venerdì 23 ottobre 2009
Palermo e Napoli conquistate con il tradimento e l’aiuto mafioso
RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
Grazie alle camicie rosse venne incoraggiata la partecipazione della malavita organizzata, che scese in campo per soccorrere i vincitori e che, per la prima volta, entrò direttamente e per la porta principale nelle istituzioni italiane: insomma, “picciotti” e “capibastone” patrioti...
Dunque, per conquistare il Regno delle Due Sicilie, si poteva contare sull’aiuto “peloso” di Vittorio Emanuele II e Cavour, sul consenso “pratico” dell’intelligence inglese, sul “contributo” della massoneria di Edimburgo e sul tradimento dei vertici militari borbonici: Mancava ancora qualcosa? Venne incoraggiata la partecipazione della mafia che scese in campo per soccorrere i vincitori e che, per la prima volta, entrò di rettamente e per la porta principale nelle istituzioni italiane. Le grandi battaglie di oggi contro la malavita organizzata sono più difficili e più contorte anche perché, 150 anni fa, non si andò troppo per il sottile ad accreditare i banditi, vestendoli con il patriottismo tricolore.
UN ATTACCO SENZA DISCIPLINA
Dopo lo sbarco a Marsala, la prima battaglia combattuta avvenne il 15 maggio 1860. I libri di storia indicano il luogo dello scontro a Calatafimi. In realtà, Calatafimi era abbastanza distante. Senza correre il rischio di apparire pignoli, ma pretendendo qualche precisione e volendo mettersi d’accordo - almeno! - con la carta geografica, lo scontro avvenne a “Pianto Romano”: “Pianto” nel senso che era stata realizzata una piantagione di vite a “Romano”
Garibaldi si alzò di buon mattino per bere il caffé. Le cronache - non si sa quanto compiacenti - registrarono che «fischiettava come un innamorato». Dall’altra parte il generale Francesco Landi, con i suoi settanta anni compiuti, le varici alle gambe, la schiena in subbuglio e i calli ai piedi, non potendo correre il rischio di montare a cavallo, raggiunse in carrozza il luogo destinato al combattimento. Con calma. Aveva impiegato sei giorni per coprire una trentina di chilometri.
Le camicie rosse si lanciarono all’assalto con impeto ed entusiasmo, brandendo quei loro fucili del '48, a pietra focaia, che si inceppavano con una percentuale superiore al 50 per cento. Non sparavano ma erano molto pesanti.
L’attacco avvenne senza ordine ne disciplina - alla garibaldina - sul pendio di nove terrazze che andava scalato per raggiungere i nemici, piazzati lassù, ad aspettarli. I Mille dispersero il loro ardore in quella sgroppata in salita che tagliò loro le gambe e il fiato. Chi riuscì ad arrivare sul colmo della collina, si trovò con la lingua di fuori, penzoloni, le gambe molli e gli occhi che - per la fatica - vedevano doppio. Sentirono la tromba che ordinava la ritirata e convennero - i patrioti - che era meglio così: impossibile continuare nell’assalto. Solo che, in quelle condizioni di spossatezza, non era nemmeno semplice fare dietrofront. Appoggiati alle canne dei loro inutili fucili, i pochi atleti capaci di saltare fin sulla gobba di “Pianto Romano”, tentavano di recuperare il controllo del fiato che pompava nei polmoni in modo anche preoccupante. E si meravigliarono, quando si accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era stato lanciato dallo loro tromba ma da quella borbonica che ordinava ai nemici di tornare indietro. Impossibile?
IL TRADIMENTO PER 14MlLA DUCATI
Si disse che il generale Landi contrattò il suo tradimento per 14mila ducati ma che, alla fine della guerra, non riuscì a intascare il denaro perché il documento di credito era stato falsificato. In banca, davanti al cassiere che glielo comunicava, venne colto da un malore dal quale non si riprese più. Le conseguenze di quell’ictus lo uccisero in poco meno di un anno. I cinque figli, però, non ebbero problemi: entrarono tutti come ufficiali nell’esercito dei Savoia e, per un motivo o per l’altro, riuscirono anche a imbandire una discreta carriera nelle gerarchie militari.
