venerdì 30 aprile 2010

LACES DI VAL VENOSTA: UNA STELE RAFFIGURA LA MORTE DI OETZI


Un’incisione rupestre rinvenuta su una stele dell'età del rame potrebbe raffigurare la scena dell'assassinio di Oetzi, la mummia di 5 mila anni ritrovata nel 1991 sui ghiacci della Val Venosta.
La stele è stata recuperata a Laces, poco distante dal luogo di ritrovamento di Oetzi.
L'immagine rappresenta un arciere che lancia una freccia alle spalle di un uomo: Oetzi, dicono gli studiosi, sarebbe morto proprio così.

Fonte: Repubblica.it;  gennaio 2006

giovedì 29 aprile 2010

Il biologo Sirio Trevisanato: L'eruzione di Santorini causò le piaghe bibliche, un papiro egiziano spiega la fuga degli Ebrei



Il mondo prese a girare a rovescio come se fosse una ruota del vasaio e la terra si capovolse. (Papiro di Ipuwer, 1250 a.C).

Quando è successo? E soprattutto: cosa vuol dire?

Toronto 30 agosto 2006, ore 18,00,  al 496 di Huron Street,  Istituto Italiano di Cultura.
Un biologo italiano, Sirio Trevisanato, ha ricostruito gli eventi che afflissero l'antico Egitto di circa 3600 anni fa leggendo gli antichi papiri medici e ora dà delle risposte.
Trevisanato sarà a Toronto per parlare dei suoi studi «fatti per hobby», dice e in particolare presenterà presso l'Istituto Italiano di Cultura  alle 18 “Ipuwer, the Hitherto Uncredited Unifier of Ancient Egypt”. L'iniziativa è patrocinata dalla “Society for the Studies of Ancient Egypt e dall'Istituto Italiano di Cultura di Toronto”.

Ma cos'è Ipuwer?

È un antico poema che narra dello sconvolgimento che subì l'Egitto nel 1600 avanti Cristo circa e che gli studiosi hanno interpretato in vari modi.
«La presentazione è il frutto di un hobby - dice Trevisanato - e che dal 2004 in poi ha generato 5 articoli ed un libro. Sono biologo, e leggendo i papiri medici egiziani, ho notato come sia possibile ricostruire eventi dell'antico Egitto. Per esempio come un passo del papiro medico di Londra permettesse di identificare la natura del morbo (tularemia) che afflisse la capitale economica dell'Egitto del diciassettesimo secolo a.C.».
«Riguardo la presentazione - aggiunge il biologo - il testo di Ipuwer, frainteso in più modi dal mondo accademico, è restituito alla realtà descritta nel testo: un Egitto in preda a divisioni politiche, contrasti sociali molto pronunciati, occupazione straniera e disastri naturali... l'Egitto del 1600 a.C. afflitto dalla ricaduta di ceneri vulcaniche dell'eruzione di Santorini».

L'attuale isola di Santorini è in realtà l'antica Tehra che si trova nel mare Egeo. È un piccolo arcipelago delle Cicladi Meridionali. Le isole che lo compongono formano un anello montagnoso che racchiude il mare in un'ampia baia ovale il cui diametro massimo è di 11 chilometri e quello minimo di 7.
La maggiore delle isole, Thira o Santorini (75 chilometri quadrati), forma una mezzaluna aperta a ovest che abbraccia la baia per oltre 200°. La baia presenta un paesaggio sorprendente: essa è circondata da gigantesche pareti ocra, striate di bianco, chiazzate di nero a tratti, culminanti talvolta a 330 metri; al centro emergono isolotti nerastri, spogli, i Kaiménès o “isole bruciate”.

L'arcipelago costituisce un bellissimo esempio di vulcano esploso e sventrato. La sua forma è direttamente legata all'esplosione che avvenne nel 1470 a.C. ( gli ultimi  dati danno l’eruzione intorno al 1600 a.C.)  La camera magmatica si svuotò, 60 chilometri cubi di materiali vennero proiettati nell'atmosfera ed essendo crollata la volta, il mare irruppe nella caldera così formata. Dell'antico vulcano che sorgeva al centro della baia attuale, è rimasta soltanto l'Isola di Thira, a forma di falce di luna, in pratica metà del cono vulcanico.
Questa esplosione cambiò la vita sociale ed economica dell'Egitto e di buona parte del Mediterraneo in quanto le ceneri rimasero in sospensione per lunghissimo tempo.

«La presenza di ceneri era già nota da ritrovamenti sul fondo del Mediterraneo e di laghi egiziani - continua Sirio Trevisanato - e la data dell'eruzione è tuttora controversa per via della non accettazione da parte di storici ed archeologi dei dati più attendibili, ossia quelli al radiocarbonio, come indicato recentemente dall'Università di Aarhus in Danimarca sulla base di materiale proveniente dall'ultimo meristema di un tronco di ulivo sepolto da ceneri e pomice dell'eruzione a Santorini».

«Ipuwer costituisce un testo storico databile grazie a papiri medici egizi, che confermano una data all'interno dell'arco determinato in base al radiocarbonio e ciò metterebbe a tacere ogni controversia che storici ed archeologi potrebbero sollevare», afferma ancora lo studioso italiano, il quale aggiunge anche che esso «consente pure di scatenare una diversa controversia. La dinamica dell'eruzione di Santorini (ceneri seguite da una pausa nell'eruzione di 2-24 mesi, a seguito della quale subentrò la fase finale dell'eruzione) e questo spiega-combacia con le cosiddette dieci piaghe bibliche d'Egitto nell'ordine indicato nei testi biblici: ricaduta di ceneri con conseguente acidificazione di acque e reazione a catena da questa per piaghe; anomalie meteorologiche per via di ceneri rimaste sospese nell'atmosfera; pennacchio della fase finale dell'eruzione; reazione psicologica e culturale».
«Abbiamo qui del materiale che contraddice le tesi in voga nell'università e nei salotti di un testo biblico (almeno per quanto riguarda le piaghe e la presenza degli Ebrei in Egitto) basato sulla fantasia.

Molto è stato scritto sulla fuga degli Ebrei dall'Egitto e forse ora si è in grado di affermare qualcosa con una maggiore credibilità scientifica.
Sia l'inizio sia la fine mancano e le lacune del testo non aiutano a risolvere il problema della datazione. Si suppone che il saggio scriba Ipuwer descrivesse al faraone l'epoca in cui l'Egitto era piombato nel caos, esortandolo quindi a:

distruggere i nemici della residenza augusta ed eseguire i riti religiosi richiesti in modo che gli Dei sostenessero il restauro dell'Egitto”.

I fatti narrati sono interessanti.

Stanno succedendo i fatti che i nostri saggi hanno predetto - scriveva Ipuwer - i beduini si atteggiano ad Egiziani, il furfante si trova in ogni luogo. [...] I cuori sono violenti, il terrore dilaga e la nobiltà è costretta a mangiare l'erba dei prati ed a bere l'acqua del Nilo”.

Molte piaghe affliggono l'Egitto.

Le donne sono diventate sterili, quelli che erano Egiziani sono diventati stranieri e sono stati cacciati via... Oro, argento, malachite e cornalina ornano il collo delle schiave, l'uomo guarda il figlio come un nemico [...] I campi non danno più grano, il bestiame muore di malattia od è razziato, l'acqua del fiume è sangue”.

Compare nel testo così un indizio importante: le acque trasformate in sangue, come si legge nelle Sacre Scritture.
L'Esodo era un altro effetto della crisi che attanagliava il Medio Oriente? Alcuni studiosi hanno pensato alla caduta di un meteorite che avrebbe sconvolto la regione, ma ora si pensa al vulcano di Santorini.
Probabilmente il Papiro di Ipuwer potrebbe ricordare l'epoca terribile del grande disastro, quando siccità e carestia attanagliarono l'Egitto per la sospensione delle ceneri nell'atmosfera che impedivano al sole di scaldare la terra, al punto di far decidere al faraone di cacciare gli “schiavi” ebrei.

Non a caso un altro papiro attribuito anch’esso alla VI dinastia, detto delle “Profezie di Neferrohu”, ricordava che  

“...gli Asiatici non saranno lasciati tornare in Egitto ad elemosinare acqua e ad abbeverare il proprio bestiame!”.


