ANGELO DEL BOCA
Ci risiamo. Il governo italiano, per bocca del ministro degli esteri Fini, rispondendo in parlamento alle interrogazioni dell'opposizione sulle vicende della «maglietta nera» provocatoria del ministro leghista Calderoli, ha ribadito che ci sarà «nuovo impulso al partenariato Roma-Tripoli e che da adesso in poi il governo darà come priorità assoluta alla necessità di chiudere definitivamente il capitolo storico del passato coloniale».
Qual è il capitolo storico del passato coloniale che in realtà non è stato chiuso?
Si tratta di un problema che è sul tavolo fra Tripoli e Roma da almeno 40 anni; già nel 1956 l'Italia si accordò con re Idris per chiudere la questione coloniale, ma fu una conclusione molto gretta e meschina, la somma pattuita era modestissima e oltretutto era compresa la costruzione di un ospedale, in realtà mai stato costruito. Dunque già da allora eravamo in debito.
1969, arriva Gheddafi
Poi nel 1969 arriva Gheddafi a cambiare radicalmente l'atmosfera e il primo provvedimento che attua è la richiesta agli Stati uniti e alla Gran Bretagna di abbandonare le basi aeree che avevano in territorio libico, cosa che avvenne nel giro di pochi mesi tra l'altro la base area di Wilus Field era la più importante base aerea di tutto il Mediterraneo.
Logicamente sarebbe poi toccato all'Italia, presente però ancora con una colonia di 20mila persone, cacciati via in maniera piuttosto brutale.
Ma è bene ricordare che la responsabilità di questa espulsione improvvisa e senza risarcimenti non era solo di Gheddafi, perché in realtà c'era un accordo tra l'allora ministro degli esteri italiano Moro che stava per arrivare a Tripoli e incontrare su questo proprio Gheddafi, saltò all'ultimo minuto per l'ennesima crisi di governo.
Siamo all'inizio degli anni Settanta e Moro preferì i palazzi romani sottovalutando il colonnello africano.
Un fatto che citiamo perché, sappiamo, che lasciò un profondo risentimento in Gheddafi. la riprova fu la quasi immediata cacciata degli italiani costretti, i più, ad abbandonare le loro terre, in una realtà nella quale praticamente gli edifici e le aziende più importanti erano controllate dagli italiani o erano proprietà degli italiani. Molti di loro avevano tolto la terra agli arabi, ma in gran parte erano persone che avevano creato una piccola azienda con il lavoro e questi furono cacciati in malo modo.
Due richieste fondamentali
Da allora Gheddafi ha continuato sistematicamente a rivolgere all'Italia due richieste fondamentali. Primo, il risarcimento dell'occupazione militare italiana e dei danni di guerra.
Secondo, l'operazione di bonifica di tutti i campi minati nella Cirenaica.
Nessuna delle due è stata benché minimamente esaudita.
Ancora nel 1984 Andreotti andava in Libia a promettere un ospedale, che i libici avrebbero voluto della capienza di 1200 letti e l'Italia ne controffriva 100. E' chiaro che con questa disparità non si poteva fare nulla e infatti non si è fatto nulla. Questo ospedale presentato come un regalo in realtà non era un regalo, era ancora l'ospedale pattuito con re Idris quasi trenta anni prima. E poi siamo arrivati ai viaggi di Berlusconi che, in uno dei suoi ultimi viaggi, si è detto pronto a fare qualcosa per chiudere questa partita e anche lui offriva un ospedale, stavolta quantificando anche la cifra, ragguardevole, di 63milioni di euro. Ma, nella sorpresa di Berlusconi, Gheddafi stavolta ha risposto di no. Ha fatto però una richiesta diversa che è la richiesta della famosa litoranea che va dal confine della Tunisia al confine dell'Egitto. Sono circa 2000 chilometri, un'autostrada a 4-5 corsie, con una spesa enorme che indubbiamente ha spaventato Berlusconi. E infatti da allora non se n'è più parlato. E siamo a ieri, con Fini che vuole «chiudere il passato coloniale». Era ora, va bene. Ma allora bisogna che arrivino con qualche offerta precisa. Sarà l'offerta ancora dell'ospedale o sarà l'offerta di costruire questa litoranea?
