domenica 25 ottobre 2009

Quella tangente di Mazzini inaugura il malcostume di una Italia disonesta






RISORGIMENTO.   L’ALTRA VERITA’


La sollecitazione del maestro del “pensiero e azione” si riferiva agli interessi di Adriano Lemmi, che partecipava alle manovre per l’assegnazione dello sviluppo delle ferrovie del Sud e servi per finanziare “Il popolo d'Italia”, un giornale napoletano di tendenza filo-repubblicana.



«lo soltanto vi dico che mentre altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua».  Nero su bianco, scritto su lettera intestata e autografato con la firma di Giuseppe Mazzini il quale, ricercato dalla polizia come rivoluzionario  aveva difficoltà a partecipare personalmente alle riunioni ma poteva “indirizzare” la discussione affidandosi a una quantità di amici che non gli mancavano.  Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi erano i destinatari e si affrettarono ad accontentare l’amico in esilio.

Difficile sostenere con certezza che questa fu la prima tangente dell’Italia finalmente unita. Allora -come oggi - la corruzione non veniva certificata con timbri e marche da bollo.  Tuttavia, in questo caso, il documento c’è ed è inequivoco. Accettando qualche margine di approssimazione, non è impossibile sostenere che gli affari sporchi sono cominciati con quella lettera di raccomandazione.

I FINANZIERI D’ASSALTO

I militari stavano ancora concludendo l’occupazione del Sud Italia, sventrando a cannonate le residue resistenze borboniche, e i finanzieri d’assalto già si preoccupavano dei guadagni della “ricostruzione”.

Le nuove lire del Regno cominciavano a circolare ed era necessario darsi da fare per incrementare il proprio patrimonio personale.  La nuova classe dirigente non era stata educata agli scrupoli  di coscienza.

Dunque, si trattava di realizzare un progetto di ferrovia.  Il nuovo paese, così allungato per un migliaio di chilometri, aveva urgenti necessità di collegamenti che, all’epoca, potevano essere assicurati soltanto dal treno.

Gli storici dedicarono al problema poche riflessioni. E quelle poche furono utilizzate, soprattutto, per sbeffeggiare i Borbone. Il Governo del Regno delle Due Sicilie, nell 1839, aveva inaugurato l’era della locomotiva facendo costruire - novità assoluta - il tratto ferroviario fra Napoli e Portici: ma i commentatori presentarono l’evento come se si fosse trattato di una specie di Luna Park principesco.  E, infatti, chi con maggiore, chi con minore ironia, evidenziarono il divertimento della famiglia reale che scorrazzava, in treno, sulle rotaie. Al contrario, Cavour, lungimirante come sempre, aveva investito una percentuale consistente del bilancio dello Stato per dotare il Piemonte di una efficiente rete ferroviaria, utile, soprattutto, per il trasporto delle merci.

LE DUE DORSALI FERROVIARIE

In  realtà, i treni, in Settentrione, correvano soprattutto per iniziativa dei governi austriaci mentre il Sud stava realizzando il progetto per la creazione di due dorsali: una, partendo da Brindisi, sarebbe arrivata a Pescara per spingersi verso Ancona e Bologna, mentre l’altra dalla Calabria avrebbe dovuto raggiungere Roma e, seguendo la costa tirrenica, Genova e Torino. Alcuni tratti erano già stati realizzati e alcune città già in collegamento fra loro: Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Capua,  Sparanise. Si poteva arrivare fino a Salerno e Caserta. Tuttavia, procedendo con quel ritmo, si sarebbe impiegato troppo tempo. Per questo i Borbone lanciarono un bando internazionale per affidare i lavori alle imprese più attrezzate e assicurarsi un risultato più rapido. Prima dell’invasione dei garibaldini, gli appalti erano stati assegnati a una famiglia di banchieri francesi, i Talabot, i quali avevano trasmesso i piani definitivi per l’intervento e comunicato di essere nelle condizioni di avviare la realizzazione degli impianti.  La guerra impedì che si entrasse nella fase esecutiva con quei progetti e quelle soluzioni ma il problema delle ferrovie doveva essere risolto.