Fonte: srs di Niccolò Marras da il Corriere. com  del 23 agosto 2006


mercoledì 28 aprile 2010

Egitto: La cacciata degli Hyksos


1786-1567 a.C. (Secondo Periodo Intermedio)

Nessuna scoperta egittologica di questi ultimi anni ha destato più scalpore fra gli studiosi del ritrovamento a Karnak, nel 1954, di una grande stele che riferisce in tutti i particolari le misure militari prese dal successore di Sekenenra, Kamose, contro il re Hyksos Aweserra Apopi.
Circa cinquant'anni prima di questa scoperta, gli scavi di Carnarvon avevano riportato alla luce una tavoletta in caratteri ieratici che descriveva le prime fasi del conflitto. Da principio qualche studioso aveva supposto che si trattasse di un semplice saggio letterario, ma nel 1935 alcuni  scriba, di un'autentica iscrizione storica eretta in quel tempio. Parafrasando e per sommi capi, il succo del racconto è questo:

“Nell'anno terzo del potente re di Tebe, Kamose, che Ra aveva designato legittimo sovrano concedendogli il vero potere, Sua Maestà radunò nel palazzo il consiglio dei nobili al suo seguito e cosi parlò: - Vorrei sapere a che serve questa mia forza, quando un capo è ad Avari, un altro a Cush, e io siedo sul trono insieme a un asiatico e a un nubiano, ciascuno in possesso della sua fetta d'Egitto, e io non posso neppure andare a Menfi senza passare davanti a lui. Guardate, egli occupa Khmun e nessuno si salva dalle spoliazioni a causa di questo servaggio ai Setyu. Voglio combattere con lui e aprirgli il ventre. Il mio desiderio è di liberare l'Egitto e sconfiggere per sempre gli Asiatici. Poi parlarono i nobili del consiglio: Guarda, tutti sono fedeli agli Asiatici fino a Cusa. Noi stiamo tranquilli nella nostra parte d'Egitto. Elefantina è forte e la parte di mezzo è con noi fino a Cusa. Gli abitanti coltivano per noi le loro terre più belle. Il nostro bestiame pascola nella pianura dei papiri. Ci viene mandato il grano per i nostri porci. Il bestiame non ci è rubato.”

I cortigiani ammettono che a certe condizioni potrebbe essere opportuno prendere l'offensiva, ma Kamose esprime il proprio disappunto per la prudenza dei loro consigli e dichiara di esser deciso a riconquistare tutto l'Egitto. Il racconto continua poi in prima persona:

“Discesi in forze il fiume per sconfiggere gli Asiatici secondo il comando di Amon, il più giusto dei consiglieri; il mio intrepido esercito davanti a me come una vampa di fuoco, le truppe dei Nubiani Medja sulla coffa al di sopra delle nostre cabine per spiare i Setyu e distruggere le loro postazioni. L'Oriente e l'Occidente avevano ogni ben di dio e ovunque fummo riforniti di ogni cosa.”

Pare che Kamose abbia poi mandato un distaccamento di Medjayu a punire un certo Teti, figlio di Pepi, evidentemente un importante personaggio egizio, che si era asserragliato a Nefrusy, facendone un covo di asiatici. Comunque, l'annientamento di questo nemico fu differito all'indomani.

“Passai la notte sulla nave, con il cuore felice. Appena fu chiaro, mi abbattei su di lui come un falco. E quando giunse l'ora di profumarsi la bocca, lo sconfissi, rasi al suolo le sue mura, uccisi la sua gente e ordinai che sua moglie scendesse sulla riva del fiume. I miei soldati erano come leoni sulla preda, e si divisero tutti i loro beni, servi, bestiame, latte, grasso e miele.”

Dopo alcune frasi più oscure, il testo ieratico s'interrompe e, quando il racconto riprende all'inizio della stele recentemente scoperta, Kamose è ormai vicino alla fortezza di Avari e schernisce l'avversario con vanterie e minacce. Il seguito degli avvenimenti è narrato con linguaggio assai retorico e prolisso. Possiamo citarne solo i passi più salienti. Evidentemente Apophis è stato cacciato dal Medio Egitto, perché tra le parole di Kamose troviamo questa compiaciuta affermazione:

“Il tuo cuore è spezzato, vile asiatico, tu che solevi dire: Io sono il padrone e non c'è nessuno che mi sia pari da Khmun e Pi-Hathor fino ad Avari.”

Che il guerriero tebano non si vergognasse minimamente della sua brutalità verso i propri compatrioti è chiaro dalle sue stesse parole:

“Abbattei le loro città e bruciai le loro case riducendole per sempre in un mucchio di rosse rovine, e questo per il danno ch'essi avevano causato all'interno dell'Egitto, servendo gli Asiatici e dimenticando che la loro signora era la terra d'Egitto.”

Segue subito dopo un capoverso della massima importanza:

“Aldilà dell'Oasi catturai un messaggero che andava verso il Sud a portare un dispaccio a Cush, e gli trovai indosso questo messaggio scritto dal capo di Avari. "Io, Aweserra, il Figlio di Ra, ad Apopi, mio figlio capo di Cush. Perché ti sei sollevato come capotribù senza farmelo sapere? [Non] hai visto che cosa l'Egitto ha fatto contro di me? Il capo che ivi risiede, Kamose il Potente, mi ha cacciato dalle mie terre e io non l'ho raggiunto - dopo tutto quello che ha fatto ai tuoi danni, ha scelto i due paesi, il tuo e il mio, per devastarli e li ha distrutti. Vieni subito ai Nord, non essere codardo. Vedi, egli è qui con me... non lascerò che se ne vada prima del tuo arrivo. Poi ci divideremo fra noi le città di questo Egitto”.

Il fatto assolutamente inatteso emerso da questo passo è che l'Apophis contro il quale combatté Kamose è quello stesso Aweserra il cui nome, trovato insieme a quello di Khayan sulla parete di un tempio a Gebelen, costituisce la prova principale che la penetrazione Hyksos era giunta fino a quell'estremo punto del Sud. Tutto il tenore della grande iscrizione attesta che il detto Apophis, probabilmente l'ultimo di questo nome, non estese mai il suo dominio oltre Khmun, salvo la breve occupazione di Gebelen (Pi-Hathor), e non esiste nessuna vera prova che qualche altro principe della sua stirpe ci sia riuscito. L'inizio della tavoletta Carnarvon aveva rivelato l'esistenza, fino allora ignorata, di un regno cushita indipendente, e il passo ora citato lo conferma. Inoltre di recente sono venute alla luce alcune stele provenienti da Wadi Halfa e recanti dediche di funzionari dal nome egizio che verso quest'epoca erano al servizio del “capo di Cush”. Ma i cortigiani, rispondendo a Kamose, avevano affermato che Elefantina era saldamente in loro potere, ed è evidente che per il momento il re non si preoccupava dei vicini nubiani, né di alcun'altra località a nord della prima cateratta fino a Khmun, tutti i suoi sforzi essendo concentrati nella cacciata degli Asiatici. La stele da poco scoperta si conclude con il racconto del trionfale ritorno di Kamose nella capitale, acclamato da una popolazione in preda a una gioia quasi isterica.

Però il destino aveva decretato che il vincitore definitivo degli Hyksos non fosse lui. Questa gloria doveva toccare al suo successore, Ahmose I (Amosis in Manetone), che le generazioni future avrebbero onorato come fondatore della XVIII dinastia.

Fonte:  Egitto antico.com

martedì 27 aprile 2010

EGITTO: XV Dinastia - La dominazione Hyksos


1786-1567 a.C. (Secondo Periodo Intermedio)

A proposito di questi stranieri lo storico ebreo Giuseppe Flavio nella sua polemica Contro Apione afferma di citare le parole autentiche di Manetone:

«Tutimaios. Durante il suo regno, per cause a me ignote, l’ira del Signore si abbatté su di noi; e all’improvviso dalle regioni dell’Oriente un’oscura razza d’invasori si mise in marcia contro il nostro paese sicura della vittoria. Con la sola forza numerica e senza colpo ferire s’impadronirono facilmente delle nostre terre; e avendo sopraffatto i reggitori del paese, bruciarono spietatamente le nostre città, rasero al suolo i templi degli dei e rivolsero la loro crudeltà contro gli abitanti, massacrandone alcuni, riducendo in schiavitù le mogli e i figli di altri. Finalmente elessero re uno dei loro di nome Salitis. Egli pose la sua capitale a Menfi, esigendo tributi dall’Alto e dal Basso Egitto e sempre lasciando dietro di sé guarnigioni nei posti più favorevoli... Nel nonio Sethroita trovò una città in ottima posizione a est del Nilo, sul ramo di Bubastis, chiamata Avari da un'antica tradizione religiosa. Egli la ricostruì e la fortificò con mura imponenti... Dopo aver regnato 19 anni, Salitis morì e gli successe un secondo re, Bnon che regnò 44 anni.  Dopo di lui venne Apachnan che governò il paese per 36 anni e 7 mesi; poi Apophis per 61 anni, e Iannas per 50 anni e 1 mese; ultimo Assis per 49 anni e 2 mesi. Questi sei re, loro primi sovrani, si dimostrarono sempre più desiderosi di estirpare la popolazione egizia. La loro razza, nel suo complesso, era chiamata degli Hyksos, vale a dire "re pastori", infatti nel linguaggio sacro hyk significa "re", e, in linguaggio popolare, sòs vuol dire "pastore"».

