mercoledì 28 ottobre 2009
Quel parlamento antidemocratico rifiutato solo da Carlo Cattaneo
RISORGIMENTO. L'ALTRA VERITA'
Quando si votò per le elezioni della prima Camera del regno d’Italia andò alle urne solo lo 0,9 per cento della popolazione. In più, il Governo intervenne a sostegno dei propri candidati. Vennero cosi marginalizzati gli uomini della sinistra, i clericali e i sostenitori delle vecchie dinastie.
Il Mezzogiorno era una terra a rischio per i moderati filo-sabaudi e non solo perché era stata conquistata troppo di recente ma, piuttosto perché i nuovi padroni, visti all’opera, erano riusciti in pochissimi giorni a far rimpiangere i vecchi. C’era da chiedersi: meglio quando si stava peggio?
La politica aveva bisogno di sancire l’avvenuta Unità d’Italia sotto il segno dei Savoia. Dunque, occorrevano elezioni su scala nazionale e un Parlamento che rappresentasse tutte le regioni della corona.
Con buon anticipo, Cavour scrisse all’allora ministro della Giustizia, Battista Cassinis, per incoraggiarlo «a fare ogni sforzo onde si acceleri la costituzione delle circoscrizioni elettorali». Con quale obiettivo? «Vedendo modo di darei il minor numero possibile di deputati napoletani». Il conte Camillo non lesinò spiegazioni «Non conviene nasconderci che avremo in Parlamento a lottare contro una formidabile opposizione e che dalla nostra forza relativa dipende la salute d’Italia». I pionieri della patria, perciò, divisero le province in modo da ricavare una mappa dei collegi sulla base di criteri esclusivamente partigiani e clientelari.
UNA SUDDIVISIONE TRUFFALDINA
Oggi, con il senno di poi, alcune forzature geografiche che vennero attuate appaiono una truffa, ma già allora non passarono inosservate. Il quotidiano Il popolo d’Italia riferì con accenti indignati il caso di Piedimonte d’Alife «che comprende Venafro, Castellone e Capriati». Dove stava il problema? «Piedimonte, fatto centro del collegio, è distante da Castellone più di 50 miglia mentre dal lato settentrionale, orientale e a mezodì, si disgiungono da Piedimonte paesi lontani cinque o sei miglia, forniti di strade». Il fatto è che, per ottenere un risultato favorevole al Governo, era necessario escludere gruppi di elettori che, votando per il candidato dell’opposizione, lo avrebbero fatto prevalere. Meglio dunque, accorparli a un altro collegio dove la loro preferenza non sarebbe risultata decisiva.
La storia della campagna elettorale fu un susseguirsi di piccoli e, grandi oltraggi al sistema democratico. Al Nord i candidati erano già ampiamente collaudati. Al Sud, dove non esisteva un vero e proprio partito filo-governativo, si mise insieme un’improvvisata schiera di pretendenti deputati, raccogliticci ed eterogenei finché si vuole, ma agguerriti quanto a volontà di riuscire a ogni costo.
QUEGLI ESULI SENZA PIÙ RADICI
In, Sicilia, in Calabria, in Campania, vennero presentati dei meridionali che erano nati laggiù ma che presto avevano fatto le valigie per trasferirsi a Torino o Milano. Esuli da vent’anni e più, avevano smarrito le radici della loro terra o le avevano largamente annacquate con usanze - anche culturali - apprese nei paesi d’adozione. E quelli indiscutibilmente locali erano i don Sedàra di Tomasi di Lampedusa il cui cinismo è facilmente riassunto nella famosa sentenza: «Cambiare tutto perché non cambi niente».
Marco Minghetti, ministro degli Interni, contribuì all’organizzazione delle elezioni firmando una disposizione perentoria secondo la quale «la pubblica amministrazione non doveva astenersi dall’indicare il candidato più idoneo al servire la causa nazionale, qualora si fossero proposti due o più candidati».
