Questa fine estate 2009 ci ha porta via a 84 anni, Milo Navata, veneziano di nascita ma veronese di adozione, un uomo con la montagna nel cuore, perchè uno come lui, rocciatore di razza, apripista di vie in parete in tutte le Alpi, maestro di arrampicata per generazioni di veronesi, la montagna era sinonimo di libertà.
In ricordo un suo articolo del 1958: “In materia di alpinismo” Tratto dal Notiziario ai Soci - Novembre 1958 Cai di Verona
Ultimamente mi sono spesso sentito chiedere dagli amici come mai, essendo io sulla breccia da un paio di lustri, soltanto da due stagioni mi sia deciso a percorrere itinerari di notevole impegno. La storia è piuttosto singolare e penso valga la pena di venir raccontata poiché offre, come vedremo, dei sorprendenti parallelismi con l'evoluzione storica di tutto l'alpinismo.
Tornando al sottoscritto dirò che i miei approcci con la montagna e con la roccia risalgono ai primi anni del dopoguerra. Mi entusiasmai immediatamente e passai molte ore nella nostra palestra di Stallavena per addestrarmi nel migliore dei modi. Tutto era nuovo per me: tecnica e manovre dovevano essere studiate e modificate un po' alla volta, esperienza dietro esperienza. In seguito, a chiarirmi in maniera definitiva e completa le idee, provvidero i primi corsi di roccia organizzati a Verona. Tecnicamente dunque mi sentivo a posto; una certa praticaccia me l'ero fatta eppure, solo al pensiero di tentare una salita molto dura, mi sentivo mancare il coraggio e perciò molte magnifiche ascensioni restarono si desiderabili, ma irraggiungibili. Quanto può esserlo, almeno per il momento, un viaggetto su Marte. Sesto grado: dominio assoluto e incontrastato di alpinisti eccezionali, allenati in maniera estremamente scrupolosa e con tenore di vita degno di atleti olimpionici in ritiro collegiale. Questo io pensavo e di conseguenza giudicavo me stesso: struttura fisica normale e niente più, morale dal contenuto eroico ma molto moderato, allenamento come qualsiasi altro cittadino, tenore di vita non precisamente ortodosso in quanto ho sempre fumato piuttosto forte e la mia fisiologica tendenza al nottambulismo era - ed è - ben nota agli amici. Il risultato di questo imparziale esame di coscienza fu il profondo convincimento di poter effettuare ugualmente tante belle salite, avanti però come traguardo massimo il livello delle arrampicate di Preuss. Era un gran bell'accontentarsi in fondo e mi ritenevo ampiamente pago e soddisfatto se riuscivo a portarne a compimento qualcuna.
L'ambiente stesso a Verona, in quegli anni e purtroppo in gran parte ancora adesso, piuttosto tiepido in materia di vero alpinismo non mi spingeva certo ad uscire dal guscio. Sarei perciò probabilmente restato sulle medesime posizioni se non mi fossi trovato l'altr'anno a frequentare il Corso Istruttori Nazionali al Brentei. Con me c'era tutta una fila di grossi calibri dell'alpinismo italiano fra guide ed accademici. Li studiai uno per uno con estremo interesse: per me erano ancora i semidei da osar appena avvicinare. Eppure durante le lezioni sui massi riuscivo anche io a passare dove loro passavano. Alcuni poi fisicamente non mi davano certo dei punti, tuttavia avevano al loro attivo una lista di salite impegnative da far venire il capogiro. Ne capivo sempre meno, o meglio cominciavo a rendermi confusamente conto che un ingrediente particolare, ancora a me ignoto, doveva entrare nella costituzione degli arpisti di classe elevata.
La sera in rifugio s'accendevano spesso vivaci chiacchierate fra Detassis, Scenico, Pisoni ed altri "grandi", ed io non perdevo una sillaba dei loro discorsi. L' argomento era sempre l'Alpinismo e tutti ricordavano, accalorandosi, episodi passati, aneddoti gustosi; mentre delle loro grandi imprese parlavano con tono tranquillo come di cose banali, senza ostentazione di eroismi o di drammaticità.
