domenica 18 ottobre 2009
La spedizione dei Mille: le truffe, i massoni e la regia britannica
RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
I Mille che partirono da Quarto erano il triplo (abbondante) dei 300 “giovani e forti che sono morti” al seguito di Carlo Pisacane ma ugualmente male in arnese. Non vinsero per la forza del loro spirito, non per la loro capacità di usare le armi, non per una strategia tattica sopraffina e nemmeno per l’audacia delle loro azioni.
Testimonianza di parte piemontese, quella che ha vinto. «Quando si vede un regno di sei milioni di abitanti e un’armata di 100mila uomini, vinto con la perdita di 8 morti e 18 storpiati...chi vuol capire...capisca.....» I numeri che Massimo d’Azeglio comunicò per lettera al nipote Emanuele erano approssimativi per difetto ma, quali che fossero le esatte statistiche belliche, gli risultava chiara che una battaglia vera non c’era stata.
SI RITIRARONO PER L’ORO
Testimonianza di parte borbonica, quella che ha perso: «Scrivo perché mi sdegna vedere travisato il vero». Un affidale napoletano che restò a Messina durante i nove mesi d’assedio, poco dopo la fine delle ostilità, nel 1862, pubblicò un diario di ricordi firmandosi, prudentemente, con le sole iniziali: G.L. « I napoletani si sono ritirati davanti a Garibaldi non per magia ma per l’oro. E questo perché mille non possono batterne l00mila e uno non può batterne cento».
Apparve evidente - fin dall’ inizio e a chiunque - che esisteva una storia letteraria accreditata dall’intellighenzia - alla quale bisognava far mostra di credere - cui se ne contrapponeva un’altra che ribaltava completamente valori e giudizi ma che non era nelle condizioni di lambire le carte ufficiali per correggerne i contenuti più vistosamente retorici.
Come sarebbe finita la spedizione di Garibaldi era chiaro fin dal momento della partenza. Non lo sapeva la maggior parte degli uomini in camicia rossa. Loro credevano di partecipare a un’azione di “commando”, destinata a suscitare una rivolta popolare. Fra tutti, erano intellettualmente onesti - questo sì - perché pensavano che si trattasse di un’iniziativa pericolosa e mettevano in conto che avrebbe potuto anche finire male. Però, chi riteneva che per un ideale valesse la pena rischiare qualche cosa, si rendeva conto che quello era il momento di giocarsi tutto il coraggio che era rimasto. Potevano anche sembrare incoscienti, ma era, impossibile non riconoscergli le stimmate dei patrioti veri.
UN GRAN NUMERO DI MASSONI
Vi partecipò Giuseppe La Masa, 35 anni, veterano dell’ insurrezione del 1848-1849, quando girava con un elmo d’argento e il pennacchio bianco. C’era Gerolamo Bixio, genovese, che tutti chiamavano “Nino” e che il Padreterno aveva dotato del cuore di un leone. Durante la difesa della "Repubblica Romana", aveva fatto prigioniero un ufficiale francese, rincorrendolo a cavallo e agguantandolo per i capelli. Era un pezzo grosso della loggia massonica “Trionfo Ligure” dove era iscritto con tessera numero 105. Si trovava in buona compagnia di “fratelli”.
C’era Francesco Crispi, avvocato con studi in cospirazione. repubblicano inquieto con gli ideali roventi ma poi, sempre più conservatore, fino a diventare primo ministro (colonialista e un po’ forcaiolo) con la monarchia. Crispi s’era portato anche la quasi moglie Rosalie Montmasson: «Fiera savoiarda e disinteressata, piena di coraggio, ardita più di quanto in femmina possa accadere, dall’animo vivace, anzi, di fuoco, dalla parola pronta, nata alla libertà e all’indipendenza». Faceva la stiratrice, a Torino, ma sentiva la vocazione della rivoluzionaria.
C’era il sottotenente Giuseppe Bandi, che si era guadagnato un posto nell’esercito piemontese di Alessandria per aver partecipato all’insurrezione che portò il Granducato di Toscana ai Savoia. Allora, studente di giurisprudenza all’università di Pisa, portava il cappello “alla come mi pare” e scriveva versi taglienti di ispirazione foscoliana con i quali voleva dare fuoco alla dinastia di Leopoldo. Non c’era Luigi Càroli: non per mancanza di coraggio ne perché ritenesse quell’impresa povera di gloria. Si trattava - come dire? - di sensibilità. Meglio saltare un giro, per quella volta. Assente giustificato.