Le proteste della stampa furono inutili. «Difficile trovarsi un collegio con candidato unico - notò ancora Il popolo d’Italia - quindi siffatto proclama universale garantisce l’ingerirsi dell’autorità nelle elezioni. Questa circolare è figlia del sistema napoleonico di Francia ove le elezioni sono affare esclusivo dei prefetti».
Chi non stava con la maggioranza se la doveva vedere con collegi costruiti apposta per danneggiarlo, con l’organizzazione governativa che gli dava addosso e con l’amministrazione che si spendeva per la campagna elettorale dell’avversario. Solo contro tutti. Come avrebbe potuto spuntarla?
ALLE URNE LO 0,9 PER CENTO
Si presentò alle urne lo 0,9 per cento della popolazione. Ogni scheda depositata nell’urna valeva per 107,5 abitanti. Un ex ministro di Cavour, Stefano Iacini, lombardo, proprietario terriero, studente a Milano, a Vienna, a Berna e a Pavia, riflettè amaramente sui numeri e sulle statistiche. «Al sistema di Governo - scrisse - non parteciparono più di 220mila persone». Per i plebisciti di pochissime settimane prima, il suffragio universale apparve sacrosanto e, addirittura, doveroso. Per indicare i deputati, però, era meglio tornare a far valere il censo, l’alfabetismo, l’affidabilità politica, l’amicizia e il tornaconto.
Si votò con il sistema del ballottaggio il 27 gennaio e il 3 febbraio 1861. Il partito di Governo registrò un trionfo sopra le righe. Il “tessitore” Cavour riuscì a sistemare tutti i suoi uomini e a garantirsi una maggioranza blindata.
Il Mezzogiorno era una terra a rischio pero i moderati, non tanto e non solo perché era stata conquistata troppo di recente ma piuttosto perché i nuovi padroni, visti all’opera, erano riusciti, in pochissimi giorni, a far rimpiangere i vecchi. Meglio quando si stava peggio?
Tuttavia su 144 parlamentari espressi dalle urne, solo 27 potevano essere collocati nell’area dell’opposizione e di quelli si trovò il modo di lasciarne a casa qualcuno. Come il siciliano Gregorio Ugdulena, personaggio un po’ bizzarro che riusciva a essere prete, liberale, un po’ garibaldino ma che godeva dell’affetto della gente. Per lui - più propriamente, contro di lui - venne rispolverata una vecchia legge piemontese che impediva ai religiosi l’accesso alle cariche dello Stato con la conseguenza che fu fatto decadere. Anche se nel Parlamento stava una dozzina di altri sacerdoti ma, essendo filo - governativi, restarono alloro posto.
L’OPPOSIZIONE MANDATA KO
Vito Di Nardo, scrivendo il suo “Oh, mia patria”, rilevò che Cavour era stato il vincitore assoluto, avendo lasciato a terra per ko tutti gli avversari per blandi che fossero: uomini della sinistra, clericali e nostalgici delle vecchie dinastie. Un risultato del genere pesò per lungo tempo. La sinistra impiegò sedici anni per rialzare appena la testa. I cattolici agitata la bandiera dell’astensione, dovettero aspettare don Sturzo per farsi sentire e rientrare nel gioco della politica. I nostalgici sparirono definitivamente dalla vita politica e non ebbero nemmeno “il diritto di tribuna” per fare sapere che cosa pensassero.
I deputati della prima legislatura del Regno d’Italia si incontrarono per la prima seduta del Parlamento il 14 marzo 1861. Certo, a guardarli da vicino, i cosiddetti rappresentanti del popolo risultarono inadeguati alle speranze del paese. Incominciarono a discutere sulla questione se i militari eletti potevano presentarsi in Parlamento in divisa. Problema, a tutti prima irrilevante, che venne preso molto sul serio dagli interessati. Il dibattito fu lungo ed ebbe anche momenti aspri. L’uniforme non poteva essere indossata «senza gli strumenti che la giustificavano». cioè la spada. Ma la Camera doveva restare un luogo di libero confronto di idee e non avrebbe dovuto accogliere uomini armati. Solo alla fine si potè decidere che quello borghese era l’abito dei deputati.
