Concludendo la riunione con gli aderenti alla Sesta in Orizaba, Veracruz, il subcomandante Marcos ha raccontato ai contadini nahuas ed alla società civile della regione una storia del vecchio Antonio, sull’origine di certe parole, e sul loro valore nell’esistenza collettiva.
“Ci raccontava uno dei nostri compagni capi, il Vecchio Antonio, la storia di alcune parole che forse siamo venuti ad imparare qui nell’altra campagna con tutta la gente che ascoltiamo. Ci raccontava come era nata la parola io. Diceva che i primi uomini e le prime donne che popolarono queste terre erano come la maggioranza di quelli che stanno qui ora: indigeni. Diceva che al principio il lavoro che facevano questi uomini e queste donne era diviso in modo uguale fra tutti e che dopo, quando arrivò il potente, il ricco, iniziò ad appropriarsi del lavoro di tutti.
Così iniziò una storia di dolore e di lotta a percorrere la terra, la terra che siamo e che oggi chiamiamo Messico. E fu allora che uno iniziò a parlare ed a dire io quando iniziò a nominare il suo dolore, la sua rabbia, la sua indignazione.
E quando iniziò a dire ‘io soffro, io peno, io ho questi problemi’, è quando imparò a riconoscere se stesso come essere umano. Prima dell’io non c’era niente. E prima dell’io che nacque allora, non c’era sfruttamento né miseria. Quando uno dice ‘io’ dice un individuo, non dice un collettivo.
Allora, dice il vecchio Antonio, quando diciamo ‘io’ nominiamo questa storia.
A partire da ciò iniziammo ad apprendere le altre parole. Apprendemmo a riconoscere dallo sguardo e dall’ascolto l’altro che è diverso e lo nominammo ‘lui’, ‘lei’. Però continuammo ad essere solo nient’altro che noi, come individui, soli separati dal resto.
E così è, fino a quando non apriamo non lo sguardo, non la parola, ma il cuore che allora iniziamo a riconoscere nel ‘lui’ e in ‘lei’, questi stessi dolori e queste stesse pene.
E dice il vecchio Antonio che quando il ‘io’ incontra il ‘lui’ o la ‘lei’ e scopre che si tratta dello stesso dolore, inizia a costruire una parola che è la più difficile da costruire nella storia dell’umanità: la parola ‘noi’.
Quando il ‘io’ ed il ‘lui’ e la ‘lei’ si convertono in ‘noi’, è allora che nasce l’opportunità che il dolore e la pena che ha fatto nominare quel ‘io’, che ha fatto nominare il ‘lui’ o la ‘lei’, hanno la possibilità di trasformare il ‘io’ in allegria.
Ed arriva un momento in cui i dolori si uniscono ed iniziano a domandarsi chi è il responsabile di questo dolore e di questa pena che era iniziata come individuale, che era diventata di una famiglia, poi di un gruppo di lavoro. Ed è così che parlando ed ascoltando si scopre che il responsabile di tutto ciò è colui che sta in alto ed è allora che nasce la parola ‘loro’.
Dice il vecchio Antonio che quando uno dice ‘loro’ guarda verso l’alto, verso colui che costruisce la sua ricchezza alle spalle della nostra povertà, verso colui che costruisce la sua felicità alle spalle della nostra infelicità, verso colui che costruisce il suo futuro alle spalle del nostro presente e del nostro passato.
Ed allora il vecchio Antonio dice che quando tutto va a posto, andrà a posto anche il modo di parlare di quelli che stanno parlando.
Ci insegnò che dovevamo lasciare da parte il ‘io’ in un qualche momento ed imparare ad identificare il ‘lui’ e la ‘lei’ con i quali andavamo a costruire il ‘noi’ di cui aveva bisogno il nostro paese.
Diceva che dovevamo appartarci dallo specchio, per quanto doloroso fosse, e dovevamo imparare a guardare l’altro, nell’unico modo che abbiamo imparato noi come popoli indios, a guardare l’altro com’è con il cuore.
Allora il vecchio Antonio ci disse ancora che doveva arrivare il momento in cui i popoli indios dovevano conoscersi fra di loro e in cui dovevano imparare a dire ‘noi’, però sarebbe continuato ad esistere il ‘loro’ di coloro che ci stavano sfruttando ed umiliando e che era necessario, come popoli indios, che imparassimo ad ascoltare altri cuori ed a incontrarci con loro.
In un modo o nell’altro la parola dall’alto ci individualizza e ci dissolve nel ‘io’, vuoto, con lo stesso dolore, in cambio di una vaga speranza che non diventerà realtà. E se ci ribelliamo soli, soli perderemo e soli spariremo.
Dobbiamo imparare a dire quel ‘noi’ che ci costa così tanto lavoro, perché ci costa lavoro capire che l’altro è diverso, ci costa lavoro ascoltare il dolore e trovare lì la similitudine.
Nell’altra campagna si tratta proprio di costruire insieme questo ‘noi’. Unicamente così il nostro paese ha un futuro. Se lasciamo che ‘loro’, quelli che stanno in alto, continuino a fare quello che stanno facendo, continuerà la persecuzione della diversità, il disprezzo per le donne, l’umiliazione per i giovani, il razzismo per i popoli indios.
Qui, ciò che sta succedendo è che colui che produce, colui che lavora, è un delinquente. Dodici anni dopo che i governi ci hanno detto che eravamo noi, gli zapatisti, i trasgressori della legge, dopo dodici anni scopriamo che siamo in milioni i trasgressori della legge… della legge dell’alto che è quella che ci fa delinquenti. ‘Noi’, compagni e compagne, siamo gli altri, le altre, siamo l’altra campagna”.
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