Per conto dello Spiegel, Matthias Schulz traccia un interessante quadro sulla personalità di Zahi Hawass, il segretario generale del Consiglio supremo delle antichità egizie.
Sono le 5 di mattina e Zahi Hawass entra nel suo SUV, diretto a una conferenza stampa nell’Oasi di Bahariya. Le strade del Cairo sono ancora vuote e bisogna affrettarsi per evitare il traffico mattutino. Hawass ha già avuto un infarto e da allora fuma solo pipe ad acqua. Riferendosi all’autista, dice: “Se rallenta, lo licenzio”.
Gli piace chiamare i suoi oppositori “stronzi”, ma nessuno ha problemi col suo carattere. In realtà egli gode di una sorta di licenza che gli permette di essere volgare e arrabbiato e le regole le definisce lui stesso. Lui è il protettore finale di tutti i monumenti del paese.
Con un abbigliamento che ricorda Indiana Jones, Hawass è famoso nel mondo grazie alla presenza costante in TV. È lui stesso a spiegare senza esitazioni il suo narcisismo. Sull’incontro con Obama lo scorso giugno, Hawass rivela: “Gli dissi che George Lucas venne qui per scoprire perchè il mio capello è diventato più famoso di quello di Harrison Ford”. Oppure, quando gli venne mostrata l’impaginazione del suo ultimo libro, commentò: “Ok, ma dovete stampare il mio nome in caratteri più grandi”. E infine: “Non sono solo famoso negli Stati Uniti, ma anche in Giappone e, per la verità, ovunque”.
Hawass è però, probabilmente, meglio conosciuto in Egitto, dove tiene una rubrica sul quotidiano governativo Al-Ahram. Spesso va nella TV egiziana a parlare con ospiti ufficiali o per aprire competizioni di danza davanti alla Sfinge.
Alla gente piace l’approccio di Hawass di dialogare alla pari con l’Occidente. È visto come il liberatore d’Egitto da una posizione di umiliazione (la traduzione inglese riporta “humility“).
L’egittologo dice che avrebbe bisogno di migliaia di gambe e di braccia per cancellare tutto il disonore inflitto al suo paese. La sporcizia, la povertà, la mancanza di organizzazione e la povertà delle attrezzature tecniche della sua agenzia non aiutano le cose. “Una volta eravamo al top”, dice riferendosi ai tempi dei faraoni.
Spesso parla di dignità, rispetto e onore. Crede che la sua nazione sia stata truffata e che la sua missione sia quella di vendicarsi per questo trattamento.
“Il nostro patrimonio è stato rubato”. E lui vuole recuperarlo.
È vero che la regione intorno al Nilo è stata saccheggiata per migliaia di anni da sovrani stranieri, dai Romani a Napoleone. Molti di questi tesori sono stati però comprati legalmente, alcuni per grandi quantità di denaro. È anche vero, d’altronde, che molti altri sono stati rubati, infrangendo la legge.
Hawass non fa distinzioni. Finora è riuscito a portare a casa 31.000 oggetti venduti di contrabbando; principalmente dei pezzi ottenuti con scavi illegali e venduti negli ultimi 50 anni.
Tutte queste sfide richiedono peraltro una buona condizione psicofisica. Per mantenersi in salute, Hawass comincia la sua giornata – su consiglio della moglie, ginecologa – con della ginnastica.
Dalle 7 del mattino si siede nel suo ufficio nell’esclusivo quartiere di Zamalek, bevendo tisane e limonate. Esce soltanto per la cena. Dopo le 10 di sera finalmente si rilassa, giocando a backgammon in un bar vicino al suo appartamento.
Altre volte, invece, Hawass si sveglia molto presto e salta la routine mattutina: si lava i denti, mangia velocemente un falafel e si dirige verso la campagna a bordo della sua jeep.
La ragione per cui Zahi Hawass è così occupato è che ha monopolizzato tutte le attività di pubbliche relazioni riguardanti l’archeologia.
Sono più o meno 30.000 le persone che gli fanno rapporto e circa 225 i team di archeologi che lavorano lungo il Nilo. Sono tutti tenuti con la museruola e nessuno di loro ha il permesso di riferire scoperte importanti senza l’approvazione ufficiale. Prima ognuno faceva le operazioni che voleva, “ma [ormai] quei giorni sono finiti”, dice Hawass.
