mercoledì 14 ottobre 2009

Seconda guerra d’indipendenza, un conflitto disertato dai Savoia; i brogli dei blebisciti




RISORGIMENTO. L'ALTRA VERITA'


Nella Seconda guerra d’indipendenza il Piemonte e i Savoia fecero da  comparse. Avevano assicurato - Vittorio Emanuele II,  Cavour e i comandanti dello Stato Maggiore - che sarebbero scesi in campo con un contingente di 150mila uomini ma, a stento, riuscirono a metterne insieme 50mila. Metà dei coscritti chiamati alle armi, utilizzando  qualche pretesto a portata di mano,  non rispose all’appello ed evitò di indossare la divisa.  I  volontari - che si attendevano a centinaia di migliaia - non si videro affatto.  Forse non fu nemmeno un male perché i reparti, nonostante fossero più che dimezzati rispetto alle  aspettative, non furono in grado di assicurare a tutti una giubba, un fucile e qualche munizione.  Chi restava disarmato veniva inquadrato nelle retrovie e, avanzando al seguito delle prime linee, doveva preoccuparsi di recuperare l’attrezzatura abbandonata da qualche compagno rimasto ucciso o ferito grave.

IL RE  “FINTO” CONDOTTIERO

Il re voleva fare la sua parte e, considerandosi un grande  condottiero, pretendeva di assumere la direzione della guerra. Per non correre il rischio di essere contraddetto, scelse come aiutante di campo il super - fidato - Morozzo della Rocca che tutto avrebbe potuto fare (compreso sistemare la Rosina, amante di Vittorio Emanuele, al seguito delle truppe) ma non discutere per smentire sua maestà.

Il  conte di Cavour, al contrario, non aveva fiducia nelle capacità belliche del suo sovrano e, per controllarlo, pretese che il generale La Marmora occupasse il ruolo di capo di Stato Maggiore.  Il risultato fu che i due ufficiali, ritenendosi più alti  in grado (e con protezioni maggiori), fecero la guerra ognuno per proprio conto, evitando il  più delle volte di rivolgersi la parola.  Fra tutti, ignorarono completamente le esigenze del Governo che non informarono affatto dell’andamento delle operazioni.  Cavour veniva a conoscenza di che cosa stesse accadendo ai fronte leggendo i giornali francesi che gli arrivavano da Parigi.

TORINO INDIFESA,  IL CAMPO DISERTATO

Torino era senza difesa e, al momento della dichiarazione di guerra, la gente della città venne colta dal panico. Temevano che gli austriaci fossero in grado di passare la frontiera, sbaragliare le truppe sabaude e invadere lo  Stato. I più preoccupati erano proprio i generali e gli ufficiali superiori che diedero ordine alle rispettive famiglie di traslocare rapidamente  trasferirsi nelle residenze di campagna, il più lontano possibile.

Per fortuna Napoleone III rispettò i patti di Plombières (e quelli con “Nicchia”). Centoventimila soldati aveva promesso e con un  contingente di 120mila arrivò, passando la Marsiglia a Genova, via mare e risalendo poi verso Milano.
Il 4 giugno (1859) si ebbe la prima battaglia, a Magenta.  Nicola Nisco  al quale furono commissionati sei volumi per raccontare (bene) la storia d’Italia, quasi certamente pagati dal re, riuscì ad attribuire il merito di quella giornata a Vittorio Emanuele II,  intrepido comandante.  In realtà, il comando piemontese stava a 12 chilometri di distanza e le sue truppe non intervennero nemmeno: tanto che, fra loro, non si conta neppure un ferito.

Poco merito anche a San Martino. Il quadro che ritrae il re, con la spada sguainata mentre guida l’assalto della sua cavalleria, su per la collina, è il risultato della piaggeria del pittore di corte.  Il re trascorse l’intera giornata della battaglia peregrinando qua e là, da Castel Venzago a Monte Castellero e poi a Lonato.  Lo cercavano per dirgli  che si stava combattendo e lo trovarono a Castel Castellero, spossato per il gran caldo, sudato per via della fatica che faceva per portarsi appresso la sua mole, sudato e, quasi, sdraiato sotto una pianta, con la giacca aperta per prendere un po’ d'aria e il sigaro in bocca per ottenere un po’ di conforto.  Il generale Solaroli, che gli faceva compagnia, lo descrisse inebetito, incapace di rendersi conto delle circostanze e, quindi, senza la forza di prendere qualunque decisione.  Quando raggiunse le truppe vittoriose era già tutto finito. Non per nulla Napoleone III lo considerò buono per reggere i gradi di un sergente e il francese d’Ideville confermò che non valeva molto di  più.