Poi si ragionò sulla indennità di caricà. Minghetti decise e comunicò l’esito ai giornali che non ci sarebbe stata alcune retribuzione, nemmeno sotto forma di rimborso spese. «Lo statuto lo esclude - tagliò corto - altrimenti il regime parlamentare si incamminerebbe per una pessima via». Anzi: i deputati e i senatori che, dalla loro attività professionale, ricavavano «motivo di lucro» per servizi resi allo Stato, erano invitati a dimettersi o a rinunciare ai lavori che provocavano conflitti di interesse. Si trovarono tutti d’accordo nell’enfatizzare quanto quella decisione fosse stata giusta: chi ciondolando vistosamente il capo per confermare un “sì” davvero condiviso e chi con espressioni del volto molto serio se per dare a intendere che a una questione fondamentale era stata offerta una soluzione adeguata.
INCARICHI EXTRA PARLAMENTARI
In realtà, Francesco Crispi continuò a presentare le sue consulenze legali ai banchieri della Weill-Schott di Milano e Firenze anche quando tentarono di comperare i monopoli statali italiani del tabacco. E, per andare in pareggio con i “conflitti di interesse”, un Weill-Schott - Cimone - firmava i commenti economici (che interessavano a lui e alla sua compagnia) sul giornale crispino La riforma.
Nino Bixio, generale e deputato, non lasciò la poltrona nel consiglio di amministrazione del Credito Immobiliare e non si sentì in imbarazzo al momento di ritirare i dividendi, anche se l’istituto aveva ottenuto appalti per costruzioni statali.
Gustavo Cavour, fratello del Presidente del Consiglio, era uno dei maggiori azionisti della Cassa di Sconto che, con capitali inglesi, si accaparrò i lavori del canale che doveva portare acqua nella bassa novarese e in Lomellina per irrigare le risaie, e che, non a caso, venne indicato anche sui mappali come “canale Cavour”. I Cavour erano considerati «abilissimi nel fare quattrini».
L’onesto Bettino Ricasoli si fece pagare 80 lire per lasciare passare la ferrovia in un suo bosco e dare la firma per la concessione.
Ferdinando Petruccelli della Gattina, lingua e penna velenosa, se ne rese conto con tempestiva lucidità. «La Camera italiana - scrisse per La presse di Parigi - si compone di 433 deputati. A parte 7 dimissionari e 5 morti che, beninteso, non contano più, ci sono 2 principi, 3 duchi, 29 conti, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori, 117 cavalieri dei quali 3 della Legion d’onore. Poi: 135 avvocati, 25 medici, 21 ingegneri, 10 preti fra cui Apollo Sanguineti uno dei più ostinati seccatori del primo ministro, mentre Ippolito Amicarelli e Flaminio Valente sono sacerdoti silenziosi. Inoltre: 4 ammiragli, 23 generali, 13 magistrati, 52 professori o ex professori o che si danno come tali».
IL GRAN RIFIUTO DI CATTANEO
Non è finita. «C’è un Bey dell’Impero Ottomano, l’onorevole Patemostro, 2 ex dittatori, 2 ex pro-dittatori, 19 ex ministri, 6 o 7 milionari, 25 nobili senza titolo, 4 soli letterati e Verdi, il maestro Verdi».
Mancava Carlo Cattaneo che, il Parlamento, preferì «farselo da solo, a casa sua», in polemica con l’Italia sabauda che andava prendendo corpo su modelli centralistici e autoritari. Venne eletto per tre volte e per tre volte rifiutò di giurare fedeltà ai Savoia. Anzi, si consenti giudizi sprezzanti contro “il servitorame” di Torino «come se avessimo combattuto non per avere più libertà ma discendere più in basso nel regime della servitù».