Il fatto che egli si riservi il diritto di annunciare le scoperte non piace certo a tutti: diverse persone non credono che sia troppo interessato alla ricerca seria.
Il riferimento è, per esempio, alla stima di 10.000 mummie nella cosiddetta Valle delle mummie d’oro a fronte delle sole 200 finora scoperte (recentemente ne sono state trovate alcune di età Romana); oppure all’erronea identificazione di una misera tomba nella Valle dei Re con quella di un faraone donna.
Anche alcuni suoi scavi sono sembrati bizzarri. Per qualche tempo Hawass ha cercato il corpo di Cleopatra in un tempio vicino ad Alessandria. L’idea gli venne suggerita da un avvocato della Repubblica Dominicana. “Ne è sicuro?”, gli chiese un giornalista. “Totalmente, altrimenti non l’avrei neanche menzionato. Dopo tutto, non voglio mettermi in imbarazzo”, gli rispose lui.
Quando poi non venne trovato niente, l’anno scorso Hawass prese da un museo un busto di granito di Marco Antonio (l’amante di Cleopatra) e finse di averlo appena scavato dal terreno.
Duncan Lees, un grafico che occasionalmente crea animazioni 3D di alcune tombe – in altre parole, una figura minore -, lo chiama “uomo avido” (greed guy) e tiranno, uno che preferisce circondarsi di “leccapiedi”.
Gli egittologi importanti, invece, sono più riservati e tendono a sussurrare le loro critiche. Non vogliono perdere le loro licenze.
Sono in molti ad aver aspettato il 28 maggio, data in cui il narcisistico archeologo ha compiuto 63 anni – normalmente, l’età della pensione. Ma invece di una cena d’addio, Hawass ha raggiunto una nuova posizione: il presidente Mubarak l’ha nominato vice ministro della cultura, ovvero potrà continuare a lavorare fino alla fine della sua vita.
Bisogna però dire che questo enigmatico personaggio non ha affatto solo tratti negativi. Ha veramente realizzato qualcosa. Con la sua frenetica attività di pubbliche relazioni e la sua sconfinata vanità, Hawass ha cambiato la consapevolezza dei quasi 80 milioni di egiziani e ha creato una nuova sensazione di orgoglio.
“[Prima], per i piccoli contadini, il mondo ruotava intorno a Maometto e al Corano”, dice l’egittologo Christian Loeben. “Poi è arrivato Hawass, [il quale] è riuscito a convincere ogni fellah (la popolazione rurale) che i faraoni sono parte del loro patrimonio culturale. Io lo ammiro per questo”.
Sono esattamente questi successi che stanno causando così tanti problemi ai musei di Parigi, Londra, New York e Berlino. È la tenace campagna vendicativa dell’auto-proclamato “guardiano” delle piramidi a farli tremare.
La disputa ha raggiunto un nuovo apice due mesi fa, quando Hawass tenne al Cairo la “Conference on International Cooperation for the Protection and Repatriation of Cultural Heritage“. I rappresentanti di 25 nazioni vi parteciparono per formare un fronte unito contro i paesi che sfruttano tutto il Mediterraneo e per cercare di far rimpatriare diverse opere d’arte.
Alla fine della conferenza, il padrone di casa presentò un elenco di richieste che includeva sei capolavori: il busto del “visir” Ankhaf dal Museum of Fine Arts di Boston; la Stele di Rosetta dal British Museum; il bassorilievo astrologico raffigurante uno zodiaco dal Louvre; il busto di Nefertiti dal Neues Museum di Berlino; la statua di Hemiunu dal museo di Hildesheim e la scultura di Ramses II (o Ramesse II) dal Museo egizio di Torino.
La missione di Hawass di riportare in Egitto queste opere d’arte è però tutt’altro che facile.
L’MFA di Boston è “irritato”, mentre il Louvre e il Museo egizio di Torino rifiutano di cedere. Lo scorso dicembre il Neues Museum ha mandato un suo rappresentante in Egitto con la documentazione di vecchi contratti. Indicano che “tutto venne fatto legalmente” quando il busto di Nefertiti venne trovato e venduto nel 1913.
