martedì 20 aprile 2010

Verona 16 aprile 1909 moriva suicida Riccardo Lotze il mentore dei fotografi veronesi



Riccardo  Lotze nel ricordo di Giancarlo Beltrame da L’Arena di Verona del 14 aprile 2008

Verona 16 aprile 2008: Riccardo  Lotze    99 anni fa il suicidio. E c’è un giallo

STORIA VERONESE. Il 16 aprile l’anniversario della fine del «mentore dei fotografi veronesi», come scrisse all’epoca il cronista de L’Arena. Al quale sfuggì qualcosa

Ci sono informazioni che anche al cronista più attento alla notizia possono sfuggire. Spesso, come nel caso della Lettera rubata di Edgar Allan Poe, sono proprio lì, sotto il naso, in bella evidenza, eppure passano inosservate e non vengono colte.  Poi, a distanza di tempo, di molto tempo, una coincidenza colpisce uno studioso, uno storico o un appassionato dilettante, e allora riemergono con tutta la loro forza.


16 APRILE 1909. La storia che stiamo per raccontare succede a Verona quasi un secolo fa, 99 anni per la precisione, la sera del 16 aprile 1909.

È la storia di un suicidio, che oggi non comparirebbe nemmeno sulle pagine dei giornali, benché siano molte di più rispetto alle quattro dell'epoca del fatto, ma che allora si guadagnò un titolo su due colonne (quasi mezza pagina!) e un lunghissimo e dettagliato resoconto dell’anonimo giornalista (allora si usava così, non c’era la fregola della firma). 
Chi scrive il resoconto dimostra di conoscere bene l’autore del gesto estremo e ne traccia un profilo ricco di particolari.


IL MENTORE DEI FOTOGRAFI VERONESI.

Il suicida è un nome noto. Oggi come allora. Si tratta di Riccardo Lotze, «il mentore dei fotografi veronesi», come viene definito dall’autore dell’articolo, «che abitava in via Disciplina N.° 9 e che stamane (17 aprile 1909,  allora L’Arena usciva il pomeriggio, ndr) fu trovato cadavere avendo accanto un bicchiere con acido prussico col quale si era tolta la vita».

Segue il racconto di come «il povero Riccardo» era arrivato bambino a Verona, al seguito del padre (del quale però non viene fatto il nome, Moritz o Maurizio nella versione italianizzata),
«che prima abitava a Dresda quale pittore presso la Corte di Sassonia» e che «qui aprì uno studio fotografico in via Disciplina», dove «il figlio crebbe aiutando il padre che era una vera scienza nell’arte fotografica».

Poi ne «ereditò lo studio ed applicò alla fotografia tutte le cognizioni artistiche alle quali si era con passione dedicato», fino a diventare «un vero artista fotografo», che «ebbe momenti di vera celebrità», il cui «attelier», era «ricercatissimo specialmente dalle famiglie ricche o da chi desiderava lavori d’arte», «specialmente i monumenti e i panorami di Verona».


UNA VECCHIAIA DI SOLITUDINE.

Riccardo Lotze, dopo essere stato uno dei protagonisti della vita culturale cittadina della seconda metà dell’800, era ormai un uomo solo, stanco e provato dalla vita.
«In questi ultimi tempi», annota lo scrupoloso cronista, «era divenuto misantropo e taciturno e sfuggiva qualsiasi compagnia».
Era anche ammalato. Aveva 67 anni e l’anno precedente era stato «colpito da una grave malattia.
Un insulto apoplettico gli indeboliva le gambe e la vista», tanto da costringerlo a uscir di casa col bastone. Gli sono rimasti pochissimi amici, il celebratissimo pittore Angelo Dall’Oca Bianca e lo scultore Ugo Zannoni.
L’unica frequentazione assidua è quella «di una buona donnetta cinquantenne, certa Diletta Dal Piero, per la pulizia della casa».  E sarà proprio lei a ritrovarne il corpo privo di vita.

Da una decina d’anni «non esercitava più l’arte fotografica», ma il cronista non sa che ha già ceduto l’intero suo archivio fotografico, un vero e proprio patrimonio di lastre, alla Anderson di Roma, gli eredi di James, uno dei grandi fotografi romani dell’epoca del padre (oggi, ciò che è sopravvissuto, si trova negli archivi Alinari a Firenze).  E neanche la casa di via Disciplina è più sua.


UNA PRECISIONE TEUTONICA.

Il suicidio di Lotze non è il frutto di un impulso del momento, ma è un gesto programmato da tempo.
Molti i segnali che ce lo dicono.
La messinscena accurata. I
Il  saluto ai negozianti di mobili Bottazzini al rientro in casa la sera precedente.
Le chiavi del portone di casa, dell’alloggio e del comò lasciate in bella vista.
I biglietti manoscritti «disposti con ordine» con le ultime volontà, tra cui il testamento datato 6 giugno 1908, dieci mesi prima.