La compagnia che, il 5 maggio 1860, si imbarcò a Quarto per scendere verso la Sicilia, poteva sembrare folkloristica: 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri. Sessanta vennero definiti “possidenti” ma non fu possibile trovare un solo contadino. Ovidio Sermone, fuoriuscito da Salerno, compariva come “prete”; Luigi Gusmaroli come “ex prete”; Giuseppe Sirtori come “prete spretato”. In Sicilia si aggiunse frate Giovanni Pantaleo. Non era difficile morire in pace.
SCAPPAVANO DA MILLE GUAI
Gente anche strana, se vogliamo, su quella banchina del porto, all’ora di partenza: un prestigiatore, un “apparatore di chiese”, un girovago, un causidico. Anche lo scultore Giobatta Tassara che aveva preso se stesso come modello per un Mosè da costruire nel cimitero di Staglieno.
Quasi tutti stavano scappando da qualcuno o da qualche cosa: mogli abbandonate, amanti infuriate, figli illegittimi, conti da regolare con la giustizia e non sempre per ragioni politiche. I ricchi partirono per il gusto dell’avventura. Gli squattrinati perché così, almeno, si assicuravano la pagnotta e un bicchiere di vino. Ognuno aveva obiettivi diversi e, forse confusi, ma quasi tutti alla vigilia della guerra cercarono l’amore di altre sottane: non a caso, appena arrivati a Genova, prima ancora di incontrare l’eroe dei due mondi, si infilarono nelle case di tolleranza della città - le cronache vollero precisare “legali” -, facendo registrare l’over booking.
Simone Schiaffino aveva diritto di portare l’orecchino al lobo dell’orecchio perché aveva doppiato Capo Horn. I bergamaschi di Francesco Nullo lo guardavano come se fosse stato un extraterrestre. Stefano Turr veniva da oltre cortina, silenzioso, altero ma elegante. Fra quella gente sbrindellata, non rinunciava a cilindro e redingote, come fosse uscito da un ritratto di Rubens. Si infilò nel gruppo anche un giornalista francese, Maxime du Camp, e con lui un altro giovanotto pallido e timido, con il taccuino sempre in mano, a prendere appunti: Ippolito Nievo.
Tentarono di imbarcarsi una quantità di ragazzini e i genitori si precipitarono alla partenza per trattenerli a schiaffi. Uno riuscì a convincere la madre a lasciarlo andare: Riccardo Luzzato, 16 anni, partito con il cuore gonfio di emozione ma destinato a scoppiare al primo assalto. Altri tre: Gaspare Tibelli, Angelo Vai e Luigi Adolfo Biffi - 17, 16 e solo 14 anni - ingannarono i parenti, nascondendosi sui vapori diretti in Sicilia. Nemmeno loro arrivarono al compleanno successivo. Il più giovane aveva 11 anni, Peppino Marchetti, di Chioggia, ma lui stava per mano a papà il quale, volendo seguire Garibaldi ma non sapendo a chi affidare il figliolo, prese la decisione di portarselo dietro, come si fosse trattato di una partita di caccia. Il più vecchio risulterebbe Tommaso Parodi, genovese che di anni, ne aveva 69.
Attorno a quella compagnia di incoscienti, prese consistenza un clima di simpatica solidarietà e qualcuno tentò subito di approfittarne. Troppi ideali, solennemente affermati, servirono per coprire speculazioni, traffici, imbrogli e interessi del tutto personali.
LA TRUFFA DEI PIROSCAFI
La prima truffa - alla storia e al bilancio dello Stato - riguardò la vicenda dei piroscafi che servirono per il trasporto dei Mille. La versione più eroica riferì dei contatti avvenuti fra garibaldini e l’amministratore della società di navigazione Rubattino, Giovan Battista Fouché. Gli offrirono 100mila lire per una nave ma quel brav’uomo di patriota, dopo qualche minuto di riflessione a testa bassa, comunicò che avrebbe masso a disposizione il vapore “Piemonte”, senza che fosse necessario pagarlo. Solo una precauzione: occorreva fingere di rapinarlo perché, se la spedizione avesse avuto esito negativo, non poteva correre rischi giudiziari e provocare conseguenze diplomatiche anche importanti. Detto fatto! E poiché, al momento di partire, si accorsero che una sola nave era troppo piccola, gli rubarono anche il “Lombardo”.
