Sembra che inizi a farsi strada e, addirittura, a prevalere
un sentimento auto-consolatorio, speculare alle rivendicazioni leghiste, che
asseconda e rafforza l’idea che i colpevoli sono gli altri, che sono altrove,
che sono al Nord
Battista Sangineto
Quotidiano del Sud. A PROPOSITO
della discussione innescatasi a seguito dell’apertura del Museo della Ferriera
di Mongiana, in provincia di Vibo Valentia, avvenuta sabato 24 settembre della
quale questo giornale ha, opportunamente, dato notizia. Mi sembra utile
tornare su questo argomento per precisare alcune cose riguardo al divario
sociale, economico e politico fra il Sud ed il Nord al momento dell’Unità
d’Italia.
Mi pare utile, anche, ricordare che non solo non vi è
traccia dello sciocchezzaio anti-unitario e filo-borbonico negli scritti di
studiosi seri quali V. Castronovo, G. Candeloro, R. Villari, P. Ginsborg,
A. Placanica, R. Romeo, P. Bevilacqua e A. Capone, ma non se ne trova, traccia,
neanche nei più recenti scritti accademici di A. Lepore, D. Malanima, A.
Brunetti, E. Felice e G. Vecchi.
Volendo riassumere, e necessariamente un po’ semplificare,
le tesi di questi ultimi studiosi, si può affermare che la somma degli
squilibri socio-economici esistenti tra il Nord e il Sud, al momento
dell’Unificazione, è stata stimata in una differenza del 20- 25% circa nel
reddito pro-capite a favore del Nord.
Un divario, da un punto di vista economico e sociale,
consistente: il 90% circa degli abitanti del Sud era analfabeta contro una
media del 70%; alla vigilia dell’Unità, nel 1859, la rete ferroviaria
piemontese si estendeva per 819 chilometri, quella del Lombardo-Veneto per 522,
quella della Toscana per 101, quella dello Stato Pontificio per 257 e quella
del Regno delle Due Sicilie per appena 99 chilometri (irrilevante il tratto
ferrato Napoli-Portici, praticamente un giocattolo privato del re).
Nel 1863, i chilometri di strada per mille abitanti erano
4,7 in Piemonte, 6,5 in Lombardia e appena 1,7 nel Mezzogiorno; nel
settore della seta ben il 95 per cento era realizzato nel Centro-Nord. (A.
Lepore, “La questione meridionale prima dell’intervento straordinario”, prefazione
di R. Villari, Manduria, 1991; D. Malanima, “Alle origini del divario”, in
Svimez, “Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia”, in “Quaderni
Svimez”, N. S., Roma, 2012).
Un più profondo divario economico si presentò,
comunque, a partire dall’industrializzazione del paese che viene collocata,
dagli studiosi sopracitati, negli anni Ottanta dell’Ottocento.
Questo processo si avviò nel Triangolo industriale dove le
differenze sopracitate – la larga presenza dell’industria serica, un
migliore e più nutrito sistema ferroviario e viario, una più elevata
alfabetizzazione – costituivano condizioni favorevoli nel processo
di modernizzazione e contribuirono al più rapido decollo industriale del Nord.
Tra il 1881 e il 1913 la produzione industriale italiana crebbe a tassi
sostenuti.
La crescita industriale modificò non solo la struttura, ma
anche la geografia economica dell’Italia.
Il primato del Nord-Ovest divenne netto: nel 1911, ben il 55
per cento del valore aggiunto industriale proveniva dal Triangolo
industriale, solo il 16 per cento dal Sud (A. Lepore, “Il divario
nord-sud dalle origini ad oggi. Evoluzione storica e profili economici”,
in “Rivista economica del Mezzogiorno”, a. XXVI, 2012, n. 3., pp. 2 ss.; A.
Brunetti, E. Felice e G. Vecchi, in (a cura di) G. Vecchi, “Reddito, In
ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi”,
Bologna, 2011, pp. 224 ss.)