Calatafimi venne presentata come il teatro di un duello collettivo ed epico - quello del “qui si fa l’Italia o si muore” - dando a intendere che si trattò di uno scontro all’ultimo sangue. Si affrontavano non soltanto due eserciti ma due civiltà. Da una parte un mondo ormai superato dalla storia - quello dei Borbone - con uomini in giubba nera, simboli di inefficienze e crudeltà, con la testa rivolta al passato, incapaci di immaginare un futuro di progresso, inefficienti, pigri e persino vigliacchi. Dall’altra parte: il sol dell’avvenire con volontari - in camicia rossa - consapevoli protagonisti del “nuovo” che si presentava all’orizzonte, ricchi di altruismo e di ambizioni coraggiose, con una carica aggiuntiva di romanticismo e di energia, di altruismo e patriottismo, desiderosi di cancellare un’epoca oscurantista per entrare, di slancio, nell’era moderna.
NESSUNA VERA BATTAGLIA
Se così fosse stato, si sarebbe trattato di un conflitto epocale dove ognuno giocava tutto quello che aveva a disposizione e spendeva anche l’ultima goccia del proprio sangue. In realtà, una battaglia vera, degna di questo nome, non venne combattuta e, dunque, non ci fu. Solo l’avanguardia borbonica impegnò i garibaldini e diede loro filo da torcere: ma poi rimasero senza rifornimenti e senza munizioni e dovettero abbandonare le posizioni per raggiungere il grosso delle truppe che se ne stava con le armi al piede ad aspettare un ordine di combattimento che non venne mai lanciato.
I garibaldini fecero una corsa podistica - certo faticosa - ma non si scontrarono per davvero con i contingenti del Borbone.
Infatti, il bilancio dello scontro fu di trenta morti e non tutti per colpa del conflitto. Alessio Maironi, per esempio, aveva una gamba che, colpita di striscio, buttava sangue in modo preoccupante. Un compagno gli schiacciò una moneta di rame sulla ferita per tamponargli l’emorragia ma gli procurò un’ infezione di tetano che lo ammazzò in un amen. Luigi Martignoni, invece, decise di farla finita da solo. Era tormentato da una cancrena che gli faceva patire le pene dell’inferno e che, ormai, lo lasciava in pace soltanto se faceva ricorso a pesanti dosi di oppio. Ottenne che gliene lasciassero usare una quantità sufficiente per addormentarsi una volta per tutte, non risvegliarsi più e finire di tribolare.
In campo avverso le perdite furono «leggermente inferiori». I napoletani «ordinatamente, manovrando con garbo e prudenza, iniziarono a retrocedere: si sganciarono dagli avversari per riprendere la marcia in colonna».
LA MAFIA TIFA PER I "ROSSI"
La recita di “Pianto Romano”, insignificante sul piano strategico, risultò però importante perché consenti a tutti - ma proprio tutti - di comprendere che i giochi erano fatti. Alcuni capi della mala-Sicilia - i mafiosi - osservarono quel primo scontro fra eserciti, tifando per i “rossi” ma senza prendere ancora posizione diretta nella contesa.
Nelle settimane precedenti, erano stati avvicinati da Giovanni Corrao il quale era, contemporaneamente, un patriota e un uomo d’onore, capace di contatti solidissimi con tutti quelli che, in Sicilia, erano in grado di adoperare uno schioppo. Proprio lui era riuscito a convincere “gli amici” e gli amici degli amici che occorreva abbandonare il vecchio regime per facilitare la nascita di quello nuovo.
“Picciotti” e “capibastone” con i loro uomini erano pronti e avevano anche riferimenti organizzativi: Pietro Tondù di Carini doveva occuparsi dei rifornimenti; Giovanni Battista Marinuzzi, pure di Carini, teneva la cassa; Giuseppe Bruno di Belmonte Mezzano aveva l’incarico di assicurare i collegamenti fra i gruppi; Salvatore La Barbera e Salvatore Nicolò Ramacca avevano il compito di gestire l’arsenale
Si mossero in migliaia dai 35 paesi della provincia di Palermo e vennero divisi in squadre di venti uomini ciascuna. Stefano Triolo, “barone” di Sant’Anna, fece per conto suo con 350 armati. Il fratello Giovanni arrivò qualche giorno dopo con altri 250 uomini.
Tutta gente disinvolta. Erano in grado di stare a cavallo senza impaccio, portavano lo schioppo di traverso sulle spalle e, nella cintura dei pantaloni, riuscivano a infilare una quantità di rivoltelle e pugnali. Cesare Abba li descrisse come «montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre e certi occhi che paiono bocche di fucili». Non avevano prestato servizio militare ma avevano frequentato la scuola che insegnava come ammazzare il prossimo. Ognuno aveva conseguito risultati appropriati. Spettatori al primo assalto, si unirono ai garibaldini per soccorre efficacemente i vincitori.