Per cent’anni, almeno, l’episodio fu ricordato come un esempio di disinteressato altruismo politico. Poi, poco per volta, cominciarono a emergere particolari contraddittori, sufficienti a costruire un’altra verità, meno nobile e ancor meno intrepida. Risultò che Fouché fu licenziato perché si era permesso delle iniziative personali, avventate e controproducenti. Ma, a festa finita e a vittoria ottenuta, il proprietario della compagnia di navigazione, Raffaele Rubattino, fu tra i primi ad accreditarsi ai nuovi governanti come benemerito per ottenere appalti e prebende. Scrivendo a Bixio reclamò la sua parte. «Caro amico, sento ogni giorno proclamare la massima che chi ha sofferto per il paese debba essere ricompensato. Io non pretendo aver meriti personali ne aspiro a compensi di sorta. Parmi però giusto che un compenso sia dovuto alla mia società il che, più che a me, profitterebbe tanti interessati che vi posero fiducia». Fouché, naturalmente, restò disoccupato e per lavorare dovette cambiare città.
Questa versione che, di per se, consente di degradare i campioni del patriottismo al livello degli approfittatori non è, ancora, tutta la verità. Più recentemente è stato possibile scoprire che i due barconi furono acquistati, con regolare certificato firmato, controfirmato e arricchito da ogni genere di garanzie fidejussorie.
Rubattino incontrò a Modena il re, Vittorio Emanuele II, e il conte di Cavour ai quali chiese che gli fosse garantito il pagamento delle due navi. L’atto venne stipulato, la sera del 4 maggio 1860, alla presenza del notaio Gioachino Vincenzo Baldioli. Il professionista disponeva di un ufficio adeguato al numero 12 di via Santa Teresa, a Torino, ma considerando la delicatezza di quella transazione, preferì ospitare i contraenti nella sua casa di via Po. Mancavano poche ore al momento in cui la spedizione dei Mille doveva prendere il largo.
C’erano Giacomo Medici in rappresentanza di Garibaldi, l’acquirente, e lo stesso Rubattino, il venditore. La certezza che il debito sarebbe stato onorato venne dagli uomini dei servizi segreti piemontesi: l’avvocato Fernando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, che avevano avuto l’incarico dall’ufficio dell’Alta Sorveglianza Politica e dal Servizio Informazioni del presidente del Consiglio. Per evitare chiacchiere, Vittorio Emanuele II e Cavour restarono a Modena, ostentando la loro presenza in riunioni e salotti, dove si fecero notare a bell’apposta.
IL RE E CAVOUR SAPEVANO TUTTO
Il Governo, dunque, era consapevole e responsabile deI progetto d’invasione del Sud Italia. Non solo: era parte attiva nel preparare la spedizione e, per la verità, cominciava anche a mettere mano al portafoglio per finanziare l’invasione.
Il documento del notaio venne redatto con le caratteristiche di uno “speciale atto di vendita temporaneo” riguardo due navi che venivano cedute da Rubattino al Governo del Regno di Sardegna che a sua volta doveva girarle a Garibaldi. L’atto venne sottoposto al, più rigoroso segreto di stato. Per il pagamento le parti in causa concordarono, seduta stante e in contanti, una caparra consistente dalla quale, tuttavia, non è possibile determinare l’ammontare. Per il saldo finale ci sarebbe stata una tolleranza di 180 giorni.
Le barche si staccarono da Quarto, la notte del giorno dopo, 5 maggio 1860. Alcuni trattenevano le lacrime, altri agitavano le mani per sa1utare altri ancora canticchiavano inni patriottici. Negli uffici della compagnia di navigazione contavano i soldi.
I giornali dell’epoca, dapprima, restarono all’oscuro di notizie o, più probabilmente, finsero di non averne. Poi, con le indiscrezioni che arrivavano via mare, cominciarono a sollecitare i lettori a favorire l’impresa da Garibaldi. La Gazzètta del popolo, per esempio, quotidianamente, pubblicò gli esempi di patriottica prodigalità dei torinesi: «Teresa Dominaci, ostetrica della Reale Famiglia, contribuì con 5 lire». La Società operaia di mutuo soccorso «raccolse fra i soci 319,25 lire, cifra consegnata a Barra, presidente», Il Municipio stanziò un contributo di 10 lire. E, da Buenos Aires, mittente Giuseppe Bartarelli, arrivò un vaglia di 100 lire.
