L’anno dopo la sconfitta del 1848, la guerra d’ indipendenza riprese in una situazione di assoluto caos: continui cambiamenti alla testa del Ministero della Guerra e al vertice dei comandi militari, pressioni dei democratici, fallimentare situazione del bilancio dello stato.
Bastonati a Custoza (1848) e costretti a scappare con la coda in mezzo alle gambe, i piemontesi cominciarono fin da subito a pensare alla rivincita. Come i tifosi delle squadre di calcio che aspettano il girone di ritorno per accarezzare quelle soddisfazioni che sono venute meno nella partita dell’andata. E proprio come capita nel mondo del Football Club, dove la speranza di successi futuri viene legata al cambio dell’allenatore, il re Carlo Alberto e il Consiglio dei ministri decisero che occorreva un nuovo generale comandante. Quelli già in servizio non sembravano adeguati. Chi aveva avuto qualche responsabilità nella conduzione della guerra, andava scrivendo memoriali non tanto per evidenziare i meriti propri che, del resto, erano davvero rari quanto per “coglionare” i colleghi.
Il generale Bava aveva da precisare “in modo genuino”, il generale Bes “puntualizzava” , il generale Durando “riferiva”, il generale Pisacane “metteva in evidenza”. Un carteggio che partiva in via “assolutamente riservata” e che si ritrovava pubblicato sui giornali di Torino. Il risultato? Un panorama di inefficiente squallore.
Dunque, tentarono di assumere un ufficiale francese, ma poiché i francesi rifiutarono, si rivolsero a un polacco, Whjciech Chrzanowsky. Il neo-acquisto aveva servito con Napoleone (quarant’anni prima!) ma, avendone respirato la stessa aria, avrebbe dovuto assimilare anche una piccola parte del suo genio.
I GIRI DI VALZER AL VERTICE
Già al momento della presentazione le perplessità sembrarono dilagare: era piccolo, grassottello, con un naso che sembrava un attaccapanni e occhialetti spessi da sembrare un binocolo. Portava un nome impronunciabile in italiano e, peraltro, lui, l’italiano non lo parlava per nulla. Usava il francese con chi era in grado di capirlo. Altrimenti si affidava all’interprete. Inevitabile che, nel denigrarlo, si trovassero tutti d’accordo anche se, poi, non c’era una sola questione che potesse essere condivisa almeno dalla maggioranza.
Giusto un esempio? In dodici mesi (scarsi) il Ministero della Guerra che, in quel frangente, era di gran lunga il dicastero di maggior peso, passò dalle mani di Provana di Collegno a quelle di Franzini e da Franzini a Dabormida, da Dabormida a La Marmora, da La Marmora a Chiodo e da Chiodo ancora a La Marmora. Ognuno pensava che il predecessore non avesse capito nulla e che, comunque, fosse indispensabile buttare a mare i provvedimenti adottati fino a quel momento per ricominciare tutto daccapo. Per enfasi di rinnovamento, suggestionato dal clima che pretendeva, in ogni modo, di rivoluzionare i program mi appena varati, in contraddizione persino con se stesso, il secondo Dabormida stracciò tutto quello che il primo Dabormida aveva prodotto.
Impossibile vincere l’Austria nel 1848. Si poteva immaginare di farlo nel 1849? I quadri superiori che avevano partecipato alla prima fase della guerra vennero rimossi per manifesta imbecillità davanti al nemico. Al loro posto dovevano arrivare giovani rampanti quanto a volontà ma con una preparazione accademica troppo approssimativa. Nessuno di loro aveva mai comandato un combattimento vero. E poi, non facevano in tempo a ottenere un incarico che già veniva loro revocato, in cambio di un altro non necessariamente definitivo. Un girotondo.
La burocrazia assecondò tutta questa complessa operazione con l’efficienza di cui per definizione - è capace. Alcuni comandanti ricevettero la nomina con gli ordini dà eseguire quando la guerra era già finita da due settimane.