L’affare delle strade ferrate faceva gola a molti banchieri e imprenditori, non solo italiani: un’offerta in proposito giunse anche dal ricchissimo James  Rothschild

Si trattava di un impegno colossale che, tradotto in moneta, significava una montagna di denaro da spendere e da guadagnare.

Il più lesto di tutti fu il banchiere toscano Augusto Adami che chiese udienza al generale Garibaldi (appena entrato a Napoli con le camicie rosse e con la camorra). Vantò i finanziamenti che aveva assicurato all’impresa dei Mille e, con quel titolo di credito, passò subito all'incasso, accaparrandosi l’incarico di costruire le strade ferrate.

Analoghi interessi coltivava anche Adriano Lemmi, ma pensava di raggiungere l’obiettivo attraverso l’amicizia di Francesco Crispi, egualmente potente ed egualmente amico. Dovette fare la  consueta anticamera davanti alla porta del suo ufficio ma, quando gli riuscì di incontrarlo a quattr’occhi, non ebbe tentennamenti ne reticenze. Rivendicò che il nuovo Governo - ancorché provvisorio - doveva affidare a lui lo sviluppo dei treni del Sud.  Non gli mancavano gli argomenti per convincere gli amici. Aveva in tasca una lettera di accredito che, da sola, valeva un tesoro. Giuseppe Mazzini, l’asceta incorruttibile - tutto casa, massoneria e agitazioni da provocare per tutta la Giovane Europa - gli aveva affidato un messaggio importante.

LA RACCOMDAZIONE DELL’  “APOSTOLO”

«Fratello - scriveva l’apostolo tricolore - il portatore della presente, Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico da vent’anni e fece considerevoli sacrifici per la Causa».  Causa con la “C”  maiuscola per nobilitare con un fine ideale la volgarità che doveva patrocinare. «Ei viene per trattare cosa importante concernente la concessione fatta di recente all’Adami per le vie ferrate. Uditelo, vi prego,  spiegherà, egli, ogni cosa».    Ed  ecco le poche righe vergate a  mano con calligrafia spigolosa che, senza giri di parole e, anzi  con una schiettezza persino ingenua, proposero il patto scellerato fra politica ed economia. «lo soltanto vi dico che dove altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua».  Cassa con la “C” maiuscola per conferire dignità al «finanziamento illecito»  sotto il peso del quale precipitarono tutti i partiti della prima Repubblica.

In quel 1860 non c’era problema. Come ignorare un appello del maestro del “pensiero e azione”?

In poche ore Garibaldi e Crispi si incontrarono e decisero con la rapidità dei generali in assetto di guerra. Non si conoscono i dettagli della discussione ne l’ardore con cui sostennero le ragioni delle rispettive clientele. Il risultato, però, fu equo: metà per Adami e metà per Lemmi.  Del resto, i due erano anche cognati e, in passato, non avevano avuto problemi per accordarsi in società.

TANGENTE PER UN GIORNALE

La tangente, almeno in parte, fu anticipata e servì per finanziare “Il popolo d’Italia”, un giornale da stampare a Napoli che si segnalò per la sua impronta filo-repubblicana ma senza i toni esasperati della polemica contro la monarchia regnante.

Il progetto per le nuove ferrovie comportava un impegno finanziario di tutto rispetto. Era necessario tracciare un reticolato di 6mila chilometri di rotaie. Si dovevano sborsare 210 milioni di lire per l’acquisto dei terreni, la sistemazione della base stradale e gli impianti fissi.  Altri 30 milioni sarebbero stati utilizzati per il materiale mobile, le stazioni e i caselli.  Poi il personale dirigente, gli operai, i manovali, i tecnici e gli ingegneri. In tutto si trattava di un bilancio prossimo al miliardo e mezzo: valuta 1861.  Per realizzare l’impresa, occorrevano cantieri e strutture che i due banchieri, in società, non possedevano e che non riuscirono a procurarsi. L’accoppiata toscana, alla fine, fu costretta a rinunciare all’incarico. La nuova Italia consumò qualche milione in consulenze e sopralluoghi, anticipi e preventivi, rilievi topografici e analisi geologiche ma non si arricchì nemmeno di un metro di strada ferrata.   Che fare?  Il Governo, utilizzando il viatico delle scuse postume e la diplomazia delle mille promesse, tentò di recuperare i francesi Talabot che, però, non accettarono di rientrare nel gioco.