I circoli liberali, le associazioni tricolore e le dame della Torino bene raccoglievano contributi per comprare armi e munizioni e mettevano insieme chilometri di bende per curare i feriti. Le ricevute furono regolarmente compilate e nei bilanci comparvero, una per una, spuntate con il segno blu della matita.
FONDI GESTITI ALLA GARIBALDINA
Venne inviato tutto a Genova in via Nuovissima (che oggi è via Cairoli), all’indirizzo dell’abitazione di Agostino Bertani che non si era imbarcato per poter provvedere, da terra, all’amministrazione dei fondi destinati alla spedizione dei Mille. La sua gestione fu un po' “alla garibaldina”. Per questo, al momento del rendiconto, si affastellarono polemiche e sospetti sui tanti che ci avevano marciato facendo la cresta sulle spese.
Quattrini, in effetti, ce n’erano una montagna. L’esistenza di un piccolo tesoro è stata documentata dallo studioso Giulio De Vita il quale, dopo una meticolosa ricerca condotta negli archivi delle logge massoniche scozzesi di Edimburgo, è in grado di dimostrare che venne organizzata una colletta che raggranellò denaro coinvolgendo, addirittura, le comunità inglesi del Nord America. Vennero raccolti tre milioni di franchi francesi convertiti in un milione di piastre turche, la moneta utilizzata nei porti del Mediterraneo per transazioni finanziarie, gli accordi commerciali, i pagamenti “in nero” e gli affari poco puliti.
Si trattava di una specie di dollaro (o di euro) dei mercanti dell’Ottocento che impediva di individuarne la provenienza e quindi - se si doveva mantenere il segreto - evitare di risalire al creditore o al debitore. Quel denaro, che equivale a una trentina di milioni di euro attuali, venne consegnato a Garibaldi e servì per corrompere i comandanti dell’esercito nemico che, con la tasche piene, decisero di suonare la ritirata, dichiarandosi sconfitti, quando sarebbe stato troppo facile attaccare e vincere.
GLI INGLESI COINVOLTI
Semmai è da spiegare il perché di questo impegno degli inglesi. Da tempo, oltre Manica, si impegnavano per il fallimento del Governo del Regno delle Due Sicilie. La ragione principale risaliva a un contenzioso commerciale, esploso agli inizi degli anni Quaranta che aveva duramente contrapposto i Borbone e gli inglesi.
Tra Londra e Napoli esisteva una controversia pluriennale sulla questione dello fruttamento dello zolfo in Sicilia
La Gran Bretagna, attraverso le famiglie dei suoi capitani d’azienda, aveva acquisito un’influenza spropositata nelle province attorno a Palermo. Fra le imprese che gestivano con maggior profitto c’era quella dell’estrazione delle zolfo le cui miniere, sull’isola, erano considerate fra le più ricche e, essendo a cratere a cielo aperto, anche fra le più facili d sfruttare.
Lo zolfo, allora, valeva quanto l’uranio oggi. Alimentava le industrie e, soprattutto, l’industria della guerra. Più della metà del prodotto estratto in Italia meridionale prendeva la strada del mare, diretto a Londra. In un primo tempo, i Borbone avevano garantito agli inglesi una sorta di monopolio. Poi, avendo compreso che quegli accordi commerciali risultavano dannosi per la loro famiglia e per lo Stato che rappresentavano, tentarono di introdurre qualche elemento di concorrenza e affidarono una parte di concessione ai francesi di Marsiglia della compagnia Taix e Aycard.
Fu lord Palmerston il primo a protestare per un atto che considerava una specie di esproprio: contestò con il tono del padrone che esige piuttosto che con quello del governante che chiede ragione. I rapporti si guastarono. Re Ferdinando, alla festa, del suo compleanno, con una quantità di ospiti stranieri, non salutò la delegazione di Londra e riservò le sue attenzioni ai russi, lasciando intendere che là sarebbero approdati gli interessi politici ed economici del sud Italia.
La guerra commerciale rischiò di diventare guerra guerreggiata. Vennero mobilitate le flotte e almeno 12mila soldati si tennero pronti a intervenire. Alla fine, per le premure degli stati della “Santa Alleanza”, un giurì d’onore venne incaricato di dirimere la controversia. Venne pronunciata una specie di sentenza in base alla quale occorreva ripristinare le condizioni di monopolio industriale a favore degli inglesi. I Borbone vennero anche condannati a risarcire il danno.