UN CUMULO DI ERRORI
I democratici - uomini della sinistra massimalista di allora - pretesero di giocare un ruolo significativo, imponendo alcune promozioni pilotate in modo che alcuni dei “loro” raggiungessero incarichi, di riguardo. Sembra che il clientelismo e la lottizzazione siano affare di recente costruzione. Invece, agli avanzamenti di carriera “facilitati”, da sempre, è difficile dire di no. Così il “politically cored” favori al comando di tre divisioni i generali: Gerolamo Ramorino, Giacomo Durando ed Ettore Perrone di San Martino.
A coadiuvare l’opera del polacco due vice: Alfonso La Marmora e Luigi Fecia di Cossato che, per motivi diversi, erano persone sbagliate utilizzate in malo modo perché all’uno non difettava il coraggio ma mancava il senso dell’organizzazione, mentre l’altro era un letterato con gusti persino raffinati ma non poteva andare all’assalto armato di enciclopedia.
Al comando delle truppe piemontesi fu posto un generale polacco che aveva servito sotto Napoleone quarantenni prima: e che fu tenuto all’oscuro del piano d’attacco
Quando dovevano iniziare le operazioni? Con l’armistizio, era stato concordato un preavviso di otto giorni. Lo prevedeva l’onore militare. Il Consiglio dei Ministri, riunito l’otto marzo (1849) convenne di denunciare la tregua il 12 della settimana successiva in modo che il 20 fosse la prima data utile per prendersi a schioppettate. Le decisioni le presero a Torino mentre Chrzanowsky stava acquartierato ad Alessandria in attesa di comunicazioni ma, fra i “diglielo tu” per levarsi un’ incombenza e una serie di dispacci scritti, ma non spediti, dimenticarono di avvertirlo. Il generale venne a sapere delle decisioni che lo riguardavano - leggendo l’edizione della Gazzetta del popolo, la mattina del 13 marzo.
Poteva finire diversamente? L’esercito continuò a funzionare con un gruppo di generali che si contraddicevano personalmente. La dialettica interna non era finalizzata a dimostrare il meglio di se ma la maggior stupidità del collega. Ogni volta, gli ordini venivano impartiti in modo così ambiguo da risultare incomprensibili e quelle rare volte che sarebbero stati chiari di per se, ci pensavano i comandanti a storpiare il senso delle parole per interpretarle secondo la convenienza del momento.
Per affrontare il nemico, tenendo conto delle forze a disposizione e della loro preparazione, Chrzanowsky sostenne la tesi di una strategia difensiva che, a suo modo di vedere, offriva maggiori possibilità di variare la disposizione delle truppe in campo. Una linea di soldati dietro delle trincee fortificate avrebbe avuto qualche vantaggio nel reggere l’urto degli austriaci che dovevano attaccare. Se la fortuna avesse guardato dalla parte del Piemonte si poteva anche sperare di avere ragione del nemico. Gli altri generali, però, erano di diverso avviso: il conflitto andava condotto all’attacco, con un’azione rapida, travolgente, decisiva. Il paese non avrebbe sopportato il logorio di un periodo troppo lungo di incertezze. Non c’erano magazzini di armi, mancavano i vettovagliamenti, scarseggiavano le munizioni e, soprattutto, il bilancio dello Stato, provato dall’emorragia di denaro dell’anno precedente, aveva esaurito i fondi disponibili e cominciava ad aprire il buco dei debiti.
COSI’ PENSAVANO DI SORPRENDERE RADETZKY
Quanto a Carlo Alberto (che era diventato re “costituzionale” ma che continuava a pensare alle aperture democratiche come una iattura) era ossessionato di impedire - parole sue «che la popolazione di Milano, sparando magari qualche colpo di fucile sul nemico in ritirata, possa credersi di essersi liberata da sola».
Perciò, come prevedibile, il piano di battaglia risultò frutto di un compromesso. Messe insieme le varie idee su chi voleva aspettare il nemico e chi pretendeva di rincorrerlo, si decise per uno schieramento difensivo-offensivo. Avanzare un po’ in modo da provocare gli austriaci e poi aspettarli per giocarsi tutto in uno scontro all’ultimo sangue. O la va, o la spacca.