L’OFFERTA DI ROTHSCHILD

La soluzione sembrò a portata di mano quando, nella primavera del 1862, i responsabili dei lavori Pubblici ricevettero un’offerta per le concessioni delle ferrovie del Sud.  Interessavano a James Rothschild, uno degli uomini più ricchi al mondo, rampollo di una famiglia che, da generazioni. faceva parte dell’Alta Società, al di qua e al di là degli Oceani.  La proposta sembrava vantaggiosa e,  dopo tutto il tempo perduto, non sembrava il caso di aggiungere ulteriori ritardi.

Fu il toscano Pietro Bastogi ad assicurarsi la concessione ferroviaria con la creazione di una società dal capitale di 100 milioni

La proposta avrebbe dovuto essere illustrata in Parlamento per l’approvazione definitiva ma all’ultimo momento venne tolta dall’ordine del giorno e venne accantonata senza spiegazioni.

Che cos’era successo?  Che c’erano in ballo cifre rilevanti che lasciavano immaginare guadagni superbi.  Perché favorire un capitalista straniero?

Ci pensò Pietro Bastogi, imprenditore di fiuto. In una manciata di giorni, senza andare troppo per il sottile con il  “conflitto di interessi”,  riuscì a costituire una società che potesse proporsi per la realizzazione delle ferrovie meridionali.  Venne depositato un capitale di 100 milioni che, in ultima analisi, vennero coperti dalle tasse degli italiani.  Quanto ai progetti veri e propri si pensò di procedere con il sistema del subappalto da dividere in tre gruppi:  il Credito Mobiliare, i signori Brassery e un manipolo di imprenditori lombardi riuniti in una specie di cooperativa.  Bastogi avrebbe ottenuto 210.000 lire per chilometro come previsto dai capitolati d’appalto ma ne avrebbe pagate soltanto 198mila. L’utile doveva essere diviso in due parti: metà a Bastogi e l’altra metà da utilizzare fra i subappaltatori e tutto quel groviglio di interessi che gravitava intorno. In fondo, si trattava di un’idea da nulla ma chi la inventò fu in grado di guadagnare senza fatica e di assicurare un reddito a tutti coloro che svolgevano le opere del tutto parassitarie della mediazione.

I Bastogi, una famiglia di commercianti originari di Civitavecchia ma trapiantati da tempo a Livorno,  iscritti d’ufficio negli albi della nobiltà a diciotto carati, erano quelli che, senza rischiare nulla, avrebbero ottenuto i maggiori vantaggi.  Anche in passato, proprio l’opportunismo aveva consentito loro di accumulare ricchezze, facendoli traghettare, indenni, fra i ribaltoni della politica.

PIETRO BASTOGI DOPPIOGIOCHISTA

Un esempio soltanto. Al momento della costituzione dello Stato italiano, proprio a Pietro Bastogi venne affidato il dicastero  delle Finanze.  Svolgendo quell’incarico dovette predisporre il “Gran Libro del debito pubblico” nel quale confluirono tutte le voci in passivo dei bilanci dei vari regni prima dell’unificazione. Nel documento comparvero anche gli obblighi contratti dall’ex Granduca di Toscana e, fra tante  cifre di debiti, anche un prestito contratto per finanziare la repressione dei moti carbonari e patrioti del 1849.   I quattrini gli erano venuti proprio dai Bastogi che avevano garantito il prestito con le loro fideiussioni.