Quel contenzioso, risolto sulla carta, lasciò uno strascico di rancore e diffidenza che un documento di timbri e di firme non poteva cancellare. I rapporti fra i due Governi erano del tutto compromessi. Gli inglesi stavano aspettando il momento buono per favorire un’iniziativa - qualunque iniziativa- che togliesse di mezzo il Regno del Sud, diventato per loro inaffidabile.
Il QUADRO INTERNAZIONALE
Qualche storico crede di spiegare l’impegno inglese con ragioni religiose. Loro, anglicani per fede di stato non tolleravano gli eccessi cattolici dei sovrani di Napoli, così fedeli al Papa da essere proni a ogni liturgia. E Londra non aveva sopportato la repressione che fra il 1825 e il 1832 venne ordinata in Sicilia nei confronti dei “fratelli” affiliati alle logge massoniche.
Altri studiosi, invece, evidenziano l’importanza del quadro internazionale che si andava delineando. Il Piemonte aveva stretto rapporti di ferro con la Francia, che era pesantemente intervenuta per consentire a quel piccolo Stato di allargarsi in Lombardia. Per l’Inghilterra nei confronti di Torino, si trattava di dimostrarsi un’alleata altrettanto affidabile in modo da non perdere l’influenza diplomatica che era guadagnata nel sud. Il meridione d’Italia, in vista dell’apertura del canale di Suez, avrebbe aumentato la sua importanza strategica e sarebbe diventato uno snodo nevralgico di prima importanza.
Può darsi che tutte queste ragioni, intrecciandosi, si siano fuse dando luogo al vero motivo del contendere. Certo, le questioni in cui contano i soldi sono quelle che - da sempre - valgono di più. Comunque, da tempo si era creato un clima di attesa, in vista dell’occasione propizia.
Nel 1856, a Parigi, si incontrarono Cavour e lord Clarendon, inviato speciale di lord Palmerston. A nome del Governo di sua Maestà e della massoneria venne indicato che le intenzioni di Londra erano, inequivocabilmente, quelle di dare una, spallata al trono dei Borbone. Gli ambasciatori James Hudson, a Torino ed Henry Elliot, a Napoli, erano al corrente dei progetti e si stavano impegnando per la loro realizzazione.
LE MANOVRE DI TORINO
Controprova: Cavour, per lettera, all’ammiraglio Persano spiegò che si doveva tentare «di far esplodere una sommossa anti-borbonica», suggerendo anche il nome del possibile capo della rivolta: «Un amico di lord Russel, di lord Palmerston e dell’ambasciatore Elliot». In altri messaggi sempre indirizzati a Persano, Cavour invitò a mettersi in contatto con l’ambasciata inglese e, in particolare, con un certo Edwin James, esponente della sinistra liberale anglosassone, in Italia su incarico del Governo, «persona in grado di prendere in loco gli opportuni contatti per favorire il trionfo della causa italiana».
Con gli appoggi politici internazionali, la complicità non dichiarata ma efficiente di Torino e i soldi necessari all’impresa, Garibaldi aveva ragionevoli certezze di vincere prima ancora di cominciare a combattere. C’erano tutte le assicurazioni per metterlo di buon umore. L’eroe dei due mondi, durante la traversata, non pensò alle battaglie ma a comporre poesie. Voleva scrivere una marcia che solennizzasse quel momento. «Lo straniero mia terra calpesta \ il mio gregge macella, il mio onor\ vuol strapparmi, ma un ferro mi resta \ un acciar per ferirlo nel cuor». Per l’accompagnamento musicale immaginava i ritmi del coro della Norma di Bellini che gli sembrava sufficientemente grandioso e abbastanza deciso.
l Mille viaggiarono senza intoppi e già questo ha del miracoloso. l comandanti napoletani che avevano l’ordine di fermarli non riuscirono a intercettarli forse perché portavano le loro navi da tutt’altra parte. E la flotta piemontese che, per ragioni diplomatiche, doveva far finta di essere contraria all’impresa, aveva disposizioni di inseguire Garibaldi senza correre il rischio di raggiungerlo.