Chi analizza, oggi, quelle strategie, conclude con un giudizio sostanzialmente positivo: le manovre immaginate erano suggerite dalla logica e la dinamica consequenziale degli avvenimenti risultava plausibile. Se c’era un difetto iniziale nello schieramento piemontese, dipendeva dal fatto che le truppe dovevano rimanere divise in due tronconi abbastanza distanti fra loro e quindi con poca possibilità di intervenire a soccorso l’uno dell’altro. A far da cerniera avrebbe dovuto pensarci Ramorino che, però, pensò di far di testa sua. Forse si credeva più intelligente degli altri: nella posizione concordata, a guardia del ponte sul Ticino, decise di lasciare solo un piccolo contingente e spostò il grosso dei suoi reparti oltre il Po. Riteneva che Radetzky sarebbe passato da quella parte e certo, se fosse accaduto davvero, avrebbe vinto. Anzi: stravinto. In realtà, gli altri non sono obbligati a fare quello che noi gradiremmo facessero: fanno quello che vogliono, e, se lo fanno, sconquassano le previsioni della vigilia.
Così le poche truppe piemontesi rimaste dove dovevano essere, vennero investite a Villa Sforzesca da una valanga di fuoco. I soldati sabaudi - contadini e operai - in battaglia dimostrarono il coraggio e la determinazione che mancava a chi li comandava, ma non poterono resistere. Si stava aprendo un varco nella disposizione dell’esercito piemontese e gli austriaci, passando per quella via, potevano assumere la disposizione più comoda per loro, prendendo d’infilata il fianco dei nemici che restava sguarnito.
Forse si sarebbe potuto tentare di raddrizzare la baracca correndo a tamponare quella falla. Al generale Durando (quello che aveva ottenuto le, stellette per meriti politici) ordinarono di mettersi in marcia per cercare il nemico e ricacciarlo indietro, ma l’ufficiale se la prese comoda: prima il rancio e poi, dopo pochi chilometri, si fermò alla periferia di Mortara « avendo udito provenire il rombo del cannone». Per l’ appunto! Si combatteva. Ma lui, anziché portare aiuto, si lasciò prendere dalla paura di essere investito da un attacco e dispose le truppe sulla difensiva.
Non accadde nulla, si stava facendo sera e lui pensò che la giornata fosse finita. Invece i reparti del generale D’Aspre e del generale Appel stavano arrivando a gran carriera. Alle 16,30, mentre Durando si stava predisponendo per la cena, gli volarono addosso. I militari - onore e gloria, anche qui - si batterono come leoni ma non poterono tenere testa e cominciarono a ripiegare.
Avrebbero dovuto prendere la strada di Novara per riunirsi al resto dell’esercito ma sbagliarono strada e cammina-cammina, tutta la retroguardia e l’artiglieria si ritrovarono a Casale in una zona dove non servivano a nulla.
Si aggiunse un terzo errore. Al quartier generale avevano sentito le cannonate verso Mortara e, per accertarsi che cosa stesse accadendo, mandarono un ufficiale con un curioso ordine: se non avesse più sentito rumori, poteva tornare indietro. E poiché laggiù avevano smesso di sparare perché si stavano sbudellando alla baionetta, il messaggero, dopo una corsa di qualche decina di minuti, fermò il cavallo e tornò indietro.
LO SCONTRO DECISIVO
Lo scontro decisivo avvenne lungo i tre chilometri che stanno fra il torrente Terdoppio e l’Agogna, attorno alla Bicocca. Lo schieramento sabaudo ripeteva l’errore dell’anno precedente a Custozza. Il fronte era troppo lungo e la disposizione delle forze stava troppo a ridosso delle case della città tanto da impedire le manovre dei reparti, schiacciati fra il nemico che avanzava sul davanti e le abitazioni che li chiudevano alle spalle.
Quando gli austriaci attaccavano, i piemontesi tenevano botta ma, subito dopo, quando sarebbe stato necessario osare un contrattacco, nessuno se la sentiva di impartire l’ordine con il risultato che gli altri avevano il tempo di riorganizzarsi e rifarsi sotto.