Da quel momento, la strada per la conquista del meridione d’Italia, che già appariva abbastanza comoda, poteva considerarsi del tutto in discesa.
CONQUISTA IN DISCESA
Giovanni Corrao presentò a Garibaldi Turi Miceli, coordinatore dei “picciotti” e capo della mafia di Monreale. Fu lui a trascinare all’assalto di Palermo gli ufficiali dello stato maggiore delle camicie rosse che sembravano titubanti. I Borbonici erano tanti, con armamenti adeguati, dotati di buona organizzazione e protetti da sbarramenti di difesa che sembravano difficili da sbaragliare. Tranquilli - li rincuorò - era tutto a posto. I “nemici” non avevano dato battaglia fino a quel momento e non avrebbero cominciato a combattere allora.
A Palermo furono lasciate incustodite le carceri della Vicaria e 2mila tagliagole si lanciarono in vendette sanguinose
I garibaldini potevano decidere, con calma, quando muoversi. Lo fecero il 27 maggio (1860), di mattina, alle sette. Seguirono i sentieri utilizzati dai contrabbandieri e si trovarono dentro le mura della città.
La difesa era stata affidata al generale Giovanni Lanza. Del suo passato si ricordava soltanto l’episodio di quando precipitò da cavallo, in alta uniforme, durante una parata ufficiale, davanti al suo re, direttamente in una pozzanghera. Tenne 18miIa uomini asserragliati a Palazzo Reale, impedendo loro di partecipare al combattimento. Il generale Cataldo, con 4mila uomini, senza avere ancora sentito l’esplosione di una schioppettata, abbandonò la posizione che gli era stata assegnata e si ritirò più indietro. L’ospedale venne perduto per «viltà del comandante e per il tradimento del cappellano». Lasciarono incustodite le carceri della Vicaria: 2mila tagliagole che erano in prigione per rispondere di delitti anche efferati - arrabbiati e inferociti - uscirono dalle celle e si lanciarono all’inseguimento delle divise borboniche perché massacrando gli uomini, credevano di prendersi una rivincita sui presunti soprusi che la legge aveva inflitto loro.
SI SALVI CHI PUÒ
Si salvi chi può...Masini Chinnici di Misilmeri, “il boia borbonico” che, in passato, non era andato per il sottile con i prigionieri politici, cambiò casacca e cominciò a combattere dall’altra parte con identico impegno e accresciuta determinazione. Anche questo atteggiamento finirà per diventare una costante nei periodi di crisi e di transizione.
Non si riesce a comprendere bene come sia possibile: eppure, a ogni ribaltone politico, una quantità di militanti lascia la prima linea dei gruppi che - si capisce - sono destinati a perdere per acquisire posizioni di rilievo nelle fila di quelli che stanno per vincere. Come facciano a cambiare casacca così lestamente e, soprattutto, com’è possibile che gli altri li accolgano come fossero i salvatori della patria resta un mistero e, tuttavia, è impossibile non registrare che da 150 anni rappresentano una costante che ritrova puntuali conferme.
Nel 1860, le bande garibaldine e mafiose scorrazzarono per la città e i borbonici restarono arroccati, in attesa di non si sa che cosa. Anche a Giuseppe Buttà, fedele duosiciliano, testimone di quegli avvenimenti e divulgatore dei suoi ricordi, risultò impossibile spiegare tutta questa idiozia bellica, senza dar credito alla voce che indicava per ciascuno il prezzo del tradimento.
Certo, non tutti. Qualcuno che voleva combattere per davvero e combattere per vincere c’era anche fra i Barbone. Le camicie rosse non avevano più un colpo da sparare e sarebbero state facilmente sbaragliate. Il generale Colonna e il generale Sury stavano contrattaccando vittoriosamente, ma vennero fermati proprio mentre stavano sfondando i nemici da un lato esterno per prenderli in mezzo e massacrarli sotto un tiro incrociato. Dall’altra parte della città, il maggiore Ferdinando Del Bosco stava impegnando i nemici con successo ma pure lui dovette mettere arma al piede. I capitani Bellocci e Nicoletti fecero una corsa per raggiungerlo e - sudati come non era chic per un ufficiale di rango - gli comunicarono l’ordine di non proseguire. Era stata firmata la tregua e non si poteva più combattere.