GLI INSULTI ALL'ALLEATO

Forse per rivincita, Vittorio Emanuele II, parlando con Henry de la Tour d’Auvergne, ambasciatore di Francia  si lasciò sfuggire un commento poco regale. «Chi è, in fondo questo Napoleone IIII?»  Domanda retorica e risposta sferzante: «È l’ultimo dei sovrani d’Europa. Un intruso fra noi. Farebbe bene a ricordarsi chi è lui e chi sono io, che rappresento la più antica dinastia regnante». Anche il re gaffeur si accorse di averla sparata un po’ grossa e tentò di rettificare, chiedendo scusa per essersi lasciato «scappare» qualche frase di troppo.  Il diplomatico fu gelido: «Vostra maestà, voglia scusarmi di non aver potuto sentire una sola delle parole che ha pronunciato».  E mandò una relazione al Ministero per riferire ogni minimo dettaglio.

L’esito favorevole della battaglia venne celebrato nei podere del parroco di san Martino - don Gandini - che fno alla sera prima aveva arringato i suoi fedeli, incoraggiandoli a parteggiare per l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.  In una notte, incoraggiato dagli eventi, cambiò idea, partito e atteggiamenti. In compenso il suo curato  don Beretta, che aveva sempre manifestato schietti sentimenti italiani, fu accusato di essere uno spione e corse il rischio di finire davanti al plotone di esecuzione.  Piccoli episodi, - e, se vogliamo, piccolissimi - che dimostrano come cominciava la lunga e ininterrotta stagione dei collaborazionisti premiati e dei patrioti sospettati e puniti.

QUEI VENETI FEDELI A VIENNA

Passarono in ritirata i reggimenti dei vicentini e dei veronesi che avevano combattuto per l’esercito di Vienna. A chi li invitava a disertare, entrando nell’Italia unita, con l’assicurazione che sarebbero stati protetti, risposero  che erano sudditi fedeli dell’Austria.

Il Piemonte doveva bombardare Peschiera, operazione strategica per il prosieguo del conflitto. L’artiglieria era discreta e poteva cantare su 114  cannoni di buona fabbricazione.  Però non c’erano i cavalli da aggiogare sotto gli affusti per trascinarli sul campo di battaglia. Quando era ora di utilizzare le bocche di fuoco, ci si accorse che erano rimaste, come parcheggiate, negli arsenali di Torino: lucide, oliate, spaventosamente efficienti ma lontane 300 chilometri dal posto dove servivano.  La vittoria arrivò perché i francesi vinsero.  La battaglia decisiva  avvenne a Solferino e fu cruenta, sanguinosa, veemente.  Napoleone III pagò un prezzo assai elevato in termine di soldati caduti sul campo, al punto da decidere di abbandonare l’impresa. Probabilmente Francia e Piemonte avevano concordato di continuare la campagna per arrivare fino a Venezia ma, a quel punto, l’imperatore si rese conto che l’impegno sarebbe stato per lui troppo gravoso. Meglio fermarsi a quel punto. L’Austria consegnò la Lombardia a Parigi che la girò al Piemonte.

INSURREZIONI "MANOVRATE"

Nel frattempo il granducato di Toscana e i ducato di Parma, Piacenza Guastalla e di Modena, con una fetta di Emilia Romagna, avevano scelto la strada della rivolta contro i rispettivi Governi per chiedere di essere guidati da Torino.

Le insurrezioni non ebbero niente di spontaneo.  Furono provocate ad arte e messe insieme da un centinaio di carabinieri in borghese e da agenti segreti che facevano i sobillatori di professione. Duchi e granduca scapparono e i giornali scrissero che si erano portati via l’argenteria.  In realtà, tutto quanto c’era di prezioso fu lasciato dai “vecchi” signori e recuperato dai  “nuovi”  che affidarono preziosi e gioielli agli orafi che fusero l’oro ricavando lingotti.  Una parte (abbastanza piccola) prese la strada di Torino; il resto (quasi tutto) finì nei forzieri dei luogotenenti che si ripagarono per il
loro slancio patriottico.