Lo disse in un rapporto ufficiale il generale Schonal: «La spossatezza delle nostre truppe era giunta al colmo: anche ai più coraggiosi cadevano le armi dalle mani». Dichiarò: «Se il nemico avesse rinnovato l’attacco, avremmo dovuto cedere».
Attorno alla Bicocca, una gobba di terreno che venne perduta e riconquistata più volte, avvennero gli episodi fondamentali. Gli uomini lottarono con tutte le energie che avevano e numerosi furono gli episodi di autentico eroismo. Non ebbero cibo per tutto il giorno e continuarono a combattere con il conforto della pagnotta e mezza che avevano mangiato alla cena del giorno prima. Alla sera, era tutto finito: schiantato dalla forza avversaria, l’esercito sabaudo cominciò a indietreggiare. A Novara - 9mila abitanti, allora - si riversarono 40mila uomini in fuga. Una marea di gente affamata: alcuni onesti cercarono del cibo da comprare, la maggior parte elemosinò qualcosa da mettere sotto i denti ma parecchi saccheggiarono quello che trovarono sotto mano.
Le cronache raccontano un episodio con dovizia di particolari. Il pizzicagnolo Giuseppe Ranza venne insultato, picchiato, derubato di tutto quello che aveva nel suo negozio di alimentari e rapinato di 50 lire “sovrane”. Le aggressioni, gli accoltellamenti, i regolamenti di conti fra sbandati e civili dovettero essere una quantità. I soldati buttavano le armi, si ribellavano agIi ordini e si strappavano di dosso la divisa.
I morti stavano ammucchiati, uno sull’altro, a formare una catasta di corpi straziati. E, fra tante scene di disperazione, i feriti gravi, i mutilati e gli storpi aumentavano senza che ospedali da campo fossero in grado di assisterli. Non c’erano medicine, non c’erano anestetici, non c’erano bende. Come in tutte le guerre che sono state combattute fino alla seconda guerra mondiale compresa: non c’era niente. Quegli infelici si contorcevano dal dolore, perdevano sangue, morivano e andavano ad accrescere il cumulo delle montagne di morti ammazzati. «Eppure - testimoniò il duce di Genova - usavano l’ultimo respiro per gridare “viva il re” e raccomandavano le loro povere famiglie».
Dicono che Carlo AIberto cercò la morte in battaglia. Forse non si impegnò a sufficienza perché, senza porselo come obiettivo prioritario, la trovarono migliaia di soldati che ne avrebbero fatto volentieri a meno.
ALLA FINE IL RE ABDICA DAVVERO
Carlo Alberto vagava per il campo di battaglia. Non sapeva che cosa fare e, certo, la sua indecisione non poteva essere utile ai comandanti di Stato Maggiore. Annotarono che il suo coraggio sembrava piuttosto rassegnazione. Mai uno slancio da parte sua, nessun incitamento appropriato, niente che trascina e sostiene nei momenti delicati. Anche prima della disfatta non rivolgeva parola a chi gli cavalcava a fianco e quando infuriava la battaglia con esito ancora incerto, lui la considerava già perduta. «È finita - lo sentivano dire quando c’era ancora tutto da giocare - tutto inutile: è finita».
Apparve tranquillo e - quasi - rilassato quando fu finita per davvero. Allora si comportò da uomo; non si sottrasse alle proprie responsabilità e annunciò che avrebbe abdicato. Lì aveva promesso o minacciato in parecchie circostanze ma quella volta fece sul serio e fu irremovibile. Si era reso conto che la sua persona sarebbe stata un ostacolo insormontabile per ottenere un’equa convenzione con gli austriaci perché a lui non avrebbero concesso nulla. Dunque, si fece da parte lasciando l’eredità delle sue ambizioni e delle sue speranze al figlio Vittorio Emanuele che, diventando re, assumeva il numero dinastico di “secondo”.
