mercoledì 4 novembre 2009

Custozza e Lissa malgrado due sconfitte il regno d’Italia si accaparra il Veneto








RISORGIMENTO.  L’ALTRA VERITA'


La terza guerra d’indipendenza, 1866, preceduta da trattative tra  Italia e  Austria: prima Vittorio Emanuele II vuole acquistare le terre orientali pagando  un miliardo di lire - che non ha - e poi offrendo il figlio Umberto per sposare un’arciduchessa che porti in dote Venezia

Francesco Giuseppe, quando si rende conto della possibilità di un’alleanza anti - austriaca tra i Savoia e la Prussia, offre al Governo italiano la cessione del Veneto a Napoleone III, che a sua volta l’avrebbe poi “girato” a Vittorio  Emanuele:  ma questo rifiuta e sceglie la guerra

Il Veneto finirà nelle mani dei Savoia, nonostante la doppia sconfitta, solo grazie alla vittoria ottenuta dagli alleati  prussiani a Sadowa: e il  meccanismo sarà esattamente quello  previsto in  origine, cioè la cessione alla Fancia e il successivo trasferimento al Governo del regno d’Italia



L’Italia era “fatta” per dichiarazione unilaterale del Governo sabaudo. In realtà, precisare che lo era “quasi” non sarebbe, stato inopportuno.

I patrioti credevano che gli sforzi compiuti fino a quel  momento non fossero sufficienti: occorreva impegnarsi ancora un po’ per prendersi anche Venezia (con l’hinterland veneto e istriano) e Roma (con il Lazio che faceva ancora parte dello Stato pontificio).

Vittorio Emanuele II  con le strategie diplomatiche che credeva di padroneggiare, tentò dapprima di  “comprarsi” la fetta orientale che gli mancava, offrendo un miliardo di lire di allora. Si trattava di una cifra spropositata che - con le debite proporzioni - nemmeno il cancelliere della Germania Federale, Helmut Koll, alla fine degli Anni 80 del  XX secolo, spese per acquisire la  Germania (sedicente) Democratica che era stata governata fino ad allora dai comunisti dell’Unione Sovietica.

TRATTATIVA  SENZA   ESITO

Il re dei Savoia, il miliardo, non l’aveva. Non era nelle condizioni di spendere nemmeno la metà della metà. Per quale ragione incominciò  a intavolare una trattativa destinata a concludersi con un nulla di fatto  resta un mistero.  Le conversazioni fra le parti avevano le sembianze del dipanarsi di una partita di poker “al buio” dove quello che conta non sono le carte a disposizione  (che non si conoscono) ma la faccia tosta dei giocatori  impegnati in una sfida senza paracadute.  Infatti, nemmeno i plenipotenziari austriaci erano nelle condizioni di alienare una porzione di  territorio importante per il gettito economico che l’industria assicurava e per la raffinata cultura che gli intellettuali garantivano.  Come avrebbero giustificato il baratto all’opinione pubblica?

Il tavolo si chiuse con i contendenti che ritirarono le proprie “fiches”; rinunciando a terminare una partita che non poteva essere conclusa.

Forse - almanaccò Vittorio Emanuele II  - si poteva tentare di percorrere un’altra strada che avrebbe portato allo stesso risultato, addirittura risparmiando, senza prevedere l’impegno di ingenti capitali.  Agli Asburgo offrì  il figlio Umberto che avrebbe potuto maritarsi con un’arciduchessa della Casa Imperiale di Vienna... una qualunque... scegliessero loro... purché, nel contratto nuziale, fosse inserita la clausola che la sposa avrebbe portato in dote la  “serenissima” Venezia.  Anche questa trattativa - costruita sulle gambe sghembe di un progetto più avventato che improvvido - naufragò, lasciando traccia soltanto nella corrispondenza dei dignitari austriaci e nei loro diari.