Giuseppe Flavio prosegue dando una diversa interpretazione del nome di Hyksos derivata da un altro manoscritto, secondo la quale esso significherebbe “prigionieri pastori”, dall'egizio hyk “prigioniero”. E' questa l'etimologia che preferisce, ritenendo, come molti egittologi, che la storia biblica del soggiorno degli Ebrei in Egitto e dell’esodo successivo traesse origine dall’occupazione degli Hyksos e dalla loro susseguente cacciata. In effetti, benché entrambe le etimologie abbiano fondate basi linguistiche, né l'una né l’altra è quella esatta.

Il termine Hyksos deriva senza dubbio dall’espressione hik-khase, “capotribù di un paese collinare straniero”, che dal Medio Regno in poi venne usata per indicare gli sceicchi beduini. Sono stati trovati scarabei, appartenuti con certezza a re Hyksos, che recano questo titolo, ma con la parola "paese" al plurale. E' importante osservare, tuttavia, che il termine si riferisce unicamente ai sovrani, e non, come pensava Giuseppe Flavio, alla razza intera. A questo riguardo gli studiosi moderni sono spesso caduti in errore, avendo alcuni persino insinuato che gli Hyksos appartenessero a una razza particolare che dopo aver conquistato la Siria e la Palestina era infine penetrata con la forza nell'Egitto. Niente però giustifica una simile ipotesi. L’invasione del delta per opera di una nuova razza specifica è fuori questione; si deve piuttosto pensare a un’infiltrazione di Palestinesi lieti di trovare rifugio in un più pacifico e fertile paese. Alcuni di essi, se non la maggior parte, erano semiti.

Dei sei monarchi Hyksos nominati anche da Sesto Africano, ma sotto una forma leggermente diversa, solo Apophis è individuabile con sicurezza nei geroglifici. Si conoscono tre re diversi che hanno come nome Apopi e come prenome rispettivamente Akenenra, Aweserra e Nebkhepeshra, quest'ultimo fu presumibilmente il meno importante, dato che non gli viene attribuito l'intero complesso di titoli faraonici goduto dagli altri due. Gli oggetti con i nomi di questi re sono scarsi, ma bastano a dimostrare che almeno Akenenra e Aweserra furono considerati legittimi sovrani dell'Egitto. Un altare di granito eretto da Akenenra fu da lui dedicato "al padre Seth, signore di Avari", e si è scoperto che una statua del re Mermesha, riportata alla luce negli scavi di Tanis, era stata da lui usurpata. Meno certa, ma tuttavia probabile, è l'identificazione del Iannas di Manetone con un "capo dei paesi stranieri Khayan" su molti scarabei, ma talvolta definito "il figlio di Ra, Seweserenra". Nome e prenome si trovano riuniti in un solo cartiglio sul coperchio di una vaso di alabastro scoperto da Evans a Cnosso in Creta, e il prenome Seweserenra ricorre anche sul petto di una piccola sfinge comprata presso un mercante di Baghdad. Basandosi su questi deboli indizi qualche studioso ha prospettato l'ipotesi che Khayan si fosse costituito un vasto impero comprendente tutti i luoghi citati, ipotesi da rifiutarsi perché troppo fantasiosa, per quanto sembri lecito ritenere ch'egli sia stato al tempo stesso capo locale in Palestina e faraone in Egitto. Ad ogni modo, egli può a buon diritto essere considerato uno dei sei principali monarchi Hyksos.

Lo stesso non si può dire di certi altri pretendenti al titolo di sovrano, il cui solo ricordo sono alcuni scarabei e sigilli cilindrici provenienti da regioni cosi lontane fra loro come la Palestina meridionale e l'avamposto di Kerma nel Sudan. Per uno o due di essi, come Anat-her e Semken, il diritto a esser considerato un re Hyksos si basa sull'uso del titolo di capotribù, ma anche coloro che come Merwoser e Maayebra chiudono il proprio nome in un cartiglio, o che come Yamu e Sheshi ostentano l'orgoglioso epiteto di "figlio di Ra", non hanno maggior diritto di quello derivante dallo stile degli oggetti che li nominano. Nessun monumento, nessuna epigrafe su roccia resta a testimoniare la loro sovranità, e la vasta diffusione di oggetti facilmente trasportabili come gli scarabei non ha valore di prova.

Di recente è venuto di moda distinguere due gruppi di Hyksos, l'uno composto dai sei re elencati da Manetone, l'altro comprendente i nebulosi personaggi appena citati. Di quest'ultimo gruppo è certo che nessuno raggiunse mai la dignità di faraone che qualcuno ha loro attribuito. Come si è già accennato, sembra inevitabile identificare i sei re Hyksos di Manetone con i sei "capi di paesi stranieri " ricordati nell'importantissimo frammento del Canone di Torino.
Si è talvolta sostenuto che due voci alla fine della nona colonna si riferiscano anch'esse a sovrani Hyksos, uno dei quali sarebbe il Bnon di Manetone, ma la scrittura ieratica è stata erroneamente decifrata e i prenomi racchiusi nei cartigli annullano decisamente questa ipotesi.
La cifra totale data dal compilatore del Canone è una prova sicura ch'egli non conosceva che sei re Hyksos e deve averli inseriti a malincuore nell'elenco dei re egizi solo perché erano troppo noti per passarli sotto silenzio. Ad essi vengono attribuiti 108 anni di regno complessivi.
L'intervallo fra la fine della XII dinastia e l'ascesa al trono di Amosis, fondatore della XVIII dinastia e vincitore degli Hyksos, fu di soli 211 anni. Se si situa nel quarto anno del regno di Amosis la fine dell'occupazione straniera e si sottraggono 108 dai risultanti 215 anni, non ne rimangono che 107 per le dinastie XIII e XIV di Manetone; che l'occupazione straniera comprenda anche un lungo tratto della XIV dinastia sembra escluso dal lungo regno di Neferhotep, il cui dominio si estendeva a nord fino a Biblo.
Se ne conclude che difficilmente può esservi spazio per più di sei re Hyksos abbastanza potenti da sedere sul trono dei faraoni, e in tal caso la definizione di Manetone "primi sovrani Hyksos" è ambigua e per le sue dinastie XVI e XVII non si può parlare di re pastori.
Un'altra prova convincente è data dal fatto che tra i "primi sovrani" di Manetone ci sia un Apophis; risulterà infatti che questo era anche il nome del re Hyksos contro il quale combatté Kamose, fratello e immediato predecessore di Amosis. Cosicché i sei re abbraccerebbero non solo l'inizio, ma anche la fine della dominazione straniera.

Ritornando allo storico Giuseppe Flavio e alle sue citazioni da Manetone, è chiaro ch'egli possedeva esatte informazioni su Avari, il caposaldo che fin dall'inizio gli Hyksos avevano scelto come loro base. Secondo il racconto del cronista ebreo, la città si trovava in quella parte del delta orientale conosciuta come nomo Sethroita. Sull'esatta ubicazione di Haware, per dare ad Avari il nome egizio, le opinioni divergono. La maggioranza degli studiosi ritiene che Avari fosse l'antica designazione di quella che divenne più tardi la grande città di Tanis, mentre altri propendono per una località vicino a Qantir, circa undici miglia più a sud.

Ad Avari gli Hyksos adoravano lo strano dio animale Seth. Ne abbiamo già parlato come del nemico e assassino del buon dio Osiride, ma gli Hyksos preferirono ignorarne questo deplorevole aspetto, come del resto già si faceva da tempo immemorabile in quel remoto angolo del delta. Questa nuova versione di Seth ora scritto alla maniera babilonese corrispondente alla pronuncia Sutekh, aveva certo caratteri più asiatica che non il primitivo dio indigeno, e nell'abbigliamento e nell'acconciatura del capo si notava una netta rassomiglianza con il dio semitico Baal.
E provato che gli Hyksos lo anteposero a tutte le altre divinità egizie, ma non ha reale fondamento l'accusa che quest'ultime fossero da essi tenute in dispregio e il loro culto perseguitato.
 Gli Hyksos avrebbero occupato Avari per più di cinquant'anni prima che uno di loro si sentisse abbastanza forte da assumere il titolo di faraone legittimo. E' importante osservare che la data della fondazione di Tanis fu ricordata a lungo: la Bibbia (Numeri 13.22) narra che "Hebron fu costruita sette anni prima di Zoan [Tanis] in Egitto", il che confermerebbe l'identità di Tanis con Avari, ma il valore dell'asserzione è molto discusso.