Immigrati da concentrare
Naturalmente Fini concludeva ieri il suo intervento dicendo esattamente queste parole: «...la collaborazione italo-libica come testimoniato dalla fruttuosa cooperazione nella lotta all'immigrazione clandestina riveste importanza strategica per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo».
Resta il discorso di affidare alla Libia questo ruolo di filtro, un ruolo che è stato pattuito negli ultimi due-tre anni, con i frequenti viaggi del ministro degli inetrni Pisanu. Ma è sotto gli occhi di tutti che non è avvenuto nessun cambiamento sostanziale. I disperati continuano ad essere avvistati e arrivano sulle coste italiane. Perché è troppo forte la pressione della disperazione africana, si parla addirittura di un milione e mezzo, due milioni di persone che premono. Ancora una volta perché le promesse non sono state mantenute. Io ricordo che all'inizio si parlava di pattugliare il Canale di Sicilia con motovedette con equipaggio libico e italiano, si parlava di fare una rete di radar per poter individuare questi gruppi che vengono dal deserto, soprattutto dal Ciad, di dotare l'esercito libico di tutta un'attrezzatura, ecc. ecc.
Che cosa è stato fatto? Si sono fatte invece cose negative, cioè quei centri di raccolta che ospitano tutti gli africani ricacciati dall'Italia perché non possono avere asilo politico, sistemati in campi che in realtà non sono campi di raccolta, di smistamento ma autentici campi di concentramento. Quindi facciamo fare ai libici il lavoro sporco, questa è la verità. Negli stessi luoghi dove, per esempio in Cirenaica, cominciò a farli il colonialismo italiano prima e il fascismo poi.
La brutta figura di Fini
La verità è che quella del governo italiano che parla per bocca di Fini è una preoccupazione tutta quanta elettorale. L'arrivo di immigrati in questo momento come l'assalto al consolato libico sarebbe esiziale, teme Berlusconi - l'ha perfino dichiarato - per i destini del centrodestra: addio recupero dai sondaggi. Fino alle brutte figure. Siamo passati dal Fini che annuncia «volevano destabilizzare Gheddafi», allo stesso che ammette che «senza la provocazione di Calderoli forse la rivolta non ci sarebbe stata. E giù consensi, da destra a sinistra (da Maghdi Allam alla Bonino), sulle presunte «manovre» libiche.
Risultato: una risposta a Fini da parte del governo libico inusitata quanto a durezza e ultimativa: «Invitiamo il ministro Fini a smettere di parlare in questo modo e l'attenzione dovrebbe essere diretta a far cessare la fonte del problema che è partito dai giornali danesi ed è continuato con le affermazioni e le posizioni del ministro Calderoli». Una sberla e uno schiaffo.
Quando uno cerca di far passare quell' ignobile spot fatto da un ministro come «gesto che non ci rappresenta». Intendiamoci, il momento è brutto per Gheddafi che ha subito in molte occasioni tentativi di destabilizzazione e colpi di stato, sii parla addirittura di una trentina, il governo ne ammette ufficialmente soltanto due. Una decina di anni fa, proprio in Cirenaica - dov'è scoppiata ora la sommossa - ha addirittura fatto intervenire esercito, marina e aviazione per reprimere una sommossa d'impronta integralista. Le difficoltà esistono, ma non possono servire a Fini per coprire il disastro del governo italiano «ben» rappresentato da Calderoli. Dunque questo governo può rabberciare le cose in chiave elettorale ma ha dimostrato di non rappresentare una sponda di pace nel Mediterraneo.
La dichiarazione post-fascista
Per finire. Fini dichiara di voler chiudere il contenzioso coloniale in modo così convincente che non ho mai sentito da nessuno dei suoi predecessori. Sarebbe davvero la grande occasione più volte rimandata per fare quella dichiarazione sul passato coloniale italiano che Gheddafi aspetta con più impazienza della stessa realizzazione della litoranea. Una dichiarazione che riconosca in maniera assoluta che l'occupazione italiana in Libia è stata brutale, come già ha fatto l'ex presidente Scalfaro quando fu in visita in Etiopia e parlò chiaramente: «Furono anni di sangue, noi chiediamo scusa».
Sarebbe ancora più rilevante se a farla fosse proprio Gianfranco Fini, un leader post-fascista.
Fonte: srs di Angelo Dal Bocca, da il manifesto del 23 Febbraio 2006
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