sabato 4 ottobre 2014

STRAGI INVENTATAE? CERTO, PER PREPARARE QUELLE VERE


La falsa strage di Timisoara in Romania




Il set di un film dell’orrore, per colpire l’opinione pubblica e legittimare la deposizione del tiranno. Accadde in Romania nel fatidico 1989, quando a Timisoara furono rastrellati negli obitori i corpi di persone appena decedute. Vennero martoriati e feriti per simulare le torture, in realtà mai subite. Il tutto, a beneficio delle telecamere. Per Rosanna Spadini, quel precedente dimostra un passaggio d’epoca: «La società dello spettacolo diventa schiava di se stessa», e lo spettacolo «viene trasformato in strumento di disperazione e di morte». Si rompe un patto millenario con gli spettatori, fondato sulla promozione culturale della società. Resta solo la scenografia teatrale, ed è «un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide», ora anche sul palcoscenico della navigazione web, che proietta l’individuo «in un altrove extraterritoriale, slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza». 

Notizie sensazionali, immagini devastanti. Ma c’è il trucco: è tutto falso. La Spadini la chiama «arte dalla meraviglia multimediale dei visual network». Da allora, la messinscena servirà a dare legittimità mediatica a tutte le guerre contemporanee.

Per il filosofo Giorgio Agamben, la vicenda di Timisoara segna il superamento di una soglia fatale: la “seconda vita” di quei cadaveri venne allestita «per la prima volta nella storia dell’umanità».  Di fatto, «ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità». E benché la falsificazione fosse a tratti evidente, «era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media».
Il vero? Poteva essere solo una variante del falso, un “momento necessario” alla generazione finale della menzogna. «Così, verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo spettacolo».

Per Agamben, «Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo». Nei mesi successi la verità fu accertata: quello di Timisora era stato un “falso giornalistico”. Ma nel frattempo i media (e il telespettatori) erano già passati oltre, ipnotizzati da altre notizie: come il crollo dell’Urss e la Guerra del Golfo.

La guerra moderna, proposta come “sola igiene” del mondo, viene anticipata da eventi traumatici sapientemente orchestrati dal regime e funzionali agli step successivi. Stesso schema: attraverso il terrorismo mediatico, il falso giornalistico suscita l’indignazione della gente, quindi l’attacco aereo e il massacro dei civili, scrive Spadini su “Come Don Chisciotte”.

Così è avvenuto anche nel 1991 durante la prima Guerra del Golfo, sostenuta anch’essa dalle solite denunce false: un’agenzia pubblicitaria denunciava il fatto che i soldati iracheni «tagliavano le orecchie» ai kuwaitiani che resistevano, poi che gli invasori avevano fatto irruzione in un ospedale «rimuovendo 312 neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell’ospedale di Kuwait City». Menzogne utilissime: «Il linguaggio dell’immagine diventa il luogo politico per eccellenza», un luogo «oggetto 
di una manipolazione senza precedenti». Video-teatro, notizie-spettacolo: prima ancora che morte fisica, la guerra rappresenta la morte ontologica del teatro, così com’era stato inteso nei millenni. Delitto perfetto: «Il teatro muore nel momento in cui uccide la realtà».

Nel 1991, continua Rosanna Spadini, «gli psicopatici della Cia organizzarono una “psywar” (psychological warfare) per demonizzare Saddam Hussein agli occhi del suo stesso popolo e facilitare così l’attacco».
In concreto, «avrebbero dovuto diffondere in Iraq un video in cui veniva mostrato il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo, naturalmente ripreso da una telecamera nascosta, come se si trattasse di una registrazione clandestina». Il video venne effettivamente girato, «con un sosia di Saddam e alcuni agenti della Cia camuffati da arabi». Poi però il progetto venne bloccato, di fronte ad altre strategie di “false flag”.
Fu mobilitata anche la radio: “Voice of America” «tentò di minare il morale dei soldati iracheni dando notizia di un avvelenamento dell’acqua dei pozzi del deserto».
Via libera, dai network mainstream, alle notizie false: 250.000 soldati iracheni in Kuwait con 1.500 carri armati, che però i satelliti sovietici non videro mai, mentre il fantomatico “governo kuwaitiano in esilio” si affidava al marketing della “Hill & Knowlton”, che cominciò a demonizzare Saddam accostandolo a Hitler.
Culmine del falso: la testimonianza (inventata) di una ragazza kuwaitiana, pronta a giurare che i malvagi soldati iracheni «staccavano la corrente elettrica alle incubatrici degli ospedali di Kuwait City, per far morire i neonati». La ragazza? «Era in realtà la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano all’Onu e aveva recitato un copione preparato dalla “Hill & Knowlton”».

In questo senso, osserva Spadini, «quella del Golfo è stata la prima guerra televisiva, perché ha sfruttato pienamente le possibilità del mezzo televisivo di essere sul campo, confezionare e vendere la  guerra».  In Vietnam, invece, «politici e militari non avevano capito come il nuovo media avrebbe potuto controllare il messaggio e distruggere un nemico appartenente al terzo mondo, e perciò senza voce».
Da allora, «la leadership politica sembra avere appreso la lezione». Lo show, prima di tutto: «L’atto finale della Guerra del Golfo trasmesso dalla televisione è la calata dei soldati americani da un elicottero per riconquistare l’ambasciata di Kuwait City». Peccato che la capitale fosse già libera da due giorni.