Si fece consegnare un falso passaporto intestato al conte Barge, sali in carrozza e diede ordine al cocchiere di partire. Destinazione: Oporto, “all’ombra del Trocadero”, destinata a ospitare gli ultimi mesi di sofferenza autentica prima della morte arrivata come un fulmine.
Non si fermò a salutare nessuno ne mostrò, di tenere in conto le suppliche di chi lo pregava dì rimanere. Addirittura: si dimenticò di firmare l’atto di abdicazione e fu necessario rincorrerlo a cavallo perché completasse quel documento, indispensabile per confermare la successione.
UN UNICO COLPEVOLE
L’avvicendamento al trono fu la conclusione esteticamente più appariscente che lasciò in second’ordine tutto il resto a cominciare dalle recriminazioni che ci furono, dalle accuse di inefficienza che si incrociarono fra i comandanti e dalle polemiche sulla conduzione dell’esercito che si rincorsero per mesi.
Cbrzanowsky scrisse una relazione in italo-franco-polacco per accusare tutti e assolvere solo se stesso ma non trovò l’audience che avrebbe ottenuto in altre circostanze.
Ebbe eco limitata anche la punizione esemplare che fu inflitta al generale Ramorino. L’ufficiale venne arrestato ad Arona. Non stava scappando. Anzi: credeva di avere ragione lui e, per dimostrarlo, chiedeva l’istituzione di una commissione d’inchiesta. Formidabile giocatore di poker, riteneva di avere un asso nella manica. Insieme a lui, sulla sponda del Ticino e al corrente delle decisioni che andava prendendo, c’era Vittorio Emanuele, allora principe ereditario e, in quel momento, re di fresca nomina. L’ipotesi di essere accusato di tradimento non lo sfiorava neppure: se lui era un imbecille, lo era anche il numero uno dei Savoia e se lui era stato un frescone, non era da meno colui che si era seduto sul trono.
A poker aveva perduto somme esorbitanti: anche una quantità spropositata di denaro, raccolto dai patrioti, per finanziare la rivoluzione. Quella volta ci rimise la vita. Invece dell’indagine politica venne mandato sotto processo davanti alla corte marziale. I giudici non si mostrarono teneri con le sue tesi difensive. Con una serie di udienze, in rapida successione, sentenziarono che la sua condotta aveva provocato «grave pregiudizio per l’esito della guerra» e lo condannarono alla fucilazione con disonore, cioè dopo essere stato degradato.
Inutili gli appelli che, in un baleno, confermarono le decisioni del primo grado. La Cassazione respinse le eccezioni. Restava il re che fu irremovibile: tolse l’aggravante del disonore e gli lasciò i gradi ma non ritenne che nei suoi confronti potesse essere applicata qualche clemenza. Semmai c’è da domandarsi come mai altri generali responsabili quanto lui - come il generale Durando, per esempio - non abbiano dovuto dare spiegazioni, siano rimasti alloro posto a moltiplicare i danni che già avevano commesso e, anzi, abbiano ottenuto qualche onore e qualche prebenda “per meriti di servizio”. La maggior parte di loro è titolare di una via che attraversa il centro di Torino: quelle targhe grondano il sangue di migliaia di poveri fantaccini, mandati a morire dalla superba cecità e dall’arrogante ignoranza di chi li comandava.
Gerolamo Ramorino venne fucilato all’alba del 22 maggio (1849). Senza perdere tempo, il generale venne accompagnato in piazza d’Armi davanti al plotone d’esecuzione. Mori bene - se vogliamo - e certo meglio di come era vissuto. Rifiutò di essere bendato, non voltò le spalle ai fucili e ottenne di ordinare lui stesso la propria fucilazione.
Con una vittima illustre gettata in pasto all’opinione pubblica furibonda, si cominciò a guardare alla sconfitta di Novara come a un episodio di gloria. Avevano perso da far vergogna e già raccontavano che quasi quasi si era trattato di una piccola vittoria.
3) continua
Fonte: srs di Lorenzo del Bocca; da La Padania di martedì 22 settembre 2009, pag. 13 – 14.
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