corrain C., Resti scheletrici umani del Riparo Mezzena, «Mem. muso Civ.
Sc. Nat. Verona», XVI 1968; - Corrain
c., Osservazione sui reperti umani del Riparo Mezzena, in «Avesa», vol.
I, 1979; - Capitanio M., Neandertaliani ad Avesa, in «Avesa» vol. I,
1979; - Solinas G., Dalla preistoria alla romanità. in «Avesa» vol. I,
1979; - Solinas G., Storia di Verona, 1981.
(43) Zorzi F. -
Pasa A., Il deposito quaternario di Villa di Quinzano presso Verona, «Boll.
paletnologia italiana», anno IX, parte II, 1946.
(44) Sorbini L. -
Accorsi C. A. - Bandini Mazzanti M. ; Forlani L. - Gandini F. - Meneghel A. -
Rigoni A. - Sommaruga M., Geologia e geomorfologia di una porzione della
pianura a sud-est di Verona, «Memorie del Museo Civ. di St. Nat. di Verona»
(II serie), Sezione Scienze della Terra n. 2, 1984.
(45) Corrà G., Il
ruolo delle glaciazioni quaternarie nelle vicende della idrografia atesina. «Natura
Alpina», IV, 1974.
(46) Broglio A., Il
Paleolitico superiore (Aurignaziano, Gravettiano, Epigravettiano antico). In
«Il Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare
di Verona 1984.
(47) Solinas A., Primi
manufatti certi del Mesolitico recente e dell'antico Neolitico rinvenuti in
Lessinia, in «La Lessinia ieri oggi e domani», quaderno culturale 1985.
(48) Chelidonio
G. - Farello L. - Partesotti R., Preistoria
sulle Torricelle: nuove scoperte ed ipotesi per le più antiche frequentazioni
della collina veronese, in «La Valpantena», primo quaderno culturale 1986.
(49) Bagolini B.,
Neolitico, in «Il Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria»,
edizioni Banca Popolare di Verona, 1984.
(50) Zorzi F., Preistoria
veronese. Insediamenti e stirpi, in «Verona e il suo territorio», Istituto per gli studi storici veronesi, 1960.
(51) Corrain C. I
resti scheletrici umani dei livelli superiori del deposito quaternario di
Quinzano veronese, «Memorie Museo Civ. St. Nat. Verona», vol. VIII, 1960.
(52) Alciati G. -
Marcolin G. - Rippa Bonati M., Paleoantropologia, in «II Veneto
nell'antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona,
1984.
(53) Solinas G., Avesa
dalla preistoria alla romanità, in «Avesa» La Consortìa di Avesa, voI. I°
1979. - Chelidonio G., Appunti sulla
predeterminazione nei nuclei da lame. La tecnica di «Corbiac», in
«Preistoria alpina» n. 20, 1984.
(54) Solinas G.,
1981, op. cit. (55) Bagolini B., -1984, op. cit.
(56) Solinas G., Selci
preistoriche o di. .. mezzo secolo fa? in «Rivista di scienze
preistoriche», vol. VIII, 1953. - Solinas G., Selci lavorate per acciarino
nell'Italia settentrionale e in Francia, «Studi trentini di scienze
naturali», sezione B, vol. XLVIII n. 2, Trento 1971. - Benetti A. Manufatti
di selce preistorici e storici a Camposilvano nei Lessini veronesi, in
«Studi trentini di scienze naturali», vol. 54, Trento 1977.
(57) Solinas G., Avesa
dalla preistoria alla romanità, vol 1° cit, 1979.
(58) Pasa A., op.
cit., 1954-55.
(59) Sorbini L. -
Accorsi C.A. - Bandini Mazzanti M. - Forlani L. ecc., op. cit., 1984.
(60) Bartolomei
G. Evoluzione fisica e biologica dal Pliocene ai giorni nostri, in «Il
Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di
Verona, 1984.
(61) Zorzi F.,
op. cit., 1960.
(62) Perin G. op.
cit. 1972.
(61) Salzani L., Colognola
ai Colli, indagini archeologiche, Comune di Colognola ai Colli, 1983.
(64) Corrain C. -
Espamer G. - Biasi M. Resti scheletrici umani di epoca enea da Bovolone (Verona).
Atti e memorie della Accademia di
Agricoltura Scienze e Lettere di Verona; serie VI - vol. XXXV, anno accademico
1983-84. Verona 1985.
(65) Cardarelli
A. Castellieri nel Carso e nell'lstria: cronologia degli insediamenti fra
media età del Bronzo e prima età del Ferro. Preistoria del Caput Adriae.
Trieste 1983.
(66) Leonardi G. Testimonianze
preistoriche di Conegliano, s.d. - Fasani L., L'insediamento protoveneto
di Mariconda, Melara, Rovigo, Padusa 1973. - Fasani L. - Salzani L. Nuovo
insediamento dell'età del bronzo in località Fondo Paviani presso Legnago (VR).
Bol. Mus. Civ. St. Nat. di Verona 1975.
(67) Bernardini E. L'Italia Preistorica. Newton
Compton editori. Stampato nell'ottobre
1983.
(68) Solinas G.
op. cit. 1981.
(69) Pasa A. op.
cit. 1956.
(70) Salzani L., Colognola
ai Colli, studi sul Territorio dalla formazione all'età romana. Parrocchia
di Colognola ai Colli. 1983. - Salzani L., Colognola ai Colli, indagini
archeologiche. Comune di Colognola ai Colli 1983. - Salzani L., Preistoria
in Valpolicella. Centro di documentazione per la storia della Valpolicella.
Verona 1981.
(71) Salzani L. Castel
S. Pietro, le documentazioni protostoriche, Civiltà Veronese, n. 2,
1985.
(72) Salzani L., Il territorio veronese durante
il I millennio a.C. «Il Veneto nell'antichità, preistoria e protostoria»,
Edizioni Banca Popolare di Verona. 1984.
(73) Da Persico
G. Descrizione di Verona e della sua provincia, 1820.
(74) Peroni G., Due
mila anni di impiego del calcare. «Avesa» 1979.
(75) Franzoni L. Foglio
49 edizione archeologica, Firenze. 1975.
Fonte: srs di Alberto Solinas, da LA PREISTORIA NELLA VALLE DI AVESA
Fonte: srs di Alberto Solinas, da LA PREISTORIA NELLA VALLE DI AVESA
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