Non poteva essere vero! Mi ribellavo all'idea che quelle luminose pagine di storia alpinistica fossero state, per i loro protagonisti, le cose più naturali di questo mondo. Venne la fine del Corso e mi fermai al rifugio ancora qualche giorno per approfittare del tempo davvero splendido.
E qui avvenne per me la svolta decisiva. Feci due volte in due giorni la Est del Campanile Basso con amici diversi, vivendo ore veramente meravigliose: avevo finalmente salito la più bella salita del grande Preuss. Fin qui tutto rientrava ancora nei piani prestabiliti. Pensavo di aver chiuso in tal modo la stagione quando Maestri mi chiese perchè non andavo il giorno dopo - in cordata con Giancarlo Dolfi, un nostro comune amico di Firenze - a fare lo Spallone del Basso per la via Graffer. Anche lui sarebbe salito per la stessa via a P. Melucci - divenuto quest'anno il mio inseparabile amico di avventure alpine. Diedi un'occhiata al Castiglioni: " itinerario 173 m 6° grado, forse la più difficile via del Basso". Eh! No caro Cesare, la faccenda non fa per me! Per scrupolo consultai Giancarlo; neanche lui sapeva cosa fare. Allora trovammo un compromesso: saremmo andati su per un pezzo per vedere questo famoso 6° grado e poi ... saremmo tornati a corde doppie.
Messa a tacere così la coscienza, l'indomani attaccammo anche noi e, un passaggio dopo l'altro, ci trovammo in vetta al Campanile, con lo Spallone vinto sotto di noi. La mia gioia quel giorno toccò il vertice: avevo fatto anch'io una salita estrema; non avevo avuto paura ed anzi, proprio al fatto di esser convinto di non farcela, dovevo la calma ed oserei dire l'indifferenza con cui l'avevo affrontata, preparando in tal modo la strada alla grande vittoria, non tanto sul Campanile, quanto su me stesso. Riguardo poi ai passaggi tecnici potrei constatare poi come rientrassero, per ordine di difficoltà, in tanti altri che avevo superato nelle mie scorribande in palestra. La sera nella mia cuccetta, con gli occhi spalancati nel buoi, riguastando tutte le fasi dell'ascensione scoprii finalmente qual'era quel benedetto elemento mancante nella mia ricetta dell'arrampicata tipo: il morale.
Parola semplice ma di fondamentale importanza e racchiudente in sè tante cose: il sentirsi sicuri, nell'attaccare una via, di uscire bene; il sonno tranquillo e senza incubi delle vigilie; il guardare una placca o uno strapiombo e considerarli come un terreno da percorrere anziché ostacoli tremendi; il non dubitare mai, anche nel caso di contrattempi più pesanti, dell'esito di un'ascensione, infine, il giudicare, come logica conseguenza, le grandi salite non come esclusivo dominio di una esigua schiera di superdotati.
Avevo trovato la chiave d'oro e non intendevo più farmela sfuggire di mano. Ora potevo finalmente rendermi conto come un Marino Stenico, ad esempio, ad un'età non più molto verde, possa ogni domenica andarsene come capocordata su vie di estremo impegno; come l'asso francese Jean Couzy, privo di fisico in maniera sconcertante ed anche lui non più ventenne, continui un'attività quale forse nessun altro alpinista al mondo può oggi vantare. Tecnica perfetta, d'accordo, ma soprattutto coscienza di poter passare dappertutto: ecco i pilastri sui cui poggiano i loro successi. A conclusione di quanto esposto emerge l'importanza di infrangere quella che potremo definire la " barriera della paura ".