Petruccelli della Gattina si considerava parte dell’opposizione e non tollerava gli inutili riti della retorica parlamentare. “I rappresentanti del suo popolo si gonfiavano di saccenza e di altruismo per decidere democraticamente soluzioni tiranniche”. «Abbiano notizia di 6 balbuzienti, 5 sordi, 3 zoppi, un gobbo, molti con gli occhiali e moltissimi calvi ma neanche un muto!».
Parlavano proprio tutti e non lesinavano sulle parole.
La sua satira gli procurò qualche, guaio. Agostino Depretis lo sfidò a duello e solo in extremis fu possibile evitare lo scontro. Dovette, invece, incrociare la lama con Giovanni Nicotera e fini con uno ferito al viso e l’altro colpito alla mano destra.
Nella maggioranza le differenze ideologiche erano vistose e, se possibile, accentuate dall’incompatibilità di carattere.
Ricasoli e Spaventa erano dei centralizzatori, Farini e Minghetti chiedevano poteri per le province. Quintino Sella propugnava il controllo dello Stato sulla Chiesa. Giovanni Lanza auspicava “la libera Chiesa in libero Stato”. Mancini era anticlericale e basta.
LA “ZATTERA DELLA MEDUSA”
I deputati, eletti nei collegi dell’ex regno delle due Sicilie, si collocavano in prevalenza nel c’entro dello schieramento parlamentare. Il centro? Per Petruccelli della Gattina era «la zattera della Medusa»: il posto dove «tutti i naufraghi sono aggrappati, tutti i superstiti, tutti gli sbandati». Il “centro” aveva va preso le forme «di una specie di ospizio degli in validi per chi non ha più forze, ma, non per questo, resta senza speranze».
Anche la sinistra pur ridotta ai minimi termini, sembrava un arcipelago di anime in pena e contava «mazziniani e garibaldini, autonomisti e federalisti, oltremontani e liberi, dipendenti e indipendentisti» Avevano un loro peso «i misteriosi e gli indecisi, gli imbronciati e gli smarriti, gli scettici, i dottrinari, i pretendenti, gli esploratori in campo nemico e gli uccelli di passaggio».
Gli uccelli di passaggio era la definizione che riguardava «alcuni dell’estrema sinistra che, risoluti di passare con la destra, si sono - come dire? - arrestati a mezzo sui banchi della sinistra». Qualche nome? «Chiaves e Gallenca, quantunque il secondo abbia già fatto un passo avanti e ora segga al centro».
Gli scritti di Petruccelli della Gattina vennero pubblicati in un libro significativamente intitolato “ I moribondi di palazzo Carignano”.
Torino appariva l’unica città ringalluzzita dall’unità: il resto del Nord era avvilito, il Sud violento
Il Parlamento di fresca nomina, che avrebbe dovuto trovare in se stesso gli entusiasmi per rinnovare la società italiana, si presentava decrepito negli atteggiamenti, ancor prima di mettersi all’opera. Il nuovo Stato sembrava incamminarsi verso il futuro più per forza d’inerzia che per convinzione.
Torino appariva l’unica città ringalluzzita dopo il Risorgimento e si preparò ad accogliere i deputati nazionali, riverniciando di fresco i palazzi. Le zone di Vanchiglia e lungo il Po erano diventate un immenso cantiere edile in vista dei futuri insediamenti. Il rione di San Salvario stava attrezzandosi per diventarne il centro nevralgico.
Il sindaco Nomis di Cassilla dovette pubblicare una delibera per impedire ai negozianti di pulire il marciapiede davanti le loro botteghe usando secchiellate d’acqua. Il selciato diventava sdrucciolevole come una pista di pattinaggio e troppa gente si era già rovinata le gambe. Quasi contemporaneamente, fu bandito il concorso per l’assunzione di un gruppo di vigili urbani: i candidati dovevano essere alti almeno un metro e 60, avere un’età fra i 25' e i 36 anni e conoscere la grammatica.
