Il 21 aprile 753 avanti Cristo è il giorno in cui, secondo la tradizione, veniva fondata Roma.
È vero che su questa data, fin dall' antichità sono stati sollevati molti dubbi ed essa rappresenta piuttosto un giorno simbolico: il Versacrum, la festa della primavera, dal vigoroso risveglio della natura e del rinnovarsi della vita.
Addirittura qualcuno, anagrammando il nome di Roma, ha scoperto che significa Amor, amore.
Ma è più facile che questo nome fatidico derivi da un arcaico «Stroma», cioè la città del fiume.
Ed è questa la tesi che ci convince di più, data anche la grande importanza del Tevere per i popoli di queste zone.
Per quanto riguarda l'anno di fondazione di Roma, esiste ancor più incertezza.
Da un insediamento permanente, anche in epoca anteriore alla data convenzionale, si sviluppa il primo nucleo della città.
E' probabile che in questa epoca si siano completati degli accordi fra tribù che permisero un'intesa permanente fra le popolazioni stanziate sul Palatino e quelle del Quirinale che avevano creato la loro roccaforte sul Campidoglio.
Non è da escludere che nel frattempo gruppi etruschi si fossero già stabiliti sulle rive del Tevere nei pressi dell'isola Tiberina e nella zona del Foro, dove già nell'antichità c'era una strada che faceva riferimento preciso agli artigiani etruschi del luogo.
Ma come appariva, anche fisicamente, questa popolazione romana che nell'VIII secolo avanti Cristo si trovava probabilmente in via di formazione?
Il gruppo del Palatino e quello del Quirinale erano senza dubbio i due popoli principali: da un lato i Latini e dall'altro i Sabini, popolazioni piuttosto affini anche linguisticamente, ma tutt'altro che identiche.
Non vi è dubbio che i Sabini, già nella tradizione romana più antica, fanno pensare ad un gruppo di provenienza nordica o alpina emigrato in Italia in epoca più recente.
Di questo gruppo, infatti, ci sono state tramandate caratteristiche fisiche centro-europee, come capelli di frequente rossi o biondastri, statura slanciata, cranio dolicocefalo e visi piuttosto ovali.
Questi dati somatici, ricavabili da alcune descrizioni antiche, sono confermati anche da alcuni reperti ossei e da sculture in nostro possesso.
I Romani facevano maschere funebri molto accurate: da esse possiamo trarre, con una certa precisione, anche alcuni dati somatici.
Il ceppo latino abitante sul Palatino, invece, si era stanziato nel Lazio e più precisamente sui colli Albani, in un'epoca anteriore ai Sabini, in zone probabilmente già abitate da genti liguri.
Pertanto avevano assorbito parte di questa popolazione ed anche molti dei caratteri psichici e somatici, di tipo più strettamente mediterraneo.
In questo, il lettore deve aver ben chiara la differenza enorme che, sia sul piano fisico sia su quello culturale, separano le varie popolazioni dell'Italia antica dagli Italiani di oggi.
Potremmo parlare di popolazioni romano-italiche per questa prima epoca e di «latini», o meglio neolatini per quelle successive, già a partire dal II secolo dopo Cristo.
Con la parola neolatini (l'accezione inglese latini è causa di molti equivoci), anche oggi si intende un insieme di razze diverse, che hanno una comune eredità culturale, e una lingua derivata da quella dei Romani (Latini), ma che mostrano, solo in percentuali minime, l'appartenenza etnica ai ceppi originari del Lazio antico.
Potremmo dire che il fenomeno che si verificò nell'America Latina aveva avuto un importante precedente anche in altre parti dell'Europa sottomesse dai Romani.
Da Roma ereditarono la cultura e la lingua ma non i caratteri etnici dominanti.
I Romani erano in numero talmente limitato come popolo, che non poterono praticare una colonizzazione di tipo «anglo-sassone» con la sostituzione di popolazioni proprie a quelle preesistenti.
Né una colonizzazione del tipo «arabo» caso in cui la poligamia su larga scala moltiplicò a milioni la popolazione araba.
I Romani erano strettamente monogami e non molto prolifici fin dall'inizio della loro storia.
II numero dei cittadini romani nella Roma originaria si aggirava probabilmente sui 30.000 di cui la metà nel Contado.
Pochi erano anche gli schiavi, tutti di origine italico-mediterranea.
Neppure all'epoca dell'unificazione del Lazio, alla fine della monarchia, la popolazione doveva superare gli 800.000 abitanti.
Una volta unificati gli Italici affini a Latini e Sabini, si formarono le 17 tribù storiche che costituirono la spina dorsale della struttura della cittadinanza romana e della vera nazione romanoitalica originaria.
Complessivamente la popolazione raggiunse allora 3 milioni di abitanti circa, cifra che si mantenne fino al periodo precedente la prima guerra punica.