Riandando a ciò che le fonti dell'epoca ci hanno rivelato sull'umiliante episodio della dominazione degli Hyksos, ci si accorge che il racconto di Manetone tramandatoci da Giuseppe Flavio contiene vero e falso in misura quasi uguale.
E' nota la deformazione della verità dovuta a un certo tipo di letteratura divenuto convenzionale presso gli storici egizi, che di solito dipingono a tinte esageratamente fosche i periodi di miseria e anarchia perché maggior gloria ne derivi al monarca cui viene attribuita la salvezza del paese.
Il racconto di Manetone rappresenta l'ultimo stadio di un processo di falsificazione iniziato una generazione dopo la vittoria di Amosis.
Appena ottant'anni dopo la cacciata del nemico, la regina Hatshepsut descriveva l'invasione in maniera simile a quella del racconto di Sekenenra e Apophis, e gli stessi paralleli si troveranno in seguito sotto Tuthankhamon, Merenptah e Ramses IV.
Non è da credere che un potente esercito d'invasori asiatici si sia abbattuto come un uragano sul delta e che, dopo aver occupato Menfi, abbia infierito sulle popolazioni indigene con ogni sorta di crudeltà. Le rare testimonianze lasciate dai re Hyksos rivelano al contrario un sincero sforzo di accattivarsi gli abitanti e di imitare gli attributi e i sistemi dei deboli faraoni che avevano scacciato dal trono. E' ovvio, del resto, che altrimenti essi non avrebbero adottato la scrittura geroglifica e assunto nomi composti con quello del dio sole Ra. L'affermazione ch'essi imposero tributi all'Alto e al Basso Egitto è per lo meno dubbia. La teoria di un'occupazione generale del paese da parte degli Hyksos è stata definitivamente smentita dalla grande iscrizione di Kamose, nella quale è chiaramente sottinteso che gli invasori non avanzarono mai più in là di Gebelen, e anzi, poco dopo, furono costretti a stabilire il loro confine meridionale a Khmun.

La dominazione degli Hyksos non fu senza conseguenze per la civiltà materiale dell'Egitto. La più importante fu l'introduzione del cavallo e del cocchio che doveva avere una cosi gran parte nella futura storia del paese. Non è provato che queste novità abbiano contribuito in misura notevole alla vittoria degli Asiatici, ma certo furono di grande aiuto agli Egizi stessi nelle successive campagne militari. Anche nuovi tipi di pugnali e spade, armi di bronzo e il robusto arco asiatico devono esser contati tra i profitti di un episodio che altrimenti non potrebbe esser ricordato che come un disastro nazionale.

La cacciata degli Hyksos.

Elenco dei re della XV dinastia

Esistono due versioni leggermente diverse del testo di Manetone riguardo agli Hyksos:

GIUSEPPE FLAVIO

Salitis             19 anni           
Bnon              44 anni           
Apachnan       36 anni, 7 mesi           
Apophis          61anni           
Iannas             50 anni, 1 mese           
Assis               49 anni, 2 mesi           

SESTO AFRICANO

Saites                19 anni
Bnon                 44 anni
Pachnan            61anni
Staan                50 anni
Archles             49 anni
Aphophis           61anni


Il Canone di Torino cita semplicemente:

10.20    Capitano di un paese straniero: Khamudy
10.21    Totale, capitani di un paese straniero: 6, fecero 108 anni

Sui momunenti sono stati ritrovati solo quattro nomi:

Akhenenra Apopi
Nebkhepeshra Apop
Seweserra Khayan
Aweserra Apopi



lunedì 26 aprile 2010

La stirpe romana



Il 21 aprile 753 avanti Cristo è il giorno in cui, secondo la tradizione, veniva fondata Roma.
È vero che su questa data, fin dall' antichità sono stati sollevati molti dubbi ed essa rappresenta piuttosto un giorno simbolico: il Versacrum, la festa della primavera, dal vigoroso risveglio della natura e del rinnovarsi della vita.
Addirittura qualcuno, anagrammando il nome di Roma, ha scoperto che significa Amor, amore.
Ma è più facile che questo nome fatidico derivi da un arcaico «Stroma», cioè la città del fiume.
Ed è questa la tesi che ci convince di più, data anche la grande importanza del Tevere per i popoli di queste zone.
Per quanto riguarda l'anno di fondazione di Roma, esiste ancor più incertezza.
Da un insediamento permanente, anche in epoca anteriore alla data convenzionale, si sviluppa il primo nucleo della città.
E' probabile che in questa epoca si siano completati degli accordi fra tribù che permisero un'intesa permanente fra le popolazioni stanziate sul Palatino e quelle del Quirinale che avevano creato la loro roccaforte sul Campidoglio.
Non è da escludere che nel frattempo gruppi etruschi si fossero già stabiliti sulle rive del Tevere nei pressi dell'isola Tiberina e nella zona del Foro, dove già nell'antichità c'era una strada che faceva riferimento preciso agli artigiani etruschi del luogo.

Ma come appariva, anche fisicamente, questa popolazione romana che nell'VIII secolo avanti Cristo si trovava probabilmente in via di formazione?

Il gruppo del Palatino e quello del Quirinale erano senza dubbio i due popoli principali: da un lato i Latini e dall'altro i Sabini, popolazioni piuttosto affini anche linguisticamente, ma tutt'altro che identiche.
Non vi è dubbio che i Sabini, già nella tradizione romana più antica, fanno pensare ad un gruppo di provenienza nordica o alpina emigrato in Italia in epoca più recente.
Di questo gruppo, infatti, ci sono state tramandate caratteristiche fisiche centro-europee, come capelli di frequente rossi o biondastri, statura slanciata, cranio dolicocefalo e visi piuttosto ovali.
Questi dati somatici, ricavabili da alcune descrizioni antiche, sono confermati anche da alcuni reperti ossei e da sculture in nostro possesso.
I Romani facevano maschere funebri molto accurate: da esse possiamo trarre, con una certa precisione, anche alcuni dati somatici.
Il ceppo latino abitante sul Palatino, invece, si era stanziato nel Lazio e più precisamente sui colli Albani, in un'epoca anteriore ai Sabini, in zone probabilmente già abitate da genti liguri.
Pertanto avevano assorbito parte di questa popolazione ed anche molti dei caratteri psichici e somatici, di tipo più strettamente mediterraneo.
In questo, il lettore deve aver ben chiara la differenza enorme che, sia sul piano fisico sia su quello culturale, separano le varie popolazioni dell'Italia antica dagli Italiani di oggi.
Potremmo parlare di popolazioni romano-italiche per questa prima epoca e di «latini», o meglio neolatini per quelle successive, già a partire dal II secolo dopo Cristo.
Con la parola neolatini (l'accezione inglese latini è causa di molti equivoci), anche oggi si intende un insieme di razze diverse, che hanno una comune eredità culturale, e una lingua derivata da quella dei Romani (Latini), ma che mostrano, solo in percentuali minime, l'appartenenza etnica ai ceppi originari del Lazio antico.
Potremmo dire che il fenomeno che si verificò nell'America Latina aveva avuto un importante precedente anche in altre parti dell'Europa sottomesse dai Romani.

Da Roma ereditarono la cultura e la lingua ma non i caratteri etnici dominanti.

I Romani erano in numero talmente limitato come popolo, che non poterono praticare una colonizzazione di tipo «anglo-sassone» con la sostituzione di popolazioni proprie a quelle preesistenti.
Né una colonizzazione del tipo «arabo» caso in cui la poligamia su larga scala moltiplicò a milioni la popolazione araba.
I Romani erano strettamente monogami e non molto prolifici fin dall'inizio della loro storia.
II numero dei cittadini romani nella Roma originaria si aggirava probabilmente sui 30.000 di cui la metà nel Contado.
Pochi erano anche gli schiavi, tutti di origine italico-mediterranea.
Neppure all'epoca dell'unificazione del Lazio, alla fine della monarchia, la popolazione doveva superare gli 800.000 abitanti.
Una volta unificati gli Italici affini a Latini e Sabini, si formarono le 17 tribù storiche che costituirono la spina dorsale della struttura della cittadinanza romana e della vera nazione romanoitalica originaria.
Complessivamente la popolazione raggiunse allora 3 milioni di abitanti circa, cifra che si mantenne fino al periodo precedente la prima guerra punica.
Da allora la popolazione romana andò diminuendo continuamente fino a ridursi progressivamente a non più di un milione di individui alla fine del I secolo dopo Cristo, quando l'imperatore Vespasiano decise di liberarla dal servizio militare obbligatorio, per impedire l'estinzione di alcune tribù, che come quella dei Velini era ridotta a poche centinaia di persone.