Una volta riusciti saremo sicuri di noi stessi e potremo guardare un animo tranquillo a tante mete, anche le più ardite, giudicate fino a quel momento irraggiungibili. Personalmente ne ho avuto la prova quest'anno attaccandomi - ed uscendone senza grandi battaglie - ad alcuni itinerari di Soldà, Cassin, Carlesso; fra i quali, il più salato. la Valgrande in Civetta. Una volta dentro questa poderosa parete non ho mai dubitato per un solo istante dell'esito della salita, ero tranquillo e basta. Libero da gioie e timori, tutto il mio essere poteva gustare pienamente le gioie dell'ambiente fantastico, dell'esposizione, dell'arrampicata. Durante il bivacco ho fatto una saporitissima dormita senza pensare a niente. Ero sicuro di superare l'indomani gli ultimi metri, facili o difficili che fossero. Questo non perchè mi reputassi fortissimo, tutt'altro, ma perchè il mio morale elevato me ne dava la certezza. Il fenomeno di questo rapidissimo intensificarsi di ripetizioni altamente impegnative ha una portata ben più generale. Assistiamo infatti ogni anno ad imprese sempre più numerose da parte di sempre più numerosi nomi nuovi. Siamo forse tutti diventati più forti? Un accurato esame della situazione ammette come unica ed onesta risposta un rotondo no. Strutture eccezionali come Comici, Soldà, Carlesso, Vinatzer, Cassin e qualche altro hanno pochi riscontri ai giorni nostri. Dobbiamo lealmente riconoscere alle loro imprese una somma di valori tali da distanziare nettamente le nostre ripetizioni, anche se siamo in grado di percorrere le loro vie in tempi molto minori. Questo non suoni offesa per gli alpinisti moderni. Proviamo infatti a pensare, per esempio, al progresso compiuto, dagli attrezzi da montagna. Allora si arrampicava con le vecchie pedule di feltro diventate oggi pezzi da museo; si usavano corde di canapa, vere trappole in caso di maltempo; i chiodi stessi erano suppergiù tutti uguali mentre ora possiamo contare su un assortimento pressoché illimitato; le moderne staffe in duralluminio avevano ancora da nascere e le loro antenne in cordino erano la negazione della stabilità e del riposo. Di scuole d'alpinismo poi, a quei tempi, nemmeno l'ombra: ognuno doveva imparare tutto da solo perdendo anni preziosi alla ricerca della tecnica migliore.
Malgrado tutti questi fattori negativi - e qui sta la loro vera irraggiungibile grandezza - in quei lontani anni dal 1933 in poi essi " i primi " usarono infrangere la barriera della paura, affrontarono l'ignoto dell'estremamente difficile e seppero vincere. Pensate cosa rappresentava, negli anni precedenti alla conquista, la visione dell'impressionante lavagna gialla della Grande di Lavaredo da Nord. Nessuno sognava di salire per quello muraglia. Pure uomini come Steger, Solleder, Tissi, Stosser o Aschenbrenner avevano bene nelle loro corde la possibilità fisica e tecnica per risolvere il problema. Trascorsero invece anni di tentativi poco convinti, di dubbi, di tentennamenti finché Comici ed i fratelli Dimai osarono per primi spingere a fondo. E passarono.
Quanti di noi moderni corifei che andiamo a ripetere quella via in poche ore, avremmo saputo fare altrettanto se una bacchetta magica potesse riportarci a quei tempi, nella loro stessa condizione psicologica? Quanti fra noi avrebbero avuto il coraggio di affrontare, sempre per primi, una Sud Ovest della Marmolada o la Nord delle Jorasses? Eppure oggi moltissimi giovani affrontano queste salite e passano. Il fatto è che per noi le cose sono rese enormemente più facili dalla demolizione di quelle barriere psicologiche che avevano sempre frenato l'iniziativa di gran parte degli alpinisti, tranne di quei pochi eletti dal morale d'acciaio. Il solo fatto di sapere che su un grande itinerario si avvicendano decine di cordate dalle più disparate provenienze porta automaticamente alla scomparsa di qualsiasi freno inibitore e un alpinista - purché naturalmente ci sappia un po' fare - può decidere, direi quasi senza sforzo, riattaccare la stessa via. Finora ho tenuto il discorso sulle moderne estreme salite, ma quanto ho detto investe in fondo tutta la storia della conquista delle montagne.
Vediamo la salita al Monte Bianco, oggi impresa alla portata del più modesto camminatore, quale somma di coraggio dovette costare a Balmat e Paccard inerpicatisi su quell'immacolato labirinto. E la conquista delle Dolomiti, il Pelmo, non vide la guida dell'inglese J. Ball rifiutarsi di salire in vetta per timore dei genii malefici? Oggi la stessa salita è considerata niente più che una semplice passeggiata.