Da allora la popolazione romana andò diminuendo continuamente fino a ridursi progressivamente a non più di un milione di individui alla fine del I secolo dopo Cristo, quando l'imperatore Vespasiano decise di liberarla dal servizio militare obbligatorio, per impedire l'estinzione di alcune tribù, che come quella dei Velini era ridotta a poche centinaia di persone.
Perché questa decadenza e questa trasformazione?
La popolazione romana primitiva conobbe un periodo florido con l'introduzione di nuovi metodi d'allevamento, la sistemazione della valle del Tevere, la bonifica delle paludi e la conoscenza di nuove tecniche agricole che furono probabilmente tra i risultati più positivi dell'azione dei re pastori della prima epoca.
Il disboscamento del Lazio, territorio che oggi è completamente privo di foreste, ma che allora era coperto da fittissime selve e da paludi, fu una delle prime opere dei monarchi romani, e fu una delle imprese che caratterizzarono, nelle epoche successive, gli insediamenti romani in altre parti d'Europa.
In questa epoca, appare ai nostri occhi una solida popolazione rurale di tipo centro-europeo di grande forza fisica, dal tronco possente, dalla spalle larghe, con gambe più corte, ma più robuste di quelle dei nordici, di struttura prestante ed armonica e di notevole statura media.
Il legionario romano era abituato a marciare per decine di chilometri anche in un solo giorno, con carichi che fra armi e salmerie erano spesso di 30 o 40 kg ed anche più.
Non è assolutamente fondata la concezione diffusa in certi Paesi dell'Europa settentrionale che i Romani fossero una popolazione di tipo strettamente mediterraneo, di struttura fisica fragile, di altezza inferiore alla media europea, come ad esempio furono i Mongoli o altre popolazioni mediterranee.
I Romani erano incineratori e quindi non abbiamo referti scheletrici abbondanti.
Quel poco che ci rimane dice però innanzi tutto una cosa assai poco nota: gli scheletri delle popolazioni romano-italiche primitive appartenevano ad individui fisicamente più forti, prestanti e di più alta statura rispetto a quelli che abitarono l'Italia verso la fine del I secolo dopo Cristo.
Tanto per intendersi, all'epoca della distruzione di Pompei (79 avanti Cristo), l'unico periodo per il quale abbiamo una serie di referti scheletrici molto numerosi, la statura degli italici era più bassa e l'ossatura meno forte che nell'epoca arcaica o repubblicana.
La ragione di questa progressiva decadenza fisica è stata attribuita a vari fatti e ha dato luogo alle più strane tesi.
Fra questa è compresa una fantasiosa ipotesi di uno storico inglese che attribuì tale decadenza ed un progressivo avvelenamento dei Romani per i sali di piombo contenuti nel vino!
Ma fin dall'inizio della storia appare chiaro che la causa essenziale di questa decadenza fu l'enorme sacrificio di vite umane ricaduto sia sulle spalle del contadino che del nobile romano, in quella straordinaria impresa che portò Roma e la limitata popolazione italica al dominio del mondo allora conosciuto.
L'impero romano non fu certo fatto con le poche centinaia di morti delle battaglie navali inglesi e con le scarse perdite delle guerre coloniali europee.
Il servizio militare obbligatorio per il giovane romano durava 20 anni più 5 o 6 anni di addestramento.
Venivano presi i giovani di leva a 17/18 anni e non venivano rilasciarli quasi mai prima dei 40 anni.
«Legio» significava in latino «scelta».
Ogni anno si faceva la scelta o leva di tutti i maschi adulti, sani e adatti alle armi, lasciando a incombenze agricole o casalinghe quelli deboli e malaticci, assieme alle donne e agli anziani.
Questo sistema durato per secoli non favorì certo la razza romana.
Inoltre finché i Romani furono in grado di sospendere le principali attività belliche in autunno, per riprenderle a marzo, all'inizio della primavera, avevano qualche mese da dedicare alla famiglia e alla convivenza con la propria moglie e quindi alla procreazione dei figli.
Le guerre si combatterono prima nelle zone rivierasche del Mediterraneo, e poi in zone sempre più lontane dall'Italia, ai remoti confini dell'Impero.
Si cominciò a porre il problema delle «vedove bianche», cioè delle famiglie in cui la presenza dell'uomo era sempre più rara.
In seguito gli insediamenti di colonie romane e latine avvennero entro i confini dell'Italia storica, ci furono spostamenti di popolazioni all'interno del territorio italico, ma non una ulteriore perdita etnica come avvenne più tardi con la formazione di colonie in lontane zone dell'Impero.
Inoltre, durante il periodo della fondazione di colonie in Italia, le donne seguivano gli uomini che avevano avuto assegnazioni di terre.
La donna romana, però, non era una nomade, come le donne barbare e spesso finì per rimanere a casa da sola nella speranza, quasi sempre vana, del ritorno del proprio uomo partito in gioventù.