Perché questa decadenza e questa trasformazione?

La popolazione romana primitiva conobbe un periodo florido con l'introduzione di nuovi metodi d'allevamento, la sistemazione della valle del Tevere, la bonifica delle paludi e la conoscenza di nuove tecniche agricole che furono probabilmente tra i risultati più positivi dell'azione dei re pastori della prima epoca.
Il disboscamento del Lazio, territorio che oggi è completamente privo di foreste, ma che allora era coperto da fittissime selve e da paludi, fu una delle prime opere dei monarchi romani, e fu una delle imprese che caratterizzarono, nelle epoche successive, gli insediamenti romani in altre parti d'Europa.
In questa epoca, appare ai nostri occhi una solida popolazione rurale di tipo centro-europeo di grande forza fisica, dal tronco possente, dalla spalle larghe, con gambe più corte, ma più robuste di quelle dei nordici, di struttura prestante ed armonica e di notevole statura media.
Il legionario romano era abituato a marciare per decine di chilometri anche in un solo giorno, con carichi che fra armi e salmerie erano spesso di 30 o 40 kg ed anche più.
Non è assolutamente fondata la concezione diffusa in certi Paesi dell'Europa settentrionale che i Romani fossero una popolazione di tipo strettamente mediterraneo, di struttura fisica fragile, di altezza inferiore alla media europea, come ad esempio furono i Mongoli o altre popolazioni mediterranee.
I Romani erano incineratori e quindi non abbiamo referti scheletrici abbondanti.
Quel poco che ci rimane dice però innanzi tutto una cosa assai poco nota: gli scheletri delle popolazioni romano-italiche primitive appartenevano ad individui fisicamente più forti, prestanti e di più alta statura rispetto a quelli che abitarono l'Italia verso la fine del I secolo dopo Cristo.
Tanto per intendersi, all'epoca della distruzione di Pompei (79 avanti Cristo), l'unico periodo per il quale abbiamo una serie di referti scheletrici molto numerosi, la statura degli italici era più bassa e l'ossatura meno forte che nell'epoca arcaica o repubblicana.
La ragione di questa progressiva decadenza fisica è stata attribuita a vari fatti e ha dato luogo alle più strane tesi.

Fra questa è compresa una fantasiosa ipotesi di uno storico inglese che attribuì tale decadenza ed un progressivo avvelenamento dei Romani per i sali di piombo contenuti nel vino!
Ma fin dall'inizio della storia appare chiaro che la causa essenziale di questa decadenza fu l'enorme sacrificio di vite umane ricaduto sia sulle spalle del contadino che del nobile romano, in quella straordinaria impresa che portò Roma e la limitata popolazione italica al dominio del mondo allora conosciuto.
L'impero romano non fu certo fatto con le poche centinaia di morti delle battaglie navali inglesi e con le scarse perdite delle guerre coloniali europee.
Il servizio militare obbligatorio per il giovane romano durava 20 anni più 5 o 6 anni di addestramento.
Venivano presi i giovani di leva a 17/18 anni e non venivano rilasciarli quasi mai prima dei 40 anni.
«Legio» significava in latino «scelta».
Ogni anno si faceva la scelta o leva di tutti i maschi adulti, sani e adatti alle armi, lasciando a incombenze agricole o casalinghe quelli deboli e malaticci, assieme alle donne e agli anziani.
Questo sistema durato per secoli non favorì certo la razza romana.
Inoltre finché i Romani furono in grado di sospendere le principali attività belliche in autunno, per riprenderle a marzo, all'inizio della primavera, avevano qualche mese da dedicare alla famiglia e alla convivenza con la propria moglie e quindi alla procreazione dei figli.

Le guerre si combatterono prima nelle zone rivierasche del Mediterraneo, e poi in zone sempre più lontane dall'Italia, ai remoti confini dell'Impero.
Si cominciò a porre il problema delle «vedove bianche», cioè delle famiglie in cui la presenza dell'uomo era sempre più rara.
In seguito gli insediamenti di colonie romane e latine avvennero entro i confini dell'Italia storica, ci furono spostamenti di popolazioni all'interno del territorio italico, ma non una ulteriore perdita etnica come avvenne più tardi con la formazione di colonie in lontane zone dell'Impero.
Inoltre, durante il periodo della fondazione di colonie in Italia, le donne seguivano gli uomini che avevano avuto assegnazioni di terre.
La donna romana, però, non era una nomade, come le donne barbare e spesso finì per rimanere a casa da sola nella speranza, quasi sempre vana, del ritorno del proprio uomo partito in gioventù.
Il problema demografico era già gravissimo alla fine della seconda guerra punica, a causa delle enormi perdite dei giovani romani sui vari fronti di guerra: si calcola infatti che circa la metà degli uomini cadde in queste lunghe campagne militari.
Basti pensare che nella sola battaglia di Canne perì un quarto della gioventù dell'Italia centrale.
La battaglia di Aurasio, contro Cimbri e Teutoni, distrusse i 2/3 della nobiltà e dei cavalieri: i primi, come era consuetudine, chiamati alle armi e a pagare col sangue il loro debito verso la Repubblica.
Le guerre civili, anche queste spietate, fecero il resto.
Il processo di decadenza demografica divenne allora un fatto irreversibile.
Quando poi i confini dell'Impero si allargarono sui tre continenti, il ritorno per il legionario divenne sempre più problematico.
Non era ormai più pensabile che un soldato di stanza ai confini della Scozia, o fra le montagne del Caucaso, potesse tornare a Roma per la famiglia. Era un viaggio che avrebbe richiesto due anni di tempo.

Questa ragione geografica, oltre alle continue perdite su tutti i fronti di guerra, portò ad un vero collasso l'etnia romana, al volgere dell'era volgare.

Il problema fu compreso in tutta la sua drammaticità da Augusto, ma nonostante i provvedimenti presi dal grande imperatore il processo di diminuzione della popolazione romana era ormai divenuto irreversibile.
Perdite di guerra, insediamenti coloniali, mancanza di procreazione, causata dalla divisione delle famiglie, sono le tre cause principali che portarono progressivamente alla fine della razza romana.
Per cui, a parte alcuni ceppi originari, etnicamente depauperati, rimasti ancora insediati, specie sulle montagne dell'Italia centrale, (le pianure erano da tempo divenute latifondi lavorati da schiavi o da semi liberi che continuarono a resistere nel Medioevo), la stirpe romana può, come tale, ritenersi quasi distrutta alla fine del II secolo dopo Cristo.

Roma sopravvisse soprattutto per una continuità storica, culturale ed anche territoriale che prese corpo prima nella trasformazione dell'Impero, da pagano a cristiano, ed in seguito con la «surroga» dei poteri dell'Impero in vaste aree d'Italia da parte dei Pontefici romani.

E' stato il cattolicesimo e la struttura anche giuridica della Chiesa ad ereditare ampiamente il patrimonio di Roma.

E' stato detto che la Chiesa cattolica è il proseguimento dell'Impero romano in forma teologica, e il Papa un imperatore romano tornato più o meno al rango dell'antico «Rex Sacrorum».
Ma pur sottolineando i legami innegabili fra la romanità del tardo impero e la nuova istituzione cattolica, cultura e nazione romana da un lato, cristianesimo e nazione giudaica dall'altro, furono dei fattori opposti e si combatterono fermamente.
La continuità diretta fra Roma ed il cristianesimo esprime il senso della continuità morale e religiosa della civiltà europea tra Roma, Medioevo ed età moderna con aspetti puramente formali e rituali del tardo Impero ripresi dalla Chiesa (paramenti, liturgie e gerarchie cattoliche di vario genere).

Roma chiuse comunque la sua vicenda storica senza lasciare singoli eredi diretti, ma un patrimonio civile e morale comune a tutti i popoli dell'Occidente europeo ed anche dell'Oriente.

Il confronto con quella grande stirpe eroica e terribile insieme, ha tuttavia ossessionato gli italiani per secoli.
Gli italiani si sentirono un poco come certi nobili decaduti, discesi anche per una limitata ascendenza dai rami collaterali di qualche grande famiglia.
Una cosa però è certa: la grandezza di Roma li ha immunizzati da una sorta di nazionalismo moderno e dalle frustrazioni che ne sono spesso la causa.
Gli italiani non concepiscono nella maniera di altri popoli europei sentimenti di superiorità o inferiorità verso le altre nazioni.
II nome di Roma, di cui in qualche modo a torto o a ragione si sentono eredi, è talmente grande e universale, da non consentire il nascere di un limitato nazionalismo.
E' necessario provocare il sentimento nazionale degli italiani, per avere delle reazioni.
Ma è un sentimento discontinuo e contingente.
Quale famiglia di autentica nobiltà, del resto, per quanto impoverita e abbattuta, le cui origini si perdono nella notte dei secoli, può sentirsi veramente offesa dagli sberleffi di un plebeo maleducato o da un millantatore?
Questa è stata la grande forza dell'Italia anche nei momenti oscuri della sua storia. L'italiano fin da quando nasce respira questo senso di composta sicurezza che confina nell'indifferenza, ed anche nella eccessiva confidenza nei confronti di un patrimonio civile e culturale, che dovrebbe, per certo, comprendere meglio, e amministrare con più cura.