Achille Fazzari
Achille Fazzari
Per quel che riguarda più precisamente la Ferriera di
Mongiana si deve ricordare che i documenti, e non le rivendicazioni
infondate, testimoniano che non solo non ne erano stati smontati i macchinari
da quel diavolo di Garibaldi o dai Savoia per portarli altrove, ma,
addirittura funzionavano talmente bene che nel 1861 la fabbrica riceve una
medaglia ed un diploma all’esposizione universale di Firenze e, nel 1862, una
medaglia d’oro all’esposizione universale di Londra.
È vero che con la legge n. 793, del 21 agosto 1862, Mongiana
viene inserita tra i beni demaniali da alienare, ma nel 1881 viene acquistata
da un ex garibaldino, Achille Fazzari, che ne riavvia la produzione.
Anche se la produzione di Fazzari durò poco, la possibilità
che potesse essere riavviato l’altoforno e, quindi, la produzione ci
testimoniano, dunque, che i macchinari e gli altiforni erano ancora “in situ” e
che, senza tema di smentita, non erano stati espiantati per portarli altrove,
al Nord (M. Spadaro, “Le Ferriere del Regno: il polo siderurgico delle
Calabrie”, editoriale il Giglio, s.d.).
La fabbrica di Mongiana, alla metà dell’800, non solo
era pericolosa e letale per i lavoratori, come scrive già nel ‘700
G. M. Galanti, ma non era più economicamente vantaggiosa a causa del
dimezzamento del costo del ferro e della ghisa d’importazione (A.
Capone,“Economia e strutture dell’Italia unita”, in “Storia d’Italia”,
vol. 20, Utet, Torino 1995).
Nel caso di Mongiana sono, però, sicuro che, grazie ad uno
studio e ad uno scavo archeologico (dei quali sono, peraltro, consulente
scientifico), si riuscirà a far luce, in maniera più precisa e scientifica di
quanto non sia stato fatto finora, sulle dinamiche economiche, sociali e
politiche delle Ferriere e dell’intero comprensorio siderurgico calabrese.
Quando lo studio sarà completato e presentato con l’adeguato corredo
bibliografico e con gli apparati scientifici consueti, se ne potrà, finalmente,
appropriatamente discutere fra storici di mestiere.
Alla fine di questo breve “abstract” mi piace riportare, per
intero invece, un passo di Antonio Gramsci tratto da “La Questione meridionale”
(Roma 1966, p. 159):
“La Italia unificata
aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due
tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo
più di mille anni. L’invasione longobarda aveva spezzato definitivamente
l’unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso
speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò,
di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di
una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di
iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli
altri Stati d’Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e
dell’industria. Nell’altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni
nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era
primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non
porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua
speciale conformazione geologica, possedeva”.
La conclusione, ancora attuale, alla quale giunge Gramsci,
e con la quale concordo pienamente, è che sarebbe stato impossibile
il riscatto del Mezzogiorno italiano senza la maturazione e la formazione della
borghesia, dei ceti urbani meridionali e la loro trasformazione in classe
dirigente.
Dalle reazioni suscitate dall’inaugurazione del Museo
della Ferriera di Mongiana, ma anche da molti altri sintomi antistoricamente
filo-borbonici, emerge con chiarezza che questa maturazione, dopo quasi
un secolo, non c’è stata e che una vera e seria classe dirigente
meridionale non si è ancora formata.
Sembra che inizi a farsi strada e, addirittura, a prevalere
un sentimento auto-consolatorio, speculare alle rivendicazioni leghiste,
che asseconda e rafforza l’idea che i colpevoli sono gli altri, che sono
altrove, che sono al Nord.
Un sentimento del tutto contrario alla necessaria, secondo
il mio avviso, assunzione di responsabilità e di incapacità che i
meridionali ed i calabresi, dopo sessant’anni di libere elezioni, devono
prendersi: non siamo stati in grado di uscire dal sottosviluppo
economico, sociale e culturale.
Fonte: da mediacalabria del 10 ottobre 2016
Nessun commento:
Posta un commento