I BORBONICI DISERTARONO
Lanza - copiando il compare Landi di “Pianto Romano” - con la guarnigione al completo, chiese agli inglesi di proporre un tregua perché lui, personalmente, era a disagio nel trattare con quel filibustiere di Garibaldi. Gli risposero che, essendo diplomatici in terra straniera: non avevano ne titolo ne autorità per proporsi come mediatori in una contesa di quelle dimensioni. Perciò il super-generale borbonico fu costretto ad arrangiarsi scrivendo personalmente a “Sua Eccellenza il Generale Garibaldi”, tutto in maiuscolo, per segnalare la più prona deferenza.
L’esercito duosiciliano venne imbarcato sulle navi che riportarono i soldati a Napoli. Sulla banchina del porto un esercito in piena efficienza stava abbandonando il campo. Un soldato fece un passo in avanti. «Eccellenza... - richiamò l’attenzione del comandante - vè quanti siamo...?! - E ce ne andiamo via.;.?!». Il generale rispose: «Zitto ubriacone...torna al tuo posto!».
Quando Lanza arrivò a Napoli, il re Borbone gli proibì di sbarcare e pretese che venisse confinato nell’isola di Ischia in attesa del processo della Corte Marziale. In realtà, il processo non ebbe la possibilità di svolgersi è il vecchio generale si consolò; risposandosi, in attesa che finisse tutta quella buriana.
LA FEDELTÀ DEI SOLDATI
I soldati, a differenza degli ufficiali, restarono fedeli al giuramento che avevano fatto al Borbone e non accettarono facilmente di servire, i nuovi padroni. Il giornale francese satirico “Charivari” pubblicò una vignetta nella quale comparivano un soldato borbonico, un sottufficiale e un’ ufficiale. Il primo era stato disegnato con la testa di un leone; il secondo d’asino e il terzo, la testa, non l’aveva proprio ma dalle tasche gli uscivano mazzette di denaro.
Negli alti gradi era un rincorrersi fra chi tradiva, chi dava le dimissioni e chi dava le dimissioni per tradire più in fretta.
I comandanti della flotta cominciarono a consegnarsi ai piemontesi portando in dote i pezzi di nave che comandavano e gli ufficiali portarono i loro soldati ad arrendersi.
A rinforzare la file di Garibaldi arrivarono quasi contemporaneamente, il conte Amilcare Anguisola che comandava la pirofregata a due ruote “Veloce” e la contessa Della Torre, che era stata fra le protagoniste delle Cinque Giornate di Milano, aveva dato il suo contributo nei mesi della Repubblica Romana e, ovviamente, non poteva mancare nel meridione d’Italia. Il capitano consegnò se stesso e la sua nave che venne ribattezzata con il nome di “Luigi Tukoy”, uno dei Mille volontario ungherese morto nel corso di un assalto e perciò promosso al rango di eroe. La nobildonna, invece, stivali speroni e cappello con piuniazzo (come nei film di cappa e spada) prese a frequentare gli accampamenti dei soldati, denunciando i suoi spostamenti con il cigolare della sciabola che teneva appesa al cinturone con un fermaglio evidentemente arrugginito.
Sembrava un’opera buffa ma la Sicilia era perduta e Garibaldi si prese anche la Calabria nel senso che glie la lasciarono prendere.
Il piroscafo “Torino”, agli ordini di Bixio, s’incagliò sulla spiaggia ma nessuno impedì lo sbarco.
L’ammiraglio Salazar che, pure, doveva controllare una porzione di mare relativamente modesta e un tratto di spiaggia ancora più piccolo, riuscì a fare meglio del collega, ammiraglio Acton, a Marsala. Condusse la sua flotta così lontano dalla zona strategica da impedirsi di vedere le camicie rosse.
Garibaldi, sul “Franklin”, attraversò i quindici chilometri dello stretto e approdò a Reggio. Nel suo memoriale scrisse che, «aiuto» che gli era stata assicurato dalle navi borboniche e «la protezione discreta» di quelle inglesi era stato «decisivo». Dietro di lui, Bixio sul “Torino” fece forzare le macchine al massimo della potenza e andò a incagliarsi sulla spiaggia. Non si sa se il timoniere era lo stesso che portò il “Lombardo” nella sabbia di Marsala. La differenza con il primo sbarco consistette nel fatto che, questa volta, nessuno si accorse di centinaia di uomini obbligati ad arrancare un paio d’ore a mollo per togliersi da un bastimento inclinato sul fianco di trenta gradi.