Fonte: da srs di Paolo Possenti da «Le radici degli italiani»  volume I:  «Il millennio Romano»;   capitolo VII;  editore Effedieffe, edizioni, 2001.

(VR 26 aprile 2010)




domenica 25 aprile 2010

Ecco perché il 25 aprile nelle Venetie è solo la festa di San Marco Evangelista

 Leone di San Marco inserito nell'argine dell'Adige a Verona

La “resistenza” contro il nazifascismo ci fu, ma non nelle Venetie

Al nord del Po e specialmente nelle Venetie la storia della resistenza fu totalmente diversa da quella del sud, anzi, è un falso storico parlare di resistenza.

Nel 1944  Palmiro Togliatti (comunista), al tempo ministro della giustizia italiana, FINANZIAVA TITO per l’annessione  di Istria e Dalmatia, e  CI SONO LE RICEVUTE.

Questo era conforme al progetto già stabilito dal Congresso comunista del 1933, di sottomettere la Venezia Giulia ( Istria e Dalmatia) e il Veneto alla dittatura comunista e a Tito, naturalmente mascherando la faccenda con il “diritto di autodeterminazione” di quelle terre.

Come dimostrato dallo storico Marco Pirina, Togliatti e Tito pranzavano assieme in via Veneto a Roma, insieme ad altri che oggi vengono definiti “Padri della Patria” , e Tito riceveva l’equivalente di diversi milioni di Euro odierni al mese per realizzare il progetto.

Quando nel 1945 Tito arrivò a Trieste, Togliatti ordinò ai Partigiani di mettersi al suo servizio, e così fu, ma  furono mandati a spasso per la Slovenia fintanto che i Titini facevano l’epurazione di migliaia di persone gettate nelle foibe intorno a Trieste.

Il progetto fu quello di annettere tutte le Venetie fino al Garda con la motivazione che quei territori erano “legittimamente Sloveni” ed si disse che i veneti erano sloveni e dovevano avere una repubblica comunista confederata.

Per stabilire il confine orientale della nuova repubblica Italiana il governo italiano dette DELEGA IN BIANCO al Comandante della Brigata partigiana Garibaldi, certo Toffanin detto “Vanni”, morto solo nel 2007, noto  comunista che come tutta la sua Brigata  voleva realizzare non già la liberazione ma la dittatura comunista tanto da aver ucciso i comunisti moderati.

Insomma, il governo Italiano tentò, con la collaborazione attiva dei Comunisti Jugoslavi, non di liberare le Venetie, ma di SOTTOPORLA ALLA DITTATURA COMUNISTA DI TITO, cioè ad un altro Totalitarismo ed ad un altro stato.
Tutto questo è  DIMOSTRATO dai documenti usciti dagli archivi dei paese dell’est e a RITROVATI ANCHE A ROMA.

Il progetto in questi termini fallì perché gli americani (che si dice arrivarono a Trieste  prima di Tito) a cui il governo del 8 settembre voltò le spalle, arretrarono al di là del Po e cominciarono una massiccia opera di bombardamento aereo squarciando Padova, Treviso e altre città, radendo al suolo Latisana ecc, proprio per impedire questo progetto.

Perfino la ritirata (in rotta) dei tedeschi non racconta una storia di liberazione, perché ci furono solo alcuni episodi di ritorsione NaziFascista provocata dagli sporadici attentati dei partigiani che non avevano nemmeno una utilità militare (i tedeschi erano in rotta ) ma ebbero purtroppo gravi conseguenze sulle popolazioni
Tutto questo è  DIMOSTRATO dai documenti raccolti da vari storici della resistenza nel veneto e negli ex Paesi dell’Est..

Resa impossibile la creazione della Repubblica Socialista del Nord Italia, comunque il Governo Italiano operò per l’annessione e riuscì a non far votare al Referendum monarchia/repubblica  del 1946 gli Istriani, i Dalmati, gli italiani delle Isole, e ci riuscì, ma impedendo il voto anche a Udine, Pordenone, Belluno, Bolzano e centinaia di migliaia di altri cittadini avente diritto. Quindi si può dire che in maggioranza IL POPOLO VENETO non ha nemmeno votato per il referendum, rendendolo nullo.

Nella notte dello spoglio dei voti dopo un lungo silenzio nell’afflusso dei dati d’  improvviso comparvero 2 milioni di voti per la  repubblica, e tutta via lo scarto con la quale la repubblica “vinse” non è sufficiente a cancellare il fatto che a quasi 3 milioni di persone  (quasi tutti veneti) a cui  fu  IMPEDITO DI VOTARE, nullificando il risultato

Non stupisce dunque che Napolitano, Fini e Berlusconi quest’anno ribadiscano all’unisono la favola della resistenza, perché la realtà è ben diversa e massacra e sbugiarda la storia della resistenza.

Per quanto riguarda le Venetie, si può parlare non di resistenza ma solo di un colpo di Stato fallito, operato dai comunisti con la complicità di repubblicani, liberali e cattolici popolari come De Gasperi e del Governo Italiano.

Ma sono il primo a dire che la resistenza ci fu nel centro italia, ed è una storia  italiana, ma non può essere un valore condiviso della storia veneta.
Anche in questo aspetto la storia delle Venetie è ben diversa dal resto d’Italia e non ha nulla a che spartire.

E d’altra parte, poiché nel 1866 i risultati del plebiscito per l’unità all’italia furono pubblicati sulla gazzetta ufficiale ben 3 giorni prima dello svolgimento dello stesso. Che cosa volete che faccia un occupante abusivo di una terra sovrana se non cercare di coprire le conseguenze di quel colpo di Stato con una storia inventata, che così si cancella anche un secondo fallito colpo di Stato  e la millenaria storia del popolo originario?

Per i veneti da 15 secoli il 25 aprile è San Marco,  e sarà sempre di più così anche se coperta dallo Stato e dalla  Regione Veneto che si impegnano a cancellarla  e a sostituirla con una ricorrenza fasulla come quella della resistenza.

Il 25 aprile non è e non sarà mai una data condivisa, perché è un falso.


Fonte: L'Opinione di Loris Palmerini




giovedì 22 aprile 2010

LA LINGUA EGIZIANA


Pietra di Roseta esposta al British Museum


LA NASCITA

L’invenzione della scrittura egiziana, è avvenuta intorno al 3200 a.C. fu uno degli eventi più importanti nella storia dell’antico Egitto.
La lingua egiziana ha avuto, nel corso del tempo, tre modi differenti di scrittura:  geroglifica, ieratica, demotica. A questi tre modi di scrivere si deve aggiungere quello utilizzato per esprimere la lingua copta, che era la lingua egiziana al tempo del cristianesimo.

GEROGLIFICA


E' la scrittura egiziana per eccellenza, quella che tutti conosciamo. Il suo nome è derivato dal greco e significa “sacri segni incisi”.
I primi geroglifici risalgono all'era predinastica, mentre gli ultimi sono stati tracciati a File nel 394 d.C. in piena epoca cristiana.
Probabilmente all'inizio si trattava di una forma di scrittura ideografica.
I segni e i disegni erano comunque poco adatti per indicare cose o concetti astratti: come verità, libertà, inganno, fede, vita, grandezza, infedeltà, pensiero, in genere molti concetti erano difficili da esprimere.
Per rimediare a ciò, nel corso di parecchi secoli, gli egiziani modificarono la loro scrittura  dando anche ad ogni figura il valore di un suono, come noi ne diamo uno alle lettere dell'alfabeto.
Questo tipo di scrittura era usata soprattutto per uso ufficiale e monumentale e quindi la troviamo diffusamente su templi e tombe.

 IERATICA


Accanto alla scrittura geroglifica ne esisteva un’altra, chiamata dai greci ieratica (= sacra); questa però aveva nulla di sacro.
Questo tipo di scrittura è stato introdotto per semplificare il modo di scrivere dei geroglifici. Si può considerare lo ieratico il corsivo della scrittura geroglifica.  Non differisce dalla scrittura classica se non per il fatto che viene sacrificato l'aspetto pittografico alla velocità di scrittura. Ad ogni segno geroglifico corrisponde un segno ieratico e viceversa ed è quindi facile passare da un testo all'altro.
Lo ieratico, essendo più sbrigativo, era quindi usato in tutti i testi, per tutto ciò che non doveva esser inciso su pietra, né avere carattere ufficiale mentre la scrittura geroglifica era usata, come detto, per scopi epigrafici e monumentali.
Lo ieratico, infine, era il tipo di scrittura che si imparava per prima nelle scuole degli scribi: i caratteri geroglifici veniva insegnati solo dopo che gli alunni si erano impadroniti dello ieratico.

