8 DICEMBRE 1816 - 8 DICEMBRE 2016: LO STATO SICILIANO TRA PASSATO, PRESENTE E
FUTURO
8 DICEMBRE 200
ANNI FA LA SICILIA PERSE L’INDIPENDENZA
Oggi, 8 Dicembre, in Sicilia sta passando quasi
inosservata una ricorrenza storica che invece per noi Siciliani è
importantissima.
Esattamente 200 anni fa, l’8 dicembre 1816, un decreto del suo ultimo re, Ferdinando III
Borbone, poneva termine, almeno da un punto di vista formale, alla continuità
di uno stato siciliano indipendente che datava almeno dal 948, da quando cioè l’Emiro Hasan I si era reso di fatto
indipendente dal Califfo di Mahdìa, dando
vita ad un Emirato di Sicilia indipendente ed ereditario.
Ma non è tanto dei fatti contingenti di quell’8 dicembre che
oggi ci piace parlare. E’ tempo, piuttosto, di bilanci e di prospettive.
La Sicilia, allora, era quasi da mille anni abituata
ad avere uno stato proprio. Da quel momento, e fino ad oggi, è stata
inserita in formazioni politiche più grandi, comprendenti il Continente, e
soprattutto con la capitale, la testa, il cuore dello stato, fuori dall’Isola.
Vero è che non tutto era perduto ancora quell’8 dicembre 1816. L’ultimo atto
formale dello “Stato di Sicilia” sarebbe stato compiuto più tardi, il 4
dicembre 1860, quando il Governo della Dittatura garibaldina (formalmente,
ancora, quello di uno stato sovrano) fece il passaggio di consegne al Luogotenente
Cordero di Montezemolo, al seguito di Vittorio Emanuele II che quel giorno
stesso prendeva possesso delle nuove province “italiane” che si stavano così
dissolvendo nello Stato italiano.
Ma è pur vero che, proprio da quel momento, lo “Stato di
Sicilia”, anzi il “Regno di Sicilia”
cominciò a diventare un’entità teorica, evanescente, più rivendicata che
reale, dissolto com’era di fatto – se non pienamente di diritto – in quello
stato “effimero” che fu il Regno delle Due Sicilie.
Quell’Unione non sarebbe
durata che 44 anni, in modo piuttosto tormentato (4 rivoluzioni e
innumerevoli congiure separatiste segnarono infatti quel periodo) e non ci
interessa affatto oggi darne un giudizio storico che alimenti inutili polemiche
tra indipendentisti siciliani, neoborbonici e simili.
Il dato storico che più ci interessa – qualunque
siano state le motivazioni tattiche che potrebbero giustificare storicamente
quell’atto – è che quel decreto rappresentò un grave errore, forse pure
per la stessa Casa Borbone, giacché proprio da lì furono seminate le radici del
collasso degli stati “siciliani”, logorati da una strisciante guerra permanente
tra Napoli e Sicilia.
Un grave errore perché la Sicilia era “paese
vincitore” e non sconfitto dalle Guerre Napoleoniche e non poteva essere
trattato in questo modo, con la perdita dell’indipendenza che aveva nei secoli
conquistato e mantenuto con il sangue.
Una truffa, perché la traduzione ufficiale in
italiano del deliberato del Congresso di Vienna (“Roi de Deux Siciles” tradotto
non “Re delle Due Sicilie”, bensì “Re del Regno delle Due Sicilie”, che è molto
diverso) fu malevolmente interpretata dalla Corona non come ritorno alle due
monarchie confederate, come nel Settecento, ma alla costruzione di uno stato
unitario che in Evo Moderno non era mai esistito.
Un reale passo indietro, dal punto di vista
costituzionale, giacché in un colpo solo la Sicilia non perdeva soltanto
l’indipendenza, ma anche un ordinamento parlamentare molto avanzato (quello del
1812) nel quale tutti i cittadini maschi
non analfabeti godevano del diritto di voto, la perdita dell’autonomia
municipale, che non era del 1812 ma risaliva in molti casi al Medio Evo, con
gli amministratori dei Comuni ora nominati dalla Polizia, la chiusura di decine
di giornali e la soppressione della libertà di stampa.
Un’ipocrisia, perché quell’atto costitutivo del nuovo
Stato delle Due Sicilie, conteneva esplicitamente l’indicazione che nessuna
nuova norma tributaria si sarebbe potuta approvare per la Sicilia, senza la
convocazione del Parlamento, cosa che il Governo di Napoli invece non avrebbe
mai più fatto sino al proprio collasso dopo pochi decenni.