LE MANOVRE SUI MARE
I nocchieri in camicia rossa erano giusto un grado di tenere il timone nelle mani. Infatti, a Marsala, al momento dello sbarco, uno dei due vapori riuscì a centrare l’entrata del porto mentre l’altro si infilò in un cumulo di sabbia, incagliandosi. Il piccolo - piccolo? - incidente obbligò a correggere la trame del teatro che era già stato preparato. Lo sbarco doveva avvenire lì, e lo sapevano tutti quelli che, in qualche modo, erano parte del complotto. L’ammiraglio inglese aveva spedito due navi, l’Argus, al comando di Winnington-Ingram e l’lntrepid del capitano Marryat, che stavano all’ ancora, giusto di fronte a Marsala. La flotta borbonica - era previsto - doveva andare a caccia di fantasmi, senza trovarli, per comparire sul luogo dello sbarco abbastanza in ritardo per non potere intervenire efficacemente ma sufficientemente a tempo per non perdere del tutto la faccia.
Marsala, luogo dello sbarco, era una specie di colonia inglese: altra prova di quanto Londra fu coinvolta
Invece, per colpa delle secche, che imprigionarono la chiglia del vascello incursore, lo “Stromboli”, orgoglio della marina duosiciliana, si trovò in vista di Marsala troppo presto. Fu indispensabile inventarsi sui due piedi un’altra sceneggiatura per compensare le ore che quell’imbecille al timone del “Lombardo" aveva fatto guadagnare.
Lo “Stromboli” navigava alle dipendenze del comandante Guglielmo Acton, giovane di belle speranze, antica famiglia di origini scozzesi, abituato al tè alle cinque del pomeriggio e padrone di uno splendido inglese, con pronuncia appropriata e senza inflessioni dialettali. Da giorni stava dando la caccia ai “filibustieri” in camicia rossa ma, vedendo quella gente - in camicia rossa, per l’appunto - che tentava di guadagnare la riva aprendosi un varco nell’acqua, - chi boccheggiando con l’onda alla gola, chi un po’ più in là, con il mare sui fianchi e chi, finalmente, verso la spiaggia, con i polpacci sprofondati nella sabbia -, venne colto alla sprovvista. Non gli era chiaro che cosa stesse accadendo e dovette chiedere all’lntrepid «chi fossero quei signori bagnati». Inglesi? «No, non erano inglesi». Tuttavia, dalla nave britannica, ritennero necessario precisare che «molti ufficiali della Union Jack erano presenti a terra».
Marsala era una specie di colonia di Londra: ci abitava, addirittura, il console. Dunque, con raro senso di cavalleria militare, il napoletano pregò che «venisse inviato un dispaccio perché gli uomini della corona venissero richiamati a bordo, in quanto le sue artiglierie erano sul punto di aprire il fuco contro i drappelli che stavano sbarcando». Che, nel frattempo, continuavano ad affannarsi con masserizie sulle spalle, a mollo, fradici e disorientati.
Detto fatto. Venne chiesto alle autorità diplomatiche e in particolare al vice console Cousins di alzare la bandiera della Gran Bretagna su case e negozi appartenenti ad inglesi, dentro e nei dintorni della città. Il tutto con calma e fermezza in modo che le cose venissero fatte per bene. All’inglese.
Sembra il racconto di una gag di spettacolo d’avanguardia ed è invece la testimonianza oculare e firmata del comandante Winnington-Ingram che, anni dopo, quando lo ritenne opportuno, pubblicò le sue memorie autobiografiche. L’autore precisò che, quando il volume stava per essere dato alle stampe, Acton «ricopriva l’incarico di Ammiraglio e Ministro della marina italiana» . Ma anche se non fosse stato così brillantemente promosso, ci voleva tanto per capire che era un venduto?
«Intanto, il comandante Marryat, il signor Cousins e io ci imbarcammo su una lancia per recarci a bordo della nave napoletana. Volevamo pregare il comandante di dirigere bene il tiro dei suoi cannoni». Certo, agli inglesi piacque lo charme del comandante Acton. «Ci parve molto impressionato per la responsabilità che la sua posizione gli creava ma promise di non danneggiare la proprietà britannica, osservando che i suoi cannoni erano puntati in direzione del molo, contro i banditi». Si stavano allontanando per tornare sulla loro nave quando la fregata napoletana lasciò partire una tempesta di proiettili». Finalmente anche l’ultimo di quei poveracci con le ossa bagnate si era tolto dai piedi e si poteva sparare a volontà.
Fuoco! E senza risparmiare proiettili! «I colpi ci passarono sopra la testa ma il tiro era corto e non raggiunse il molo». Il bilancio finale: un ferito da una scheggia e un cane ammazzato.
L'impresa dei mille partiva sotto una buona - buonissima - stella.
(11 - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato 17 ottobre 2009, pag. 12 – 13 -14.
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