I MALFATTORI DI TORINO
Il centro della città restava addobbato con grandi stendardi, archi di trionfo, bandiere. Davanti alla stazione di Porta Nuova venne sistemato un giardino con immense aiuole di fiori. In mezzo una fontana preparata dalla “Società delle Acque Potabili” che era stata da poco fondata.
La borghesia comprava pianoforti per accondiscendere a una moda improvvisa e, naturalmente, d’importazione. Lo stile dei mobili era il rococò. Le signore usavano la cipria al profumo di violetta o di paciulì.
L’unico inconveniente era che troppa gente, non sempre per bene, arrivava in città. C’era chi approfittava di una distrazione per sfilare il portafoglio dalle tasche dei distratti. «L’ardire dei mariuoli arrivò al punto di tentare di derubare due poliziotti».
Torino, da capoluogo anonimo di una regione decentrata, era stata promossa a capitale nazionale: se ne sentiva degna. Ma il resto d’Italia sembrava deluso. Il Nord più avvilito che rabbioso. Il Sud più violento che smarrito.
I milanesi protestavano per le nuove tasse che dovevano pagare e si lamentavano che l’amministrazione austriaca - efficiente per definizione - fosse stata sostituita da quella sabauda che, movendosi a spanne girava a vuoto senza essere in grado di rispondere alle esigenze della gente. I telegrammi impiegavano dieci giorni per giungere a destinazione e, in quel febbraio 1861, non erano stati ancora onorati gli stipendi del mese prima. Era stata fatta tutta questa rivoluzione per sostituire Vienna con Torino? Via gli Asburgo per vedersi governare dai Savoia?
«A ogni nostra osservazione - fu il rilevo del giornale La Perseveranza - viene in risposta un rimprovero: siete municipalisti, siete lombardi, siete fanciulli impauriti dallo spettro del piemontesismo. Noi lamentiamo il disordine nelle aziende pubbliche, la perdita di alcune istituzioni rese un tempo floride per matura esperienza, la precipitosa applicazione di leggi non consigliate dalla necessità. Che dicono? Siete lombardi, municipali, politici di campanile».
LOMBARDIA PENALIZZATA
Impossibile - secondo il quotidiano - contestare che le assunzioni venissero decise soltanto su raccomandazione piemontese e non per pubblico concorso. Vietato evidenziare l’errore di trasferire a Torino la direzione delle ferrovie Lombarde. Inutile e per certi versi, pericoloso sostenere che solo nella capitale si potesse decidere sull’idoneità degli insegnanti di francese.
In Lombardia i giornali lamentavano un nuovo pesante carico fiscale e l’ncapacità dei burocrati a soddisfare i cittadini
Il Pungolo giornale del pomeriggio, senza peli sulla lingua, volle sottolineare le incongruenze della riforma sulla giustizia. «Torino ha posto mano al sistema sconnettendolo. Ha alterato l’economia dell’insieme è ci permettiamo di aggiungere: inconsultamente!».
I nobili che prima avevano un ruolo di rilievo nella società si sentivano messi da parte dai “parvenus” piemontesi. I borghesi storcevano il naso perché il cambio della moneta li penalizzava. I lavoratori avevano da faticare dalle 10 alle 14 ore in officina per non ricavare nemmeno i soldi dell’affitto. In compenso, al Monte di Pietà, dovettero rinforzare l’organico assumendo nuovo personale per fare fronte alle 136mila operazioni l’anno. I progressisti, lombardi erano soliti scherzare: «Semm sota i tudosch» per criticare un giogo politico e amministrativo che li soffocava. A
indipendenza ottenuta, cominciarono a sussurrare: "Semm sota i piemuntes», per dire che non era cambiato nulla e che, semmai la illiberalità, rimasta intatta, sembrava anche più fastidiosa per l’illusione, inutilmente coltivata, di affrancarsi sul serio.
(12 bis - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì 27 ottobre 2009, pag. 12 - 13 -14.
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