A dire il vero, le richieste degli egiziani si poggiano su basi fragili. L’Egitto non ha alcun potere legale. Alcuni dei pezzi rivendicati da Hawass sono arrivati in Europa circa 200 anni fa, in un tempo in cui non esisteva niente di simile alla Convenzione per la protezione del patrimonio culturale mondiale dell’UNESCO.
Nel 1798 l’Egitto venne invaso da un esercito francese di circa 40000 uomini guidato da Napoleone. La schiacciante vittoria francese nella battaglia delle piramidi segnò la fine, dopo 700 anni, del dominio mamelucco in Egitto.
Questa spedizione ebbe il merito di far riscoprire, dopo centinaia di anni, la grandezza di quella terra e contribuì a far nascere la moderna egittologia, soprattutto grazie alla scoperta della Stele di Rosetta.
I britannici arrivarono poco dopo, strappando ai francesi l’inestimabile reperto e provocando una serie di viaggi segreti e cacce nei bazar non del tutto chiari. La gente del posto era un po’ disorientata da tutte quelle trattative: perchè – si chiedevano – gli stranieri lottano per delle cianfrusaglie dei tempi dei faraoni? Non avevano interesse per il glorioso passato dell’Egitto.
Muhammad Ali Pashà, divenuto viceré d’Egitto nel 1805, preferiva fumare pipe ad acqua nel suo harem, mentre i suoi sudditi usavano le mummie come combustibile per i forni.
Al contrario, britannici e francesi sapevano benissimo cos’avevano davanti ai loro occhi. Due diplomatici, l’italiano Bernardino Drovetti e l’inglese Henry Salt, usarono le loro ricchezze private per accaparrarsi tesori enormi. Inviarono agenti in tutto il paese e convinsero gli anziani dei villaggi ad aprire gli antichi cimiteri e finanziarono scavi da Tebe a Giza. Poi vendettero il bottino ai migliori offerenti, tra cui re, principi e musei d’Europa.
Tutto ciò non era illegale. A dire il vero venne applicato il principio “nulla poena sine lege” – “nessuna pena senza la legge”.
Hawass lo conosce certamente bene, ecco perchè usa un linguaggio un po’ vago per giustificare le sue richieste. Parla di appello morale e riparazione in generale. Il suo messaggio ai musei occidentali è chiaro: consegnate i sei capolavori e i vostri crimini del passato verranno perdonati.
Ma ora che i nuovi proprietari fanno orecchie da mercante, Hawass sfoga la sua rabbia e comincia a raccontare i suoi celebri aneddoti.
Per esempio, ecco ciò che ha detto recentemente riferendosi al British Museum: “Tenevano la Stele di Rosetta in una stanza scura, scarsamente illuminata, fino a quando non mi sono presentato io per chiederne la restituzione. Solo allora, improvvisamente, trovarono quel pezzo importante”.
Invece, per quanto riguarda il busto di Nefertiti, Hawass dice che gli archeologi tedeschi che lo scoprirono lo ricoprirono deliberatamente con del fango per trarre in inganno l’ufficio delle antichità egiziano. Questa storia, però, non è vera: tutti i resoconti vennero debitamente firmati.
A questo punto, sorgono un po’ di dubbi: è Hawass che vuole troppo? Le sue sono vere rivendicazioni o vuole solo intimidire i suoi oppositori? Chi è veramente quest’uomo che, riferendosi ai suoi avversari, dice: “Distruggerò chiunque mi attacca”
Hawass è reticente sulle sue origini. Nacque in un villaggio nella valle del Nilo. Suo padre morì precocemente e Zahi dovette contribuire a sostenere la famiglia.
Non ha niente da dire sul duro lavoro dei campi, la sporcizia nelle strade e la povertà. Ricorda, comunque, che era un “famoso giocatore di calcio” da ragazzo e che “tutte le donne mi amavano e mi volevano sposare”.
A 21 anni, il giovane Hawass venne assunto nell’amministrazione delle antichità, che all’epoca era un’enorme e “sonnolenta” agenzia governativa con nessuna competenza scientifica. Il suo lavoro, dice, era poco più che fare la guardia, chiudere a chiave i magazzini e stare dietro agli scienziati occidentali.