Tutto il mondo è paese; perfino la lontana Himalaya è stata teatro della stessa evoluzione. Dal 1950 a quest'anno ben dodici " ottomila ", sui quattordici esistenti, hanno dovuto cedere alla piccozza dell'uomo e questo perchè gloriosi pionieri del tempo passato avevano, col loro coraggio, ricacciato sempre più indietro i confini dell'inosabile.
Le moderne vittorie poi sono frutto di un accurata organizzazione, di pazienza, di fortuna: vedi il Makalu salito dalla spedizione francese di J. Franco al gran completo; il Nanga Parbat da H. Buhl da solo; il Broad Peak da quattro alpinisti austriaci senza portatori.
Anzi siamo arrivati addirittura anche laggiù alla fase della conquista delle cime più difficili proprio perchè tali. La tremenda Torre Mustagh è recentemente capitolata sotto i decisi attacchi di ben due spedizioni, una francese ed una inglese. La clebre guida ginevrina R. Lambert nel suo articolo " Everest autunno 1952 " ammise lealmente " Confidiamo che le nostre esperienze saranno utili alle future spedizioni poiché, in Himalaya, ogni spedizione arrampica in certo qual modo sulle spalle della precedente.
E questo in un certo senso è vero anche per le montagne di casa nostra: dopo la conquista della Nord della Grande, in brevissimo volger di tempo le ripetizioni non si contarono più: la via era stata ormai liberata dal suo tabù. Alla Nord della Ovest medesime vicende. Solo due giorni dopo la grande vittoria di Cassin, la via vene ripercorsa da Hintermeier e Meindi i quali in precedenza avevano lungamente tentato, e sempre invano la conquista delle medesima parete.
Gli esempi potrebbero continuare ma ne citerò solo un altro per la grande eco sollevata negli ambienti alpinistici del tempo e cioè la prima salita e successiva ripetizione, a due giorni di distanza, dalla Nord delle Jorasses. Gervasutti, Chabod, Lambert avevano tutte le carte in regola per affrontare quel grandioso enigma, eppure soltanto la sferzata della conquista avvenuta da parte di Peters ebbe il potere di deciderli ad effettuare la salita stessa. Ci troviamo insomma di fronte ad un problema di carattere prettamente psicologico più che tecnico. Ma l'alpinismo essendo un'attività esplicata da essere umani, deve obbedire alla grandi leggi che regolano l'evoluzione dell'umanità stessa.
Guardiamo in altri campi e ritroveremo esattamente gli stessi fenomeni. C. Colombo, ad esempio. Egli scrisse una delle più luminose pagine nel gran libro dell'ardimento umano, osando sfatare il terribile ignoto degli oceani, superando inibizioni psicologiche addirittura terrificanti date le credenze oscurantistiche della sua epoca. Immediatamente nelle sue tracce si mossero altri navigatori ma essi erano ormai sicuri della possibilità dell'impresa. Il vanto tuttavia d'aver abbattuto le colonne d'Ercole resterà per sempre legato al nome dell'intrepido ligure.
Nessun progresso dunque, in alpinismo, da parte delle generazione attuale? Se guardiamo le cose dal punto di vista tecnico possiamo rispondere tranquillamente di no.
Prendiamo infatti come pietra di paragone il diedro Nord Ovest della Cima Su Alto in Civetta, considerata oggi giustamente la più grande salita delle Alpi, vinto dai francesi Livatos e Gabriel nel 1951. A detta dei primi salitori e di vari ripetitori la salita detiene il primato per il suo grande sviluppo e per la somma complessiva delle difficoltà, però nella Vinatzner-Castiglioni alla Sud della Marmolada di Rocca (G. Livatnos in " Alpinisme ", 1953 pag. 172) e nella Carlesso-Menti alla Torre Valgrande (L. Lacedelli in " Alpinisme ", 1952 pag. 174) abbiamo dei passaggi più difficili. Simili autorevoli giudizi non necessitano di ulteriori commenti.
Qualcuno potrebbe obiettare che le due recenti imprese dei tedeschi sulla direttissima della Grande e sulla Roda di Vael dovrebbero segnare un ulteriore passo avanti nella tecnica alpinistica. Mancano ancora sufficienti documentazioni per poterlo affermare per quanto riguarda i tratti superati con i mezzi tradizionali.