Giuseppe La Farina chiamò anche una compagnia di sarti per stringere gli abiti del duca di Modena che era grasso, mentre lui era più sottile di un paio di taglie.

PLEBISCITI  “GUIDATI”


I plebisciti - ovviamente guidati dall’alto - portarono all’annessione. “Annessione”, parola orrenda che significa  cancellare le proprie radici e la propria cultura - almeno metterla in sonno - per consegnarsi ad  altri, aggiungersi, mescolarsi, nascondersi, “integrarsi”.

Dallo spoglio delle urne risultò addirittura  un numero di votanti superore a quello degli aventi diritto iscritti nei registri

Dai numeri sembrava che ci fosse stata ressa ai seggi. “Di corsa”, per esprimere la propria preferenza in  modo, il più in fretta possibile, da diventare sudditi della corona dei Savoia.  In realtà, il tempo delle  votazioni passò senza entusiasmo e, piuttosto, con indifferenza. Alle urne ci andarono in pochi, ma quei pochi furono in grado di esprimere  una preferenza anche per chi aveva rinunciato al suo diritto.

Chiusi i seggi gli scrutatori cominciarono a lavorare per compilare a tavolino i moduli che erano rimasti bianchi e lo fecero “naturalmente, in senso piemontese”. Antonio Culetti, protagonista di quei giorni, autore di un pamphlet, pubblicato anonimo in Francia e rimasto poco conosciuto perché sgradevole alla retorica di regime, raccontò esattamente quello che era  successo a Modena. «perché io c’ero fisicamente e, dunque, parlo per conoscenza diretta in prima persona».

Cosa capiva quella  gente semi-analfabeta  dei rivolgimenti che la stavano coinvolgendo? Nessuno sapeva  che cos’era “il suffragio” e non si poteva sapere che avesse carattere “universale”. Fino a quel momento pochi ricchi avevano deciso per tutti e sembrava strano che, proprio in quella circostanza, volessero acquisire un parere assai più ampio. Ovviamente il fatto che la gente non sapesse e non capisse «giovava a meraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo».  Bastava infilare nell’urna  una quantità di voti che la gente non si era nemmeno sognata di esprimere.  In alcuni collegi questa introduzione in massa, nelle urne, degli assenti si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori iscritti nei registri».

I soldati delle brigate estensi seguirono il duca Francesco V in esilio e non accettarono di rientrare nemmeno quando, l’unità d’Italia fu compiuta. Fra i tanti cognomi italianeggianti di persone che vivono oggi in Austria, la maggior parte è discendente di quei reparti dell’esercito che lasciarono Modena in armi.

Analogamente in ogni città interessata. Occorreva che il risultato fosse più che grande, immenso, indiscutibile.

I CONTI CHE NON TORNANO

Con tutto l’entusiasmo che ingrossava, a parole, a favore del Piemonte, al punto da fare a gara per correre sotto le sue insegne, Nizza e Savoia, che erano parte  del Piemonte, votarono con percentuali ugualmente bulgare, per abbandonare quella specie di paradiso terrestre e andarsene in Francia.  Vennero vietate le assemblee per discutere l’argomento e si consenti la parola soltanto agli oratori filo-annessionisti. Le forze dell’ordine piemontesi abbandonarono le due regioni assai prima che il voto - si fa per dire - certificasse il cambio di cittadinanza.
Si dovettero registrare  prevaricazioni anche ingiustificate. Il giornale Il Nizzardo denunciò un clima di intimidazione, venne sequestrato e dovette cessare le pubblicazioni.  Si votò il 15 e il l6 aprile a Nizza e il 22 in Savoia.  Circolò una petizione con 13mila firme di cittadini che contestavano il trasloco politico, eppure dalle urne uscirono solo 235 voti contrari e 71 schede nulle.  Nei mesi successivi  10mila persone lasciarono Nizza e Savoia per venire a vivere in Italia.

 (9- Continua)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato  10 ottobre  2009,  pag. 12 - 13.

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