I giornalisti? Niente paura, tutti “embedded”. Erano stati obbligati ad accreditarsi al Jib, “Joint Information Bureau”, impegnadosi a «rispettare determinate condizioni, pena il ritiro dell’accredito». Esempio: proibito andare al fronte senza una scorta militare, vietato fotografare o filmare morti e feriti, impossibile dare informazioni su  armamenti, equipaggiamento, spostamenti e consistenza numerica delle unità, alleate e nemiche. Vietato descrivere nei  particolari le operazioni, nominare le basi di partenza delle missioni, intervistare i militari senza il preventivo permesso ufficiale.

«Questo controllo quasi totale della censura militare è amplificato dalla nuova natura della guerra, guerra aerea, condotta con aerei e droni, che esclude la presenza fisica del giornalista», continua Rosanna Spadini. La Guerra del Golfo è stata quindi completamente oscurata.
E il flusso del mainstream, per 24 ore su 24, è stato riempito con informazioni depistanti, analisi, commenti e immagini della guerra aerea, computerizzate o riprese da cineoperatori militari.
Riuscirono anche a inquadrare un cormorano invischiato nel petrolio: poi, gli ornitologi dimostrarono che in quel periodo dell’anno non ci sono cormorani in Iraq.

Da allora fino ai giorni nostri, la produzione di “false flag” è diventata seriale, in uno scenario da vigilia della Terza Guerra Mondiale.
«Prima il “reality show” avvenuto a Kiev nel febbraio 2014 di cui si attribuiva la responsabilità ad un “sano desiderio di rivoluzione europeista”, poi il Boeing Mh17 abbattuto si diceva dai separatisti, poi l’invasione delle truppe russe in territorio ucraino, invasione mai avvenuta».
Peggio: un “avvoltoio in carriera” come il senatore John McCain ha avuto il coraggio di dire, a Cernobbio, che l’Ucraina ha accettato la tregua coi separatisti solo perché Obama non se l’è sentita di opporsi all’invasione di Mosca.

Non una parola, ovviamente, sulle milizie neonaziste allevate dagli Usa come manovalanza del golpe di Kiev, né sulle basi missilistiche che stanno assediando la Russia, per non parlare delle sanzioni commerciali contro Mosca, un autentico suicidio per l’export europeo alla vigilia di un inverno senza più gas.

L’unica novità riguarda proprio Putin, che si stra attrezzando per «fronteggiare l’egemonia mediatica del mondo occidentale», cioè il monopolio anglosassone.
Per questo, il capo del Cremlino «sta investendo somme incredibili di denaro nei media russi», come “Rt”, già “Russia Today”, e la news-agency “Ruptly”.
Lanciata nel 2005, “Rt” è attualmente disponibile in inglese, spagnolo e arabo, e fa concorrenza a colossi come “Cnn” e “Bbc”, nonostante gli ostacoli eretti dal governo Usa contro la diffusione del canale russo sul territorio nordamericano. «Siamo nel bel mezzo di una guerra di propaganda mediatica spietata: “Rt” è diventata uno strumento assolutamente necessario per la Russia, ai fini di gestione della politica estera, e il Cremlino sta sfidando gli Usa con una guerra di propaganda di  altissima qualità, che continuamente smentisce il flusso di notizie yankee a senso unico».

I dati di ascolto danno ragione a “Rt”, proposta anche in italiano dalla web-tv “Pandora.Tv” diretta da Giulietto Chiesa: a nove anni dal suo lancio, la televisione di Mosca ha superato persino la “Cnn”, quanto a visualizzazioni su “YouTube”.  
Con quasi 1,2 miliardi di “vedute”, la “Bbc” è l’unico mezzo di comunicazione prima di “Rt”, che in Gran Bretagna ha più spettatori rispetto al livello europeo di notizie “Euronews” e in alcune grandi città degli Stati Uniti è il canale straniero più seguito.
Secondo Peter Pomerantsev, produttore televisivo e saggista, Putin sta reinventando la guerra del XXI secolo, e la propaganda viene utilizzata come arma principale, nella “guerra non lineare” che si va sviluppando a livello mondiale, tra milizie e superpotenze, in uno scontro sempre più irregolare e asimmetrico nel quale si cimenta ormai perfino l’Isis, i cui video terrificanti – la decapitazione di giornalisti occidentali – dimostra «grande competenza tecnologica», ben maggiore di quella di Al-Qaeda.

Nel suo sapiente utilizzo di mezzi di comunicazione diversi, l’Isis ha utilizzato anche servizi come “JustPaste” per pubblicare riassunti di battaglia, “SoundCloud” per rilasciare report audio, “Instagram” per condividere immagini e “WhatsApp” per diffondere grafiche e video.
Significativa anche la pubblicazione di un flusso costante di storie dell’orrore su “Facebook” e “Twitter”, utilizzando l’hashtag #ThinkAgainTurnAway.
«L’insurrezione ribelle ha attentamente costruito una narrazione che giustifica la propria lotta contro le divisioni nazionali dei confini mediorientali tracciate dalle potenze occidentali», conclude Rosanna Spadini.
«Dunque, nella “War of the Worlds” del terzo millennio, è stata realizzata sotto i nostri occhi la perfetta “eutanasia del reale”». Secondo quanto diceva  Jean Baudrillard, «l’immagine fantasmagorica e multimediale, riprodotta milioni di volte, su milioni di teleschermi accesi 24 ore su 24, ha ucciso la realtà globalizzata, compiendo così “Il delitto perfetto”».



Fonte: visto su LIBRE  del  1 ottobre 2014



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