Per i passaggi invece forzati con chiodi ad espansione sono sempre del parere trattarsi di un lavoro faticoso e noioso ma, tecnicamente, non troppo difficile, e di certo non elegante ( 50 anni fa avrebbero detto "cavalleresco").
Stare su un paio di staffe, con entrambe le mani libere, e picchiare sullo scalpello fino ad ottenere il foro voluto, non mi sembra offra difficoltà quali possano essere, ad esempio, uno strapiombo in libera o un tetto con rare e malcomode incrinature. I tradizionalisti, al vedere impiegati questi mezzi, grideranno allo scandalo ed in verità mi sento piuttosto perplesso anch'io. Essendo detti mezzi, se non nuovi, perlomeno usati in maniera sistematica è logico lo scatenarsi, all'indirizzo di chi li ha adoperati, di una vera marea di proteste e dissensi. Niente di nuovo sotto il sole: la storia alpinistica è piena di simili reazioni. Chi non ricorda il vespaio suscitato, mezzo secolo fa, dall'apparizione dei primi chiodi da roccia e culminato nella memorabile polemica tra Preuss e Piaz? Allo spirito cristallino del viennese ripugnava l'idea di vedere profanata la montagna con l'infissione dei chiodi; si battè tutta la vita per questo suo ideale ma già un suo allievo, H. Dulfer, usando quei diabolici e profanatori strumenti portò l'arrampicamento ad un livello superiore. E si tratta ancora soltanto di chiodi d'assicurazione!
Altre vivacissime e qualche volta velenose polemiche si accesero quando Comici perfezionando i metodi della celebre scuola di Monaco, introdusse l'uso dell'arrampicata artificiale con doppia corda a staffe. " Crocifissore di pareti ", " Acrobata da circo " e " funambolo " furono le più gentili espressioni nei suoi riguardi; eppure egli fornì all'alpinismo dei mezzi potenti per risolvere problemi in nessun altro modo superabili. Ora i suoi principi vengono accettati tranquillamente da tutti, Degenerazione dell'alpinismo in atto dunque? Non direi proprio, o meglio c'è effettivamente una progressiva deviazione dei canoni classici verso una concezione prettamente sportiva; ma io non rimarcherei questo tanto per i solutori degli ultimi problemi con l'uso di perfezionatissimi mezzi artificiali, quanto, piuttosto per coloro, e sono moltissimi, i quali salgono le pareti cronometro alla mano. È sintomatico il fatto capitato certamente a tutti al ritorno da un'arrampicata, di sentirsi rivolgere quale immancabile prima domanda il fatidico: " Quanto tempo hai impiegato? "
Indubbiamente si tratta del legittimo istinto di continuo superamento, di fare qualcosa meglio degli altri, ben radicato in ciascuno di noi (è stata in fondo questa molla a permettere all'uomo di passare, con il trascorrere dei secoli, dallo stato brado all'attuale forma di civiltà), però chi parte per una ascensione con la ferma idea di impiegarvi il minor tempo possibile si lasci definire, senza adontarsi, sportivo. L'essenza stessa dello sport infatti è proprio la lotta dell'uomo contro il tempo e le distanze. Intendiamoci, non vedo niente di male in questo: " l'alpinismo è un gioco e ciascuno è padrone di attribuirgli le proprie regole " scriveva Couzy. I velocisti ad oltranza si sentono perfettamente appagati quando effettuano una arrampicata a tempo record, dimostrando così a tutti di essere i primi della classe.
Io invece, tradizionalista convinto, mi ritengo - e credo qualche altro con me - altrettanto felice quando riesco ad evadere dall'artificiosità assurda a dogma della vita quotidiana per godere, libero finalmente come il vento e le nuvole, qualche attimo di avventura nel cuore stesso della natura là dove essa è più primitiva e selvaggia. Così tanti saluti a Sua Maestà Kronos. Tutti contenti dunque, noi e loro. Cosa possiamo chiedere di meglio alla Montagna? Fra tutte queste varie tendenze e modi di concepire il nostro caro vecchio alpinismo, resta da vedere se anche la nostra generazione di giunti troppo tardi ha saputo affrontare qualcosa di nuovo ed abbattere qualche residua barriera.