 DEMOTICA


Questo tipo di scrittura, che significa “popolare”, fu introdotto da Psammetico I (26esima dinastia, VII seccolo a.C. ) per semplificare ulteriormente la scrittura ieratica: si tratta del corsivo del corsivo e fu  in uso fino alla fine dell’impero romano
A differenza dello ieratico, però, non ha un rapporto uno ad uno con i geroglifici: i singoli segni demotici corrispondono a più geroglifici legati insieme per essere scritti con un solo tratto di penna.
Era la lingua tardo-egizia adottata dai cristiani abitanti in Egitto che non amavano usare il greco perché da essi considerata "lingua dei pagani". In scrittura demotica si conservano moltissime traduzioni di testi sacri.

COPTA



Questo tipo di scrittura fu introdotta probabilmente tra il II e il III secolo dopo Cristo per potere scrivere in egiziano le Sacre Scritture dopo la diffusione in Egitto del Cristianesimo. Essa è basata sull'alfabeto greco con l'aggiunta di sette segni speciali derivati dal demotico, necessari per rendere i suoni dell'antico egiziano. Particolare importante la scrittura copta comprende anche le vocali che invece erano assenti nella lingua geroglifica. Tale lingua e scrittura è stata utilizzata fino a qualche decennio fa nelle cerimonie religiose della Chiesa Monofisista etiopica.
Il termine Copto deriva dalla corruzione del nome “Egitto” che deriva a sua volta dalle parole egiziane “HT KA PTAH” (tempio dello spirito di Ptah), uno dei nomi della città di Menfi. Gli antichi egizi chiamavano invece la loro Terra con vari nomi tra cui il più comune era “KHMT” (Terra nera).


mercoledì 21 aprile 2010

Bardolino - Chiesa di San Pietro: Un longobardo con le sue armi nella necropoli sotto la Rocca

La sepoltura con all’interno i resti dell’uomo longobardo

Oggi la presentazione della scoperta avvenuta durante i lavori per il restauro della chiesa di San Pietro. Otto le sepolture già individuate oltre a una serie di reperti di notevole interesse: finora li hanno visti solo gli studenti

I resti di una necropoli romana sono stati rinvenuti nei pressi della chiesa di San Pietro, ai piedi della Rocca, sulla strada che conduce a Garda.
L'inattesa scoperta è avvenuta, casualmente, durante i lavori di restauro della chiesetta, che è documentata a partire dal 1281. Nel liberare dalla terra la base esterna della parete dall'edificio, con l'intento di costruire un cunicolo areato per salvaguardare lo stabile, ci si è imbattuti infatti in una serie di tombe risalenti al periodo tardo romano.
Immediatamente l'architetto Massimiliano Valdinoci, responsabile con gli architetti Michele Ruffino e Laura Musso di Torino del progetto di recupero dell'antico oratorio, ha avvisato la Soprintendenza Archeologica del Veneto.

Un archeologo durante i lavori di scavo e catalogazione dei reperti della necropoli


Lo scavo archeologico, che è stato condotto sotto la direzione della dottoressa Brunella Bruno, ha cosi messo in luce una lunga sequenza di azioni e interventi, succedutisi sull'area prima dell'edificazione della chiesa di San Pietro.
Sono stati rinvenuti i resti e le strutture di un edificio risalente all'età romana sulla cui area, in seguito forse al suo abbandono, si sviluppò nell'altomedievo un'area funeraria.
Non è chiara l'estensione del complesso insediativo, né tanto meno della superficie cimiteriale; ma è proprio sopra alcune di queste sepolture che la chiesa si sviluppò nel corso dei secoli, sovrapponendosi quindi ai resti di aree funerarie romane e altomedievali, ma anche di una piccola strada.
Tra le sepolture ritrovate si distingue quella d'età longobarda di un uomo armato con scramasax (un lungo pugnale usato dai longobardi), inumato insieme a tutto il suo corredo. Il tutto è stato nelle settimane scorse catalogato e trasportato in un luogo sicuro. Ma prima di chiudere gli scavi, grazie all'interessamento dell'architetto Valdinoci e alla forte spinta dell'amministrazione comunale, la Soprintendenza del Veneto ha permesso, in via del tutto straordinaria, agli studenti della scuola secondaria di primo grado di Bardolino di poter visitare la necropoli.

Studenti delle scuole medie durante la visita nell’area dello scavo 

Accompagnati dall'assessore alla cultura Marta Ferrari e dai rispettivi insegnanti le tre classi di studenti hanno potuto dunque ammirare, alla base del campanile di San Pietro, alcune tombe risalenti al IV e VI secolo, perfettamente conservate, e delle colombare, cioè delle nicchie dove venivano deposti monili o materiale a corredo funebre.
A dire il vero all'epoca della costruzione della chiesa di San Pietro queste tombe erano state già in parte individuate e in qualche misura profanate. Alcune però non furono mai scoperte e sono giunte ai giorni nostri perfettamente integre.
Tra gli oggetti rinvenuti anche un anello in ambra proveniente dal Mar Baltico con raffigurante un uomo e una donna che si guardano. In pratica un anello nuziale di qualche facoltoso uomo o donna dell'epoca.
È probabile che davanti a questa necropoli, otto le tombe rinvenute ma molte altre potrebbero essere conservate nel terreno che si estende all'interno del campeggio La Rocca, sorgesse anche una villa romana. D'altronde resti importanti d'insediamenti risalenti al periodo romano sono state rintracciate anche su Borgo Garibaldi, dietro l'ex chiesa della Disciplina dove sono in corso i lavori per la costruzione di una sessantina d'autorimesse interrate.
Nel tentativo di coinvolgere la popolazione e renderla edotta dell'importante ritrovamento avvenuto, a fianco della chiesa di San Pietro, l'amministrazione comunale ha programmato un incontro per questo pomeriggio con inizio alle 18,30 nell'ex chiesa della Disciplina.
Saranno presenti tra gli altri anche Federica Grazi della soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, Fabio Saggioro dell'università di Verona e di Silvia Lusuardi Siena dell'università cattolica di Milano. Insieme per fare il punto su una scoperta di assoluto rilievo.

Fonte: srs di Stefano Joppi,  da L’Arena di Verona di Martedì 20 Aprile 2010: PROVINCIA, pagina 28.  FOTOSERVIZIO AMATO

martedì 20 aprile 2010

Sono nata per amore, sono vissuta per amare e morirò per amore


Ho capito che è l'amore quella forza superiore che alcuni chiamano dio...
Io sono nata per amore, sono vissuta per amore e morirò per amore, solo che non avrei voluto morire così giovane, ma forse è meglio così...
Dicono che il tempo cancella ogni ricordo, ma niente cancellerà il tuo volto dal mio cuore, le tue labbra che non sono mai riuscito a sfiorare, perchè non ho mai avuto il coraggio di farlo...
Voglio che gli ultimi pensieri siano per quella  persona che ho amato, e che amerò per sempre... sarò tua per sempre, quando riderai e quando piangerai, e vorrò stringerti al petto in un dolcissimo abbraccio, ma non potrò farlo... addio per sempre...
Rosabianca   1980

Verona 16 aprile 1909 moriva suicida Riccardo Lotze il mentore dei fotografi veronesi



Riccardo  Lotze nel ricordo di Giancarlo Beltrame da L’Arena di Verona del 14 aprile 2008

Verona 16 aprile 2008: Riccardo  Lotze    99 anni fa il suicidio. E c’è un giallo

STORIA VERONESE. Il 16 aprile l’anniversario della fine del «mentore dei fotografi veronesi», come scrisse all’epoca il cronista de L’Arena. Al quale sfuggì qualcosa

Ci sono informazioni che anche al cronista più attento alla notizia possono sfuggire. Spesso, come nel caso della Lettera rubata di Edgar Allan Poe, sono proprio lì, sotto il naso, in bella evidenza, eppure passano inosservate e non vengono colte.  Poi, a distanza di tempo, di molto tempo, una coincidenza colpisce uno studioso, uno storico o un appassionato dilettante, e allora riemergono con tutta la loro forza.


16 APRILE 1909. La storia che stiamo per raccontare succede a Verona quasi un secolo fa, 99 anni per la precisione, la sera del 16 aprile 1909.