Il problema demografico era già gravissimo alla fine della seconda guerra punica, a causa delle enormi perdite dei giovani romani sui vari fronti di guerra: si calcola infatti che circa la metà degli uomini cadde in queste lunghe campagne militari.
Basti pensare che nella sola battaglia di Canne perì un quarto della gioventù dell'Italia centrale.
La battaglia di Aurasio, contro Cimbri e Teutoni, distrusse i 2/3 della nobiltà e dei cavalieri: i primi, come era consuetudine, chiamati alle armi e a pagare col sangue il loro debito verso la Repubblica.
Le guerre civili, anche queste spietate, fecero il resto.
Il processo di decadenza demografica divenne allora un fatto irreversibile.
Quando poi i confini dell'Impero si allargarono sui tre continenti, il ritorno per il legionario divenne sempre più problematico.
Non era ormai più pensabile che un soldato di stanza ai confini della Scozia, o fra le montagne del Caucaso, potesse tornare a Roma per la famiglia. Era un viaggio che avrebbe richiesto due anni di tempo.
Questa ragione geografica, oltre alle continue perdite su tutti i fronti di guerra, portò ad un vero collasso l'etnia romana, al volgere dell'era volgare.
Il problema fu compreso in tutta la sua drammaticità da Augusto, ma nonostante i provvedimenti presi dal grande imperatore il processo di diminuzione della popolazione romana era ormai divenuto irreversibile.
Perdite di guerra, insediamenti coloniali, mancanza di procreazione, causata dalla divisione delle famiglie, sono le tre cause principali che portarono progressivamente alla fine della razza romana.
Per cui, a parte alcuni ceppi originari, etnicamente depauperati, rimasti ancora insediati, specie sulle montagne dell'Italia centrale, (le pianure erano da tempo divenute latifondi lavorati da schiavi o da semi liberi che continuarono a resistere nel Medioevo), la stirpe romana può, come tale, ritenersi quasi distrutta alla fine del II secolo dopo Cristo.
Roma sopravvisse soprattutto per una continuità storica, culturale ed anche territoriale che prese corpo prima nella trasformazione dell'Impero, da pagano a cristiano, ed in seguito con la «surroga» dei poteri dell'Impero in vaste aree d'Italia da parte dei Pontefici romani.
E' stato il cattolicesimo e la struttura anche giuridica della Chiesa ad ereditare ampiamente il patrimonio di Roma.
E' stato detto che la Chiesa cattolica è il proseguimento dell'Impero romano in forma teologica, e il Papa un imperatore romano tornato più o meno al rango dell'antico «Rex Sacrorum».
Ma pur sottolineando i legami innegabili fra la romanità del tardo impero e la nuova istituzione cattolica, cultura e nazione romana da un lato, cristianesimo e nazione giudaica dall'altro, furono dei fattori opposti e si combatterono fermamente.
La continuità diretta fra Roma ed il cristianesimo esprime il senso della continuità morale e religiosa della civiltà europea tra Roma, Medioevo ed età moderna con aspetti puramente formali e rituali del tardo Impero ripresi dalla Chiesa (paramenti, liturgie e gerarchie cattoliche di vario genere).
Roma chiuse comunque la sua vicenda storica senza lasciare singoli eredi diretti, ma un patrimonio civile e morale comune a tutti i popoli dell'Occidente europeo ed anche dell'Oriente.
Il confronto con quella grande stirpe eroica e terribile insieme, ha tuttavia ossessionato gli italiani per secoli.
Gli italiani si sentirono un poco come certi nobili decaduti, discesi anche per una limitata ascendenza dai rami collaterali di qualche grande famiglia.
Una cosa però è certa: la grandezza di Roma li ha immunizzati da una sorta di nazionalismo moderno e dalle frustrazioni che ne sono spesso la causa.
Gli italiani non concepiscono nella maniera di altri popoli europei sentimenti di superiorità o inferiorità verso le altre nazioni.
II nome di Roma, di cui in qualche modo a torto o a ragione si sentono eredi, è talmente grande e universale, da non consentire il nascere di un limitato nazionalismo.
E' necessario provocare il sentimento nazionale degli italiani, per avere delle reazioni.
Ma è un sentimento discontinuo e contingente.
Quale famiglia di autentica nobiltà, del resto, per quanto impoverita e abbattuta, le cui origini si perdono nella notte dei secoli, può sentirsi veramente offesa dagli sberleffi di un plebeo maleducato o da un millantatore?
Questa è stata la grande forza dell'Italia anche nei momenti oscuri della sua storia. L'italiano fin da quando nasce respira questo senso di composta sicurezza che confina nell'indifferenza, ed anche nella eccessiva confidenza nei confronti di un patrimonio civile e culturale, che dovrebbe, per certo, comprendere meglio, e amministrare con più cura.
Fonte: da srs di Paolo Possenti da «Le radici degli italiani» volume I: «Il millennio Romano»; capitolo VII; editore Effedieffe, edizioni, 2001.
(VR 26 aprile 2010)