Come non rilevare la spaventosa contraddizione del nuovo Stato?  L’Italia, frutto di una rivoluzione, accettava di rimborsare una cospicua somma di denaro che era stata utilizzata proprio per contrastare i primi sussulti di quel processo innovatore.

Come non sottolineare la disinvoltura dell’intellighenzia politica di allora?  Il Bastogi, uomo di Governo, firmò gli atti che assicurarono al Bastogi, finanziatore della repressione, di recuperare il denaro che aveva speso in attività anti-governativa.

Due deputati Francesco Guerrazzi e Nino Bixio - si opposero al riconoscimento, trascinarono al voto contrario tutti i colleghi della Sinistra radicale del tempo ma restarono in minoranza perché gli uomini della Destra, largamente più numerosi, si espressero favorevolmente. Certo, Bastogi non fece bella figura e quando, alla morte di Cavour (1861), si trattò di realizzare un rimpasto di Governo, si trovò senza ministero.

Questi episodi, avvenuti nell’arco di pochi mesi, avrebbero dovuto produrre qualche sospetto sulla trasparenza delle operazioni che portavano alla costituzione di una società per i lavori nel Meridione d’Italia.  Ma la politica dimentica in fretta. Il Parlamento, senza troppo cavillarci sopra, e anzi con valutazioni di genuino entusiasmo, approvò la proposta del banchiere di Livorno. Non si preoccuparono nemmeno di salvare le apparenze.  Nessuno volle notare che, nell’elenco dei sottoscrittori, c’erano ripetizioni e una quantità di imprecisioni tali da meritare almeno qualche riflessione sulla precipitazione con cui era stata concepita l’impresa. Non vennero fatte obiezioni tecniche ne si pretese correttezza nelle procedure.  Non si accorsero (o probabilmente non si ritenne utile eccepire)  che il domicilio provvisorio della neonata società era indicato presso l’abitazione torinese del deputato Bartolomeo Feltrami.

QUELLA RELAZIONE ENTUSIASTA

Il  presidente della commissione per i Lavori Pubblici presentò una relazione così smaccatamente favorevole da sfiorare l’apologia.  Il presidente della Camera, Urbano Rattazzi, in un singulto di obiettività, si senti in dovere di domandare:  «Ma lei parla in nome del popolo che l’ha eletta o come relatore del signor Bastogi?».

Qualche settimana dopo il voto favorevole  venne nominato il consiglio di amministrazione della società nella quale, su 22 membri, si trovarono 14 deputati scelti con oculatezza, in modo che fossero rappresentati gruppi, famiglie e potentati economici trasversali al potere politico.

Pietro Bastogi figurava  come presidente.  I suoi “vice” erano Bettino Ricasoli e Giovanni Baracco, l’uno eletto a Firenze e l’altro a Catanzare.  L’ufficio del segretario venne affidato a Guido Susani, onorevole di Sondrio e quello di direttore tecnico all’onorevole di Ceva di Cuneo, Severino Gattoni.  Per rendere ancora più appetibile il progetto, Bastogi si impegnò nella realizzazione di uno stabilimento, a Napoli, per la produzione delle locomotive.  Il prototipo e l’antenato delle varie Alfa-sud.


L’intento - allora, come sempre - era quello di creare dei nuovi posti di lavoro anche se; poi, il risultato proponeva esborsi esorbitanti di capitali dello Stato.

UNA STRANA CONFESSIONE

Di questa vicenda degli appalti per le ferrovie, un paio d'anni più tardi, emersero altre circostanze inquietanti. Per caso.

Persino la commissione d’inchiesta istituita per far luce sullo scandalo delle strade ferrate negò qualsiasi addebito

Un giorno l’avvocato di Torino Domenico Giuriati e un deputato toscano, Eugenio Pelosi, si incontrarono nell’alloggio di un altro deputato,  Paolo Sinibaldi, che stava sdraiato nel suo letto, in preda a un attacco di febbre e divorato dalla paura di finire nei guai.  Alcuni parlamentari, alla Camera, stavano preparando un’interrogazione a proposito di una fuga di notizie in seguito alla quale erano stati svelati alcuni segreti di Stato. Il documento e il dibattito che avrebbe provocato potevano procurare serie conseguenze politiche per  Sinibaldi, che tutto indicava come il responsabile dell'affare.