Ebbene anche noi possiamo vantare, non sembri un paradosso in quest'epoca in cui tutto sembra ormai fatto, dei pionieri in alpinismo e dobbiamo ricercarli nei solitari dell'estremamente difficile. Comici nel 1937 aveva compiuto il suo più grande exploit ripetendo da solo la Nord della Grande, ma la sua era rimasta un'impresa isolata frutto di una folgorante giornata di vena.
Pochi anni fa invece due sommi arrampicatori: H. Buhl e C. Maestri, seguiti a breve distanza di tempo da A. Aste - affrontarono sistematicamente le più impegnative salite, cancellando definitivamente gli ultimi lembi di impossibile dal vocabolario alpino.
Ora tutte le barriere psicologiche sono cadute, di nuovo sembra non esserci più possibilità di far nulla. Qualsiasi cosa noi ci accingiamo a compiere in montagna, qualcuno l'ha già fatto prima di noi: anche le notturne solitarie invernali (H. Buhl alla Est delWatzmann); anche il 6° grado solitario in discesa (C. Maestri alla Nord est del Sass Maor).
Comunque tutto ciò, se costituisce un indubbia diminuzione del clima eroico, è altresì un ottimo viatico che permette a noi modesti alpinisti cittadini di trovare il coraggio per affrontare delle esaltanti avventure purché, beninteso, portiamo con noi oltre a chiodi e staffe, una indispensabile freschezza di sentimento. A conclusione di tutto citerò alcune parole di G. Livanos: " La vèritable conquète? Elle ne dèmande ni cotation ni ètriers. Il suffit d' èetre seul dans un coin de montagne et rèever ".
Milo Navata
Fonte: "In materia di alpinismo" di Milo Navasa Tratto dal Notiziario ai Soci - Novembre 1958 Cai di Verona
MILO, L’ULTIMO DEI NAVASA
19 settembre 2009 — pagina 41 sezione:
Spettacolo
di Francesco Piero
Franchi
Si è svolta lunedì la cerimonia funebre per Milo Navasa,
illustre alpinista veronese di origine bellunese, deceduto giovedì 10
settembre. Sulla sua bara, nella cappella del cimitero monumentale di Verona,
erano stati collocati rami di mugo, un elmetto rosso da rocciatore, una corda
d’alpinismo pure rossa e il fazzoletto a striscie bianche e blu dei deportati
politici.
Accademico del Cai, direttore di una scuola di roccia,
autore di memorabili imprese alpinistiche, nato a Venezia nel 1925 e vissuto a
Verona, Milo Navasa apparteneva a una antica famiglia bellunese dalla storia
singolare.
Il cognome (in origine “da Navasa”) proviene dalla
piccola frazione omonima in comune di Limana, ben nota alle cronache bellunesi
fin dal Medio Evo: nel 1193 Martino da Navasa era canonico della Cattedrale di
Belluno, nel 1243 il sacerdote Giovanni da Navasa è testimone arbitrale in una
causa feudale, nel 1269 nella vendita di un maso in quella frazione di Limana
si cita un Nicolao decano de Navaxa, dal 1311 al 1322 sono documentati acquisti
e vendite di terre per opera di ser Bartolomeo di Navasa.
Non siamo nell’ambito della nobiltà, ma in quella dei
proprietari artigiani, con presenze del clero; i Navasa sono noti soprattutto
per merito di Tono da Navasa, zattiere di Belluno, un personaggio di rilievo:
nel 1492 è tra i firmatari dello Statuto degli Zattieri presentato al Doge ed
approvato. Nel 1511, durante la spaventosa guerra scatenata contro Venezia
dall’Impero d’Austria e dai suoi alleati, con un gruppo di altri zattieri attuò
una vera e propria forma di resistenza anti-tedesca, sabotando sul Piave un
convoglio di zattere cariche di materiale bellico destinato all’assedio di
Treviso, uccidendo i soldati di guardia e salvandosi a nuoto dopo aver
distrutto il carico. Subì le rappresaglie degli occupanti, che distrussero i
beni a lui e agli zattieri rifugiatisi a Venezia, ma fu generosamente
ricompensato dal Doge, che concesse campi in premio a questi suoi sudditi
coraggiosi e fedeli. Così Toni da Navasa cambiò condizione economica, restando
zattiere ma sviluppando anche attività artigianali in città: nel 1513 è
presente, come autorevole testimone (“mastro”), alla composizione di vertenze
tra gli zattieri di Lavazzo e i cadorini.