E infine un atto palesemente incostituzionale,
secondo l’unica Costituzione allora legittima e vigente, quella del 1812, che
il Re non aveva alcun potere di revocare, e che prevedeva espressamente che
qualora il Re di Sicilia avesse assunto un’altra corona, avrebbe lasciato un
principe di casa regnante a svolgere le funzioni di Capo dello Stato in Sicilia
(cosa che effettivamente fu, fino al 1819, quando in Sicilia “regnava” il
principe Francesco, prima della lunga sequenza dei “Luogotenenti poliziotti”).
Ma, tutto sommato, va pure detto che l’Unione fu più
politica che amministrativa. Fino al 1860, e soprattutto dopo la Rivoluzione
indipendentista del 1848, la Sicilia avrebbe mantenuto intatte quasi tutte le
proprie funzioni statali. Quell’atto, quindi, fu solo “l’anticamera” della
fusione della Sicilia con l’Italia, un punto di svolta che avrebbe
manifestato i propri effetti nefasti solo molto tempo dopo.
Quello che ci chiediamo, piuttosto, dopo 200 anni circa di
“Sicilia italiana”, è che cosa resta oggi di quella grande esperienza che fu
il “Regno di Sicilia”, se essa appartiene solo al passato, se il fuoco
brucia, sotto la cenere, se ci sono prospettive di rinascita per la Nazione
Siciliana.
La Sicilia di oggi ha un’identità confusa, le
sue città e i suoi abitanti non sanno esattamente cosa sono: italiani, ma non
troppo. L’annessione all’Italia ha fallito nel suo obiettivo più profondo: la
legittimazione, l’assimilazione dei Siciliani all’Italia. I Siciliani sono
rimasti tali, Siciliani innanzi tutto, ma questa coscienza è latente, profonda,
appartiene a quelle cose “che non si possono dire”. L’identità siciliana è
ancora “tabù” nella cultura siciliana contemporanea; deve essere “mimetizzata”
in “identità regionale”, sminuita, nascosta. Ma essa si ripropone sempre,
nonostante tutto.
La Sicilia fu uno Stato, e in certi momenti, quando
l’indipendenza di questo stato fu piena, anche un grande stato.
Lo Stato arabo forse all’inizio era indipendente solo
di fatto, restando teoricamente parte del Califfato sciita dei Fatimidi. Ma
l’indipendenza fece bene alla Sicilia. I suoi sovrani non disconobbero mai del
tutto l’autorità dei califfi, ma – da semplici principi o “emiri” che erano –
poi si fecero “Sultani” e infine “Re”, riconoscendo al Cairo solo un primato
d’onore e religioso.
Lo Stato di Sicilia cristiano fu edificato sulle ceneri di
quello arabo da Ruggero I, il Gran Conte. Ma si deve al grande Ruggero II,
l’edificazione definitiva del Regno di Sicilia, nel 1130, in uno con la
fondazione del Parlamento. A quei tempi la Sicilia era una delle grandi potenze
mondiali. E’ un fatto inoppugnabile che quando la Sicilia è stata sede di
un grande stato, anche travalicante i confini dell’Isola, ai tempi di Ruggero
II o di Federico II, come in quelli dell’ “antico” Regno di Sicilia di Dionisio
il Vecchio o di Agatocle, quelli sono stati i tempi migliori per noi. Grandi
per potenza politica, per ricchezza economica, per grandezza culturale ed
artistica. E la città sede di quello stato, Siracusa nell’Antichità, Palermo
nel Medio Evo, grande capitale, capace di dare segni della propria grandezza
alla civiltà mondiale.
Lo Stato di Sicilia non fu solo un “melting pot” governato
da un’élite straniera. Il Popolo Siciliano si amalgamò e, nel giro di poche
generazioni, divenne una vera Nazione a sé, di cui nessuno avrebbe detto
che era “provincia” di altro stato.
Fu con il Vespro che lo stato insulare prese la sua
forma definitiva, di stato insulare e costituzionale. Seppure non più al centro
di un Impero, sotto il grande Federico III la Sicilia teneva possedimenti in
Africa e in Grecia, faceva politica in Italia, e teneva a bada Napoli e Roma. E
il Popolo era con lui. Il Vespro fu la prima Rivoluzione Nazionale europea, in
cui nobiltà, corporazioni e popolo si scoprirono parte di un’unica grande
famiglia. Su questo le cronache sono unanimi.
La Sicilia di oggi dovrebbe recuperare questa fase
gloriosissima della propria storia, espunta o quasi dai programmi
scolastici. Si dovrebbero organizzare festival, commemorazioni storiche,
documentari, film, sulla nostra gloria, occultata sotto il manto di
fantomatiche “dominazioni” normanna, sveva e aragonese (dall’origine
geografica, di volta in volta, delle nostre case regnanti).
A quando una grande giornata dedicata al padre dello
Stato Ruggero II, o al padre della Patria, Federico III?