Il grande passo fu l’andare in America. Frequentò l’Università della Pennsylvania per sette anni, ottenendo alla fine il suo dottorato lì.
Quando ritornò in Egitto ormai sapeva parlare l’inglese e gli egiziani lo videro come un viaggiatore di mondo che aveva beneficiato di ciò che offrivano gli Stati Uniti.
‘Unto da questa benedizione’, salì velocemente la gerarchia: divenne “Direttore generale delle antichità”, poi “Sottosegretario dello Stato” e, infine, “Segretario generale”.
Hawass realizzò allora che l’Occidente era disposto a fare la fila e a pagare bene per condividere la gloria dei faraoni, mentre le televisioni cominciarono a bussare alla sua porta attirate dalla sua abilità oratoria capace di estrapolare emozionanti storie dal più misero mucchio di frammenti.
Il meglio di sè lo diede nel 2002. Il 18 settembre di quell’anno mandò in diretta TV un robot radiocomandato che doveva perforare una lastra e scoprire un misterioso passaggio nella Piramide di Cheope. C’era però ben poco da vedere (c’era una seconda lastra), ma Hawass, imperterrito, commentò: “Ciò che abbiamo visto stanotte è qualcosa di unico nel campo dell’egittologia”. È questo il suo dono: l’abilità di intrecciare sogni e storia. Omar Sharif, suo amico, lo chiama “un attore straordinario”.
Grandi sono però anche i suoi successi: ha aiutato il suo paese, ha ammodernato l’agenzia delle antichità e ha portato milioni di turisti in Egitto.
Ora Hawass vuole la costruzione di 19 musei, il più grande dei quali è già in costruzione proprio vicino alle piramidi. Quando verrà finito, nel 2013, ospiterà la più grande collezione egizia del mondo e, se ci riuscirà, anche i sei capolavori che rivendica e che rappresenterebbero il coronamento della sua carriera.
Ma succederà? Per il momento i musei occidentali non cedono su quelle opere d’arte.
La statua di Hemiunu venne scoperta nel 1913 grazie a degli scavi pagati da Wilhelm Pelizaeus, il quale fu estremamente corretto nel rispettare gli accordi che prevedevano una divisione degli oggetti scavati “in parti uguali”; furono addirittura gli egiziani a non volere la statua poiché la sua testa “era completamente frammentata”, dicono dal museo di Hildesheim.
Le circostanze del Museum of Fine Arts di Boston sono simili. Anzi, loro hanno persino un documento del 1927 che afferma che il busto di Ankhaf venne dato al nuovo proprietario americano come atto di gratitudine da parte dell’Egitto. In sostanza, gli archeologi americani avevano ricostruito sedie, cuscini e un letto della polverosa tomba, appena scoperta, di Hetepheres, madre (o la sposa?) di Ankhaf. Gli americani portarono poi tutto al Cairo e, avendo pagato tutti i lavori di tasca propria, venne loro consegnato il famoso busto come ricompensa.
Alla luce di questi fatti, le accuse di Hawass cadono improvvisamente. Ma allora perchè tutto questo trambusto?
Alcuni pensano che l’uomo stia perseguendo una strategia a lungo termine, come se stesse contrattando al bazar. “Prima avanza le più grandi richieste possibili, per intimidire i musei”, dice Loeben, “sperando almeno di ricevere i capolavori in prestito per la ‘consacrazione’ del suo nuovo grande museo”.
Difficile dire che funzionerà: “Senza un trattato nazionale bilaterale”, dice un portavoce dell’Hildesheim, “non gli presteremo niente. Non ci fidiamo di lui”.
Ma anche se fallisse in questa missione, Hawass probabilmente se ne farà una ragione. Egli ha già raggiunto il suo principale obiettivo: la celebrità.
Oggi, quando guida sulle polverose strade del Cairo verso le piramidi, dove cominciò la carriera quasi 40 anni fa, i suoi dipendenti stanno sull’attenti e lo salutano. In quei momenti, il cuore di questo figlio di contadino è pieno di gioia. Lui sorride, nella consapevolezza di avercela fatta.
“Nessuno in Egitto che arriva da una normale famiglia è riverito tanto quanto me”.
Fonte: Spiegel. del 28 maggio 2010
Fonte: Il fatto storico
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