«Desidero che la mia salma sia presto condotta al cimitero col carro di ultima classe e senza alcun accompagnamento e che venga cremata», lascia scritto, pregando di «informare della mia morte» la sorella Giulia e il fratello Rodolfo a Monaco di Baviera, ai quali lascia «tutta la roba di mia proprietà».
 Prega anche di far chiudere l’alloggio al primo piano e al pianterreno e di ritirare le chiavi dalla donna di servizio.
In un altro foglio ci sono gli indirizzi della sorella Julia Lotze Schetllach e le disposizioni per il pagamento di 5 lire per la seconda quindicina del mese alla serva Diletta e di 3 lire al barbiere Giovanni Nodari.
Ma barba e baffi sono incolti. Che non avesse più un soldo? E fosse questa la causa del suicidio?


I MESSAGGI NASCOSTI.

E veniamo ai segnali nascosti che sfuggono al pur puntiglioso cronista di inizio ’900.
Sono almeno due. E collegati tra loro.
Il primo è nel biglietto d’addio, lasciato accanto agli altri.
«Sopra un biglietto da visita aveva con lapis copiativo registrata la sua morte nel modo seguente:  RICCARDO LOTZE    «m. 16 - 4 - 1909 d’anni 67»,  registra il reporter.

È quella data, scelta accuratamente, a colpire. Essa è infatti esattamente quella dell’anniversario della morte del padre Moritz, avvenuta a Monaco nel 1890.

Quel padre che l’aveva instradato nell’arte fotografica e di cui aveva sempre mantenuto il nome per lo studio di via Disciplina nell’arco ultradecennale di attività. Quel padre di cui ricorreva anche il centenario della nascita.


Il secondo è il modo scelto per uccidersi: l’acido prussico, ossia il cianuro di potassio. Vale a dire uno dei prodotti chimici fondamentali che i primi fotografi, come il padre e come egli stesso negli anni dell’apprendistato al suo fianco, usavano per il fissaggio delle prime lastre fotografiche al collodio.


Il suo, insomma, nel momento in cui la fotografia sta cambiando tecniche (l’albumina, di cui Lotze era un maestro indiscusso, cede il passo alla gelatina-bromuro) e forma (basti vedere le contemporanee sperimentazioni del giovane veronese Luigi Cavadini), suona come il mesto addio a un mondo e a una professione. In memoria e in onore del padre.

Meticolosa preparazione del gesto

Questo uno stralcio della cronaca de«L’Arena».


«Sopra un materasso disteso sul pavimento di mattoni stava sdraiato il cadavere di Riccardo Lotze. Sotto il capo aveva piegata in quattro una piccola imbottita. Giaceva compostissimo.
Era in maniche di camicia. Le gambe erano un po’ aperte, la mano sinistra teneva sotto la schiena.

Il braccio destro invece era disteso all’infuori fino a poggiare ul pavimento. Le dita della mano erano raggrinzite e le unghie erano appoggiate fortemente ai mattoni.
Vicino alla mano destra stava un bicchiere a calice contenente due dita di liquido giallognolo sulla superficie del quale si vedevano delle bollicine.
Vicino al bicchiere poi era un moccoletto di candela che poggiava direttamente sul pavimento.

La scena così viene facilmente ricostruita.
Venuta la sera, il disgraziato fotografo portò il materasso nel locale, vi si sdraiò, bevette il veleno, che deve essere stato potentissimo, come risultò poi dalla perizia medica, spense la candela ed attese la morte, che sopraggiunse quasi immediata.
 Durante gli spasimi dell’agonia, il Lotze si sbottonò il gilet come per calmare il dolore. 
Ha il capo piegato verso la finestra.  Tiene la bocca semiaperta e gli occhi aperti in direzione della finestra. Ha baffi bianchi e la barba bianca che apparisce non rasa da qualche giorno».

Un’occasione che non si deve perdere

Per i Lotze nel 2009 ricorre un centenario, anzi un bi-centenario.
Scadranno contemporaneamente, per quella che sembrava una coincidenza storica, ma che ora, come raccontiamo, non potrebbe più essere tale, il bicentenario della nascita di Moritz Eduard Lotze, avvenuta il 27 novembre 1809 a Freibergsdorf, in Sassonia, e il centenario della morte di suo figlio Richard, avvenuta a Verona il 16 aprile 1909.

Tempo fa, avevamo sollecitato il Comune a non far passare indimenticato l’anniversario, anche perché con i materiali presenti a Verona negli archivi pubblici e in collezioni private e con solo pochi prestiti mirati da grandi musei, si potrebbe realizzare nel Centro internazionale di fotografia degli Scavi Scaligeri una mostra straordinaria.

I Lotze infatti, ai quali la città non ha dedicato nemmeno un vicoletto o un giardino, sono stati i creatori dell’immagine fotografica di Verona.

Il nostro appello sembra stranamente caduto nel vuoto.
Intanto il tempo passa... G.B.

Fonte: srs di Gianfranco Beltrame da L’Arena di  lunedì 14 aprile 2008 cronaca pag. 15

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