A quando statue, vie e piazze a questi uomini (ma anche
donne, si pensi alla coraggiosa Regina Bianca, ultima sovrana indipendente di
Sicilia) e non ai conquistatori che ci hanno messo le catene ai piedi?
Poi venne il tempo del Viceregno. Ma lo Stato
di Sicilia, nei secoli dell’Evo Moderno, se non fu più nell’Età dell’Oro, fu
perlomeno in quella dell’Argento. E’ proprio vero che la “dominazione spagnola”
è stata così retriva e sanguinaria? Il barocco di Sicilia, la fondazione di più
di 100 comuni, la persistenza di istituzioni, moneta, parlamento, flotta, leggi
proprie, non testimoniano forse che la Sicilia di allora aveva soltanto
delegato, in “unione personale”, la propria politica estera a piccole o grandi
formazioni politiche più ampie nelle quali era inserita? Persino le forze
armate restavano distinte. Come tutti i Paesi Mediterranei fu danneggiata dalla
scoperta delle rotte oceaniche. La lenta penetrazione del “toscano” come lingua
amministrativa, accanto al siciliano e al latino, avrebbe un po’ confuso la sua
identità linguistica, ma mai quella nazionale, saldamente e solo siciliana sino
a gran parte del XIX secolo.
Di nuovo indipendente in Epoca Napoleonica sperimentò
un ultimo boom economico, culturale e politico. Troppo breve, forse, per dare
compiuti giudizi, forse determinato dal fatto contingente del “Blocco
Continentale” che poneva la Sicilia in condizioni di fornitore monopolistico di
grano e zolfo sui mercati extraeuropei, e britannici in particolare. Ma sta di
fatto che, dopo di allora, la Sicilia ha cominciato ad essere malata.
Comincia ai primi del XIX secolo una “Questione Siciliana“,
una malattia profonda apparentemente inguaribile.
E poi, piegato l’indipendentismo in blando
“regionismo” (cioè autonomismo) dopo l’Unità d’Italia, i mali peggiorano: uno
per tutti, la Sicilia – per la prima volta nella storia – si scopre “mafiosa“.
La “mafia” diventa addirittura un marchio tipico siciliano, il vuoto di
identità lasciato dall’Italia è occupato da questa infamia permanente.
Il Regno d’Italia (1861-1943) segna il fondo della
storia siciliana, il suo punto di minimo, con l’emigrazione di massa, gli stati
d’assedio, il genocidio culturale.
Poi il Separatismo, lo Stato di Sicilia tenta di
risorgere dalle sue ceneri, e sta quasi per farcela.
Si conquista l’Autonomia, frutto del “pareggio” nella
guerra civile tra Sicilia e Italia, e per un decennio, sia pure stentatamente
l’Autonomia funziona: sono i migliori 10 anni della dominazione italiana. Come
gli anni di massima autonomia sotto il Regno delle Due Sicilie, negli anni ’30
del XIX secolo, sotto la luogotenenza del Conte di Siracusa, erano stati i
migliori: riapertura dell’Università di Messina, opere stradali, e così via.
L’equazione è confermata: più la Sicilia si allontana
dall’Italia, più è autonoma, e meglio sta. Se è indipendente,
ancor meglio.
Inutile ripercorrere le progressive violazioni
dell’Autonomia da parte dell’Italia negli ultimi 60 anni, fino alle
arroganze dell’attualità, fino alla disperazione e fame nella quale è stata
buttata la Sicilia renziana.
Ora la misura è colma. Al referendum del 4 dicembre i
Siciliani hanno cominciato a rialzare la testa.La risposta dello Stato
non si è fatta attendere: per vendetta con la finanziaria
appena approvata si è decretato il licenziamento di tutti i precari degli
enti locali, colpevoli, come tutti i Siciliani, di aver votato NO.
Ma questa è cronaca, lasciamo perdere, ne parleremo altra
volta, come dello sciagurato accordo finanziario del 20 giugno scorso, tra
Crocetta e Renzi che persino la Corte dei Conti, con linguaggio “felpato”,
invita a non considerare propriamente “una vittoria” per la Sicilia.
Quello che interessa è guardare al futuro.
200 anni di Unione con l’Italia sono stati una
tragedia nazionale, un’interminabile agonia.
Oggi dovremmo mettere le bandiere a mezz’asta
per ricordare questa tragedia, che avrebbe preparato la catastrofe del 1860.
Ma sentiamo che la “schiavitù d’Egitto” sta per terminare.
La libertà ormai è vicina.
Presto avremo di nuovo uno “Stato di Sicilia”, e sarà una
nuova “Età dell’Oro”.
Fonte: da
Siciliani Liberi del 8 dicembre 2016
Link: http://www.sicilianiliberi.org/it/223-8-dicembre-1816-8-dicembre-2016-lo-stato-siciliano-tra-passato-presente-e-futuro.html
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