Da lui discende la linea di mercanti che si arricchirà
sempre più e farà alleanze matrimoniali con altri ricchi mercanti di Venezia;
sicché nel 1685 un Francesco Navasa può acquistare la nobiltà bellunese. I suoi
discendenti beneficeranno dell’ingente patrimonio di famiglia accresciuto dal
lascito della famiglia veneziana Varotti al primogenito di ogni generazione
Navasa. Questo ramo si chiamerà, per obbligo testamentario, Navasa Varotti, e
si estinguerà nel 1854 con le dissipazioni del letterato bellunese Giusto
Navasa Varotti (1775-1851).
L’altro ramo, quello da cui discendeva Milo, ha come
protagonista principale un altro Francesco (questo nome, insieme ad Augusto, è
tradizionale nei Navasa e nelle famiglie da essi discendenti): nato nel 1765 e
morto nel 1854, alla caduta della Serenissima nel 1797 si dimostrò giacobino e
fautore della rivoluzione; divenuto capo-sarto del 93º Reggimento di Fanteria
di linea di Napoleone, seguì il suo reparto in tutte le vicende, ritornando a
Belluno, con una certa agiatezza, dopo la caduta dell’Imperatore; in Francia,
da una giovane bellunese della borghesia agiata, nacque suo figlio Augusto
(1815-1894) imprenditore a Belluno, patriota risorgimentale, capo della Guardia
Nazionale nel 1848, con la quale respinse un forte reparto austro-croato; da
lui nacque Francesco, avvocato, padre del successivo Augusto (1895-1945).
Quest’ultimo, tecnico della Telve, pur nato a Belluno,
si spostò prima a Venezia, dove nacque Milo, e poi a Verona: durante
l’occupazione tedesca 1943-1945, la sua posizione di tecnico dei telefoni gli
consentiva di aiutare il movimento partigiano. Nel dicembre del 1944 una
delazione portò i nazisti ad arrestare Augusto Navasa e suo figlio, allora
diciannovenne: il padre fu deportato a Mauthausen, da cui non ritornò, il
figlio invece al lager di Bolzano, da cui scampò.
La famiglia Navasa, che ora si estingue (Milo ha solo
una figlia, che vive a Londra, dove è sposata con un inglese e ha due bambini),
era imparentata sia con famiglie della tradizionale nobiltà bellunese (per
esempio i Barcelloni-Corte), sia con il notabilato borghese di proprietari,
commercianti o artigiani, per esempio i Volpe, i De Col Tana, gli Smali e
soprattutto gli Zanolli: le due sorelle Marina (1828-1910) ed Elisabetta
(1817-1911), figlie di Francesco, il sarto napoleonico, sposarono l’una Rocco
Volpe, fratello di don Angelo, il ben noto prete-patriota, e l’altra Giuseppe
Zanolli; Teresa Volpe figlia di Marina e Francesco Zanolli figlio di Giuseppe,
cugini primi, si sposarono tra loro.
Ho raccontato questa storia a Milo, circa due anni fa,
in una mia visita (era ricoverato in ospedale): per motivare il disturbo, gli
dissi che stavo cercando informazioni storiche sul gruppo di famiglie che ci
implicava insieme. Ricordava appena, per averlo sentito dire dal padre, che la
famiglia era di origini bellunesi, e che aveva avuto una certa importanza, ma
di Belluno, veramente, conosceva solo le montagne che aveva scalato, e gli
uomini che le frequentavano.
Dimostrò una ironica saggezza da vecchio montanaro:
“Sono l’ultimo dei Navasa? E allora? Non ci posso far niente.” E aggiunse anche,
forse a mio uso e consumo: “Sul passato,
anche se ci dispiace, non possiamo più intervenire; sul futuro non abbiamo
nessun controllo. Meglio godersi il presente, senza perdere tempo a rimestare
il passato. La mia vita è quello che è qua, e buonanotte al secchio, di piani
venturi non ne ho nessuna voglia.”
Fonte: visto su IL CORRIERE DELLE ALPI del 16 settembre 2009, pag.41
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