Pelosi aveva voluto incontrarIo per suggerirgli di dimettersi in modo da non essere obbligato a rispondere in Aula delle questioni che gli ponevano.  L’avvocato Giuriati lo aveva accompagnato perché, come uomo di legge, poteva individuare quali fossero le possibili conseguenze, civili, penali e amministrative.

Di quell’incontro, Giuriati lasciò una testimonianza scritta nel suo diario, che rappresenta un documento straordinario per comprendere il malcostume politico che, con noncuranza e, quasi, con neghittosità, si era impadronito della classe dirigente del paese.

Dunque. L’avvocato  non riferì delle questioni che riguardavano la violazione del segreto di Stato per cui oggi, a proposito di quella specifica vicenda, non è possibile esprimere un giudizio.  Quello che conta è lo scambio di battute che seguì e che Giuriati riportò fedelmente.

«Bada, peraltro - interloquì Pelosi rivolto al collega -  bada che le maggiori sciocchezze non si commettono per le proprie  convinzioni ma per interesse»,

La replica fu risentita e  volendo portare maggiori contributi alla sua difesa  finì per diventare potentemente auto-accusatoria. «Interesse io? - Sinibaldi si appoggiò con i gomiti sul materasso per tenere la schiena più dritta -  Interesse io che ho sempre lavorato come un cane, contento di tutto, senza bisogni e senza desideri...?!  Io che non sono mai stato cosi ricco come adesso che sono insegnante all’Università!  Io che, grazie a Dio, ho sempre avuto una reputazione di probità e disinteresse da non temere confronti!».  E, quasi per rafforzare con una prova tangibile l’elogio di se stesso, aggiunse:  «Se non fossi stato tale, credete che mi sarebbe stato affidato l’incarico di distribuire ai deputati le partecipazioni per le Ferrovie Meridionali?».

Pelosi, alla toscana, non si trattenne dal pretendere un chiarimento. «Che? Che?».

«Certo! Le ho distribuite io!».  La conferma venne in modo definitivo e senza margini di ambiguità. «Se avessi avuto sete di ricchezza - sottolineò - maneggiando ben 3 milioni e trattando con più di trenta deputati, che non mi sarebbe stato facile approfittarne? Se volevo lucrare?».

LA PROVA DEL MISFATTO

L’avvocato intervenne. «Ma si rende conto di quello che dice? Sta parlando di cose vere?». Sinibaldi non accettò di essere contraddetto. «La prego di non dubitare».

Alzò un poco la voce, forzando sulla sua malattia, come per sottolineare che non c’era da discutere sull’argomento. «Ma ha le prove di quanto afferma?».

«Sicuramente! Ho le cifre, i nomi e le date...tutto...Tutto meno le ricevute degli atti notarili».
Dovette pronunciare l’ultima frase con accenti involontariamente beffardi. La ricevuta della tangente non l’ha mai firmata nessuno.

Anche la magistratura si distinse  per l’assoluta mancanza di iniziativa di fronte  alla denuncia di un testimone

L’vvocato Giuriati registrò che la conversazione «andò avanti per un paio di ore» ancora ma, subito dopo essersi congedato dai suoi interlocutori, non rincasò e si presentò direttamente al procuratore del Re; Onorato Vigliani che conosceva da tempo. Era un uomo di legge, era venuto a conoscenza di particolari che configuravano reati di qualche spessore e non se la sentì di coprirli con un silenzio complice e menefreghista. Firmò un esposto-denuncia in piena regola che però restò insabbiato nei cassetti della magistratura.