È la storia di un suicidio, che oggi non comparirebbe nemmeno sulle pagine dei giornali, benché siano molte di più rispetto alle quattro dell'epoca del fatto, ma che allora si guadagnò un titolo su due colonne (quasi mezza pagina!) e un lunghissimo e dettagliato resoconto dell’anonimo giornalista (allora si usava così, non c’era la fregola della firma). 
Chi scrive il resoconto dimostra di conoscere bene l’autore del gesto estremo e ne traccia un profilo ricco di particolari.


IL MENTORE DEI FOTOGRAFI VERONESI.

Il suicida è un nome noto. Oggi come allora. Si tratta di Riccardo Lotze, «il mentore dei fotografi veronesi», come viene definito dall’autore dell’articolo, «che abitava in via Disciplina N.° 9 e che stamane (17 aprile 1909,  allora L’Arena usciva il pomeriggio, ndr) fu trovato cadavere avendo accanto un bicchiere con acido prussico col quale si era tolta la vita».

Segue il racconto di come «il povero Riccardo» era arrivato bambino a Verona, al seguito del padre (del quale però non viene fatto il nome, Moritz o Maurizio nella versione italianizzata),
«che prima abitava a Dresda quale pittore presso la Corte di Sassonia» e che «qui aprì uno studio fotografico in via Disciplina», dove «il figlio crebbe aiutando il padre che era una vera scienza nell’arte fotografica».

Poi ne «ereditò lo studio ed applicò alla fotografia tutte le cognizioni artistiche alle quali si era con passione dedicato», fino a diventare «un vero artista fotografo», che «ebbe momenti di vera celebrità», il cui «attelier», era «ricercatissimo specialmente dalle famiglie ricche o da chi desiderava lavori d’arte», «specialmente i monumenti e i panorami di Verona».


UNA VECCHIAIA DI SOLITUDINE.

Riccardo Lotze, dopo essere stato uno dei protagonisti della vita culturale cittadina della seconda metà dell’800, era ormai un uomo solo, stanco e provato dalla vita.
«In questi ultimi tempi», annota lo scrupoloso cronista, «era divenuto misantropo e taciturno e sfuggiva qualsiasi compagnia».
Era anche ammalato. Aveva 67 anni e l’anno precedente era stato «colpito da una grave malattia.
Un insulto apoplettico gli indeboliva le gambe e la vista», tanto da costringerlo a uscir di casa col bastone. Gli sono rimasti pochissimi amici, il celebratissimo pittore Angelo Dall’Oca Bianca e lo scultore Ugo Zannoni.
L’unica frequentazione assidua è quella «di una buona donnetta cinquantenne, certa Diletta Dal Piero, per la pulizia della casa».  E sarà proprio lei a ritrovarne il corpo privo di vita.

Da una decina d’anni «non esercitava più l’arte fotografica», ma il cronista non sa che ha già ceduto l’intero suo archivio fotografico, un vero e proprio patrimonio di lastre, alla Anderson di Roma, gli eredi di James, uno dei grandi fotografi romani dell’epoca del padre (oggi, ciò che è sopravvissuto, si trova negli archivi Alinari a Firenze).  E neanche la casa di via Disciplina è più sua.


UNA PRECISIONE TEUTONICA.

Il suicidio di Lotze non è il frutto di un impulso del momento, ma è un gesto programmato da tempo.
Molti i segnali che ce lo dicono.
La messinscena accurata. I
Il  saluto ai negozianti di mobili Bottazzini al rientro in casa la sera precedente.
Le chiavi del portone di casa, dell’alloggio e del comò lasciate in bella vista.
I biglietti manoscritti «disposti con ordine» con le ultime volontà, tra cui il testamento datato 6 giugno 1908, dieci mesi prima.

«Desidero che la mia salma sia presto condotta al cimitero col carro di ultima classe e senza alcun accompagnamento e che venga cremata», lascia scritto, pregando di «informare della mia morte» la sorella Giulia e il fratello Rodolfo a Monaco di Baviera, ai quali lascia «tutta la roba di mia proprietà».
 Prega anche di far chiudere l’alloggio al primo piano e al pianterreno e di ritirare le chiavi dalla donna di servizio.
In un altro foglio ci sono gli indirizzi della sorella Julia Lotze Schetllach e le disposizioni per il pagamento di 5 lire per la seconda quindicina del mese alla serva Diletta e di 3 lire al barbiere Giovanni Nodari.
Ma barba e baffi sono incolti. Che non avesse più un soldo? E fosse questa la causa del suicidio?


I MESSAGGI NASCOSTI.

E veniamo ai segnali nascosti che sfuggono al pur puntiglioso cronista di inizio ’900.
Sono almeno due. E collegati tra loro.
Il primo è nel biglietto d’addio, lasciato accanto agli altri.
«Sopra un biglietto da visita aveva con lapis copiativo registrata la sua morte nel modo seguente:  RICCARDO LOTZE    «m. 16 - 4 - 1909 d’anni 67»,  registra il reporter.

È quella data, scelta accuratamente, a colpire. Essa è infatti esattamente quella dell’anniversario della morte del padre Moritz, avvenuta a Monaco nel 1890.

Quel padre che l’aveva instradato nell’arte fotografica e di cui aveva sempre mantenuto il nome per lo studio di via Disciplina nell’arco ultradecennale di attività. Quel padre di cui ricorreva anche il centenario della nascita.


Il secondo è il modo scelto per uccidersi: l’acido prussico, ossia il cianuro di potassio. Vale a dire uno dei prodotti chimici fondamentali che i primi fotografi, come il padre e come egli stesso negli anni dell’apprendistato al suo fianco, usavano per il fissaggio delle prime lastre fotografiche al collodio.


Il suo, insomma, nel momento in cui la fotografia sta cambiando tecniche (l’albumina, di cui Lotze era un maestro indiscusso, cede il passo alla gelatina-bromuro) e forma (basti vedere le contemporanee sperimentazioni del giovane veronese Luigi Cavadini), suona come il mesto addio a un mondo e a una professione. In memoria e in onore del padre.

Meticolosa preparazione del gesto

Questo uno stralcio della cronaca de«L’Arena».


«Sopra un materasso disteso sul pavimento di mattoni stava sdraiato il cadavere di Riccardo Lotze. Sotto il capo aveva piegata in quattro una piccola imbottita. Giaceva compostissimo.
Era in maniche di camicia. Le gambe erano un po’ aperte, la mano sinistra teneva sotto la schiena.

Il braccio destro invece era disteso all’infuori fino a poggiare ul pavimento. Le dita della mano erano raggrinzite e le unghie erano appoggiate fortemente ai mattoni.
Vicino alla mano destra stava un bicchiere a calice contenente due dita di liquido giallognolo sulla superficie del quale si vedevano delle bollicine.
Vicino al bicchiere poi era un moccoletto di candela che poggiava direttamente sul pavimento.

La scena così viene facilmente ricostruita.
Venuta la sera, il disgraziato fotografo portò il materasso nel locale, vi si sdraiò, bevette il veleno, che deve essere stato potentissimo, come risultò poi dalla perizia medica, spense la candela ed attese la morte, che sopraggiunse quasi immediata.
 Durante gli spasimi dell’agonia, il Lotze si sbottonò il gilet come per calmare il dolore. 
Ha il capo piegato verso la finestra.  Tiene la bocca semiaperta e gli occhi aperti in direzione della finestra. Ha baffi bianchi e la barba bianca che apparisce non rasa da qualche giorno».

Un’occasione che non si deve perdere

Per i Lotze nel 2009 ricorre un centenario, anzi un bi-centenario.
Scadranno contemporaneamente, per quella che sembrava una coincidenza storica, ma che ora, come raccontiamo, non potrebbe più essere tale, il bicentenario della nascita di Moritz Eduard Lotze, avvenuta il 27 novembre 1809 a Freibergsdorf, in Sassonia, e il centenario della morte di suo figlio Richard, avvenuta a Verona il 16 aprile 1909.

Tempo fa, avevamo sollecitato il Comune a non far passare indimenticato l’anniversario, anche perché con i materiali presenti a Verona negli archivi pubblici e in collezioni private e con solo pochi prestiti mirati da grandi musei, si potrebbe realizzare nel Centro internazionale di fotografia degli Scavi Scaligeri una mostra straordinaria.

I Lotze infatti, ai quali la città non ha dedicato nemmeno un vicoletto o un giardino, sono stati i creatori dell’immagine fotografica di Verona.

Il nostro appello sembra stranamente caduto nel vuoto.
Intanto il tempo passa... G.B.

Fonte: srs di Gianfranco Beltrame da L’Arena di  lunedì 14 aprile 2008 cronaca pag. 15