LE POSIZIONI ABBANDONATE
Fu l’unica fatica imprevista che dovettero affrontare. Guadagnata la terraferma, ebbero il solo problema di marciare in avanti. Da soli, i nemici si toglievano di torno per non dare fastidio.
Il generale Alessandro Nunziante rinunciò all’incarico di comandante, lo scrisse al re Borbone e si ritirò dalla guerra per partecipare ai pranzi organizzati dagli inviati del conte di Cavour.
Il generale Gullotti, prima ancora che i nemici comparissero da lontano, aveva già telegrafato, de scrivendo la sua situazione come «disperata». Peggio: «Senza pronto intervento, qui, vi è poco da sperare».
Il generale Melendez si fece circondare a bella posta e si arrese con 3mila uomini davanti a una squadra di garibaldini che non sapevano come fare per custodire, da soli, tutta quella gente.
Si arrese anche il generale Briganti che però pagò cara la sua decisione. A cavallo, in borghese, si imbatté in un gruppo di reduci borbonici che lo riconobbero e lo investirono di improperi. Cominciò uno: «Traditore-e!» e tutti gli altri lo seguirono: «Tra-di-tore...tra-di-to-re...». Una fucilata lo abbatté e i soldati, rabbiosi per l’umiliazione di ritirarsi senza combattere, lo spogliarono, trascinarono il cadavere per strada e lo fecero a brandelli.
II generale Ghio firmò la rinuncia al comando ma, siccome non venne sostituito prontamente, si consegnò con tutti gli uomini del reparto al garibaldino Cosenz.
Chi non accettò il nuovo corso prese la strada di Gaeta da dove pensava di difendere un principio e un ideale, prima ancora che un regno. Gli altri si attrezzarono per approfIttare del nuovo corso.
L’eroe dei due mondi (con le camicie rosse) si avviò a passo spedito verso Napoli dove il ministro dell’interno borbonico Liborio Romano si apprestava ad assumere l’incarico di ministro dell’interno sabaudo-garibaldino. Ovviamente, il passaggio di consegne fra se e se e la gestione del nuovo corso richiedevano una quantità di spregiudicatezza e di cinismo che, non mancarono. Per essere certo di sottrarre Napoli al controllo del legittimo re e consegnarla nelle mani di un altro venuto dal Nord, si fece aiutare dagli uomini “di rispetto” .
L’OSTERIA DEI BRIGANTI
Si trattava dei gentiluomini abituati a frequentare la bettola di Marianna De Crescenzo che tutti conoscevano come la “sangiovannara” perché era nata a San Giovanni a Teduccio sulla via di Portici. Quell’osteria, fino a poche settimane prima, era l'indirizzo della criminalità meglio organizzata e meno accomodante ma, in poco tempo, riuscì a trasformarsi nel covo dei patrioti più accesi. Marianna, ingioiellata e inghirlandata come un albero di Natale, attese Garibaldi in prima fila. Con lei Rosa “la pazza” (che doveva essere capace di qualche stranezza), Luisella “lun’a giorno” (perché incontrava i clienti in una stanza dove le candele stavano sempre accese) e Nannarella “quattro rane” (perché con pochi soldi - quattro per l’appunto - accontentava cittadini e forestieri).
Attorno a loro, personaggi già di per se appariscenti, parenti e famigli con la faccia sfregiata ma con la mano lesta.
I Mille si erano alleati con la mafia in Sicilia? E con la camorra a Napoli!
Garibaldi, cui tributavano il titolo di “invitto”, sfilava in città su una carrozza che ospitava anche Demetrio Salazaro, il frate francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e il conte Giuseppe Riccardi.
La “onorata società” sistemò i suoi uomini tutt’intorno per assicurare il servizio d’ordine. In vista Michele “o chiazziere” che, normalmente, si preoccupava di ritirare le tangenti degli ambulanti che piazzavano il banchetto delle loro mercanzie. Sull’altro lato, “o schiavutiello” che sembrava un saraceno. In mezzo, Salvatore, fratello di Marianna, “Tore e Crescenzo”. Ognuno con una fitta corte di uomini fidati, schierati in modo da assicurare ordine e protezione. Nella cintola, il pugnale che era servito per scannare cristiani e rapinarli di quello che avevano: la fascia tricolore annodata sul braccio e la coccarda appuntata sulla giubba.
Guardiani della malavita, padrini dell’Unità d’Italia.
(11 bis - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di mercoledì 21 ottobre 2009, pag. 12 - 13 -14.
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