Tuttavia, gli sforzi per nascondere la controversia non impedirono la circolazione delle chiacchiere che passarono da un salotto all’altro per finire velatamente accennate anche sui giornali antigovernativi. Fu un deputato  toscano  a parlarne per la prima volta in Parlamento: Antonio Morandini di Montecatini invocò una commissione d’inchiesta che facesse luce sulla vicenda degli appalti delle ferrovie perché le maldicenze che si ascoltavano in proposito danneggiavano l’immagine stessa delle istituzioni.  Un intervento pacato e prudente. «Urge provvedere! - scandì le parole -Se non giungiamo a compiere (e presto...) l’arginatura, avremo lo straripamento della corruzione. I nomi più illibati sono fatti segno al sospetto e non resta reputazione intatta. Dobbiamo occuparcene».

Una buona  fetta del Parlamento, i ministri e quel galantuomo di re ne avrebbero fatto volentieri a meno ma, di fronte a una richiesta pubblica, ufficiale e perentoria, era difficile rispondere negativamente.

LA COMMISSIONE D'INCHIESTA

La commissione d’inchiesta venne nominata ma furono scelte con cura le persone destinate a farvi parte, in modo che il risultato finale fosse assicurato ancor prima di iniziare il lavoro. Nel collegio d’indagine vennero chiamati i deputati che avevano più interesse a insabbiare la pratica e l’unico rappresentante dell’opposizione, Benedetto Musolino, non venne messo nella condizione di esercitare i suoi diritti.

Tre settimane per approfondire la questione e una dozzina di pagine per darne conto. In questo modo, il 15 luglio 1864, Giovanni Lanza, scelto come presidente della commissione, fu in grado di rassicurare la Camera sulla correttezza dei colleghi. Tutto a posto, tranne - forse - una piccola irregolarità da attribuirsi all’onorevole di Sondrio, Guido Susani il quale, per alcune «prestazioni» di ordine professionale, aveva incassato dal banchiere Bastogi 675mila lire che gli erano state liquidate agli sportelli della Weiss-Norsa.  La commissione non senti la necessità di verificare i motivi del passaggio di denaro e la qualità della collaborazione che l’onorevole aveva assicurato. Questo comportamento venne rubricato alla voce «cattiva condotta morale personale».

E la denuncia dell’avvocato Giuriati?  Venne naturalmente accertato che esisteva una denuncia alla Procura di Torino ma sottolinearono che non c’era stato un seguito giudiziario. Non ritennero di contestare al magistrato alcuna accusa come, per esempio, l’omissione di atti  d’ufficio e non ritennero nemmeno di chiedergli perché - secondo lui - quelle informazioni giurate erano buone soltanto per il cestino.

Giuriati si presentò alla commissione e,  nei dettagli, riferì il contenuto della conversazione alla quale aveva assistito ma i suoi ricordi, pur cosi lucidi e circostanziati, non vennero ritenuti sufficienti per aprire un caso.
Forse occorreva la testimonianza diretta di Sinibaldi il quale avrebbe potuto confermare o smentire o chiarire. Il deputato era ancora ammalato, debilitato da quella stessa febbre dell’altra volta. Aveva solo cambiato materasso: non più quello frugale della mansarda di Torino ma quello nobile della sua residenza a Borgo a Mozzano. Non poteva presenziare alle sedute del Parlamento e i “grandi inquisitori” si risparmiarono le noie e le fatiche di un viaggio scomodo fin nel cuore della provincia di Lucca.

Decisero di affidarsi alla burocrazia. Presero carta e penna e scrissero per disteso tutte le contestazioni ma con il doppio garbo dovuto a un collega onorevole e a una persona che - fino a prova contraria - è un innocente.  Spedirono il plico e attesero la risposta che, con la celerità della Posta Regia, arrivò.  Sinibaldi vergò quattro pagine gronde di retorica e di buoni sentimenti e concluse «sul suo onore» di essere completamente estraneo a quella faccenda. Non trovarono motivo per non credergli sulla parola. La verità non la voleva nessuno e la maggior parte pensava che non c’era nemmeno da sforzarsi per cercarla.
L’Italia stava crescendo.

(12 -Continua)


Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato  24 ottobre  2009,  pag. 12 - 13 -14.

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