SCANDALOSA SUPERFICIALITÀ

I commenti si dipanarono fra l’ironico e lo scandalizzato. I funzionari d’ambasciata si meravigliavano che questioni di straordinaria rilevanza, per il futuro assetto di una porzione d’Europa,  potessero essere affrontate con tanta baldanzosa improvvisazione.  Vittorio Emanuele II poneva più riguardo quando si trattava di partire per una battuta di caccia. Occorreva scegliere i cavalli migliori, i cani, il luogo, gli accompagnatori, le armi...    Per le decisioni politiche, con conseguenze che non era nelle condizioni di immaginare, si comportava con smisurata superficialità. Come un pizzicagnolo alle prese con una partita di merce da vendere o da comperare. Buttava lì una proposta e, alla risposta, contestava che “no”, a quelle condizioni ci perdeva, dunque, piuttosto che rimetterci, era meglio lasciare perdere.  Poi ritornava sui suoi passi e tentava una mediazione che gli risultasse comunque favorevole, dava di gomito ai suoi interlocutori, li incoraggiava ad accettare, come capita alle bancarelle del mercato. «Vero che capite che, per voi, è un affare?!  Non so neanche perché continuo in questa trattativa... se io avessi un po’ di sale in zucca lascerei perdere... voi non vi rendete conto del danno che vi fate,  non accettando... e io, purtroppo, so quanto mi costerà… .».

Sembrava la commedia buffa di un’opera “da tre soldi”.  Dopo mesi di tira e molla,  con il linguaggio e gli atteggiamenti ammiccanti di chi propone transazioni poco plausibili, si convenne che non esistevano soluzioni praticabili e anche questa proposta venne lasciata cadere. Definitivamente.

Sembrò più possibile il  passaggio di Venezia, dagli Asburgo ai Savoia, quando, alla vigilia del 1866, si scaldarono i toni delle relazioni diplomatiche fra Austria e Prussia che si affrontavano a muso duro  rivendicando, ognuna per se, la leadership dei popoli tedeschi.

DUE CAPITALI COME GIANO BIFRONTE

Le loro capitali - come un Giano bifronte - guardavano in direzioni opposte. Vienna si rendeva conto di trovarsi rivolta all’indietro, con un passato glorioso di cui menare vanto che,  però, solo accidentalmente e quasi di riflesso, riusciva a riprodursi nel presente.  Berlino, al contrario, di storia non ne aveva e, in ogni caso, non se ne curava. Si era affacciata alla politica internazionale con poderose prospettive di sviluppo, orientata senza tentennamenti a progettare con meticolosità il proprio futuro.

Efficacemente, le due capitali avrebbero potuto essere rappresentate da due onde del mare, ma mentre l’una aveva raggiunto la massima estensione sul bagnasciuga e stava  già iniziando a ritirarsi sulla scia di un riflusso fisicamente inevitabile, l’altra stava sviluppando la potenza che le avrebbe dato lo slancio per  avanzare sul bordo della spiaggia.

Le Cancellerie europee avevano capito che si sta vano affilando le armi, in attesa del rullo, dei tamburi di guerra.  Consideravano che lo scontro fosse inevitabile, al punto che ognuna cominciò a lavorare per prendere le posizioni più adeguate in modo che dal conflitto imminente gli venisse qualche vantaggio (o, almeno, per evitare i danni maggiori).

L’Italia stava almanaccando per stringere alleanza con la Prussia di Bismarck.  Forte di un alleato capace di impegnare il grosso dell’esercito austriaco sul suo terreno, avrebbe potuto dare battaglia ai confini orientali, con l’obiettivo di raggiungere Venezia e,  forse, Trieste.   Che quella fosse una strategia di non difficile attuazione, fu chiaro innanzi tutto a Vienna.  I vertici dell’esercito asburgico si allarmarono alla concreta possibilità di dover tenere testa a due avversari  su fronti diversi, distanti fra loro, confrontandosi con due potenze militari che li avrebbero presi in mezzo, a tenaglia. Per scongiurare una parte di pericolo, tentarono di ottenere dall’Italia,  una dichiarazione di neutralità e, per convincerla, proposero la solita manovra: la cessione del Veneto a Napoleone III che lo avrebbe girato a sua volta a Vittorio Emanuele II.

BIXIO:  MEGLIO  l00MILA MORTI

Al re Savoia la  proposta sembrò disonorevole e, forse, lo era davvero.  Umiliarsi, accettando in dono dall’imperatore francese ciò che poteva conquistare con le armi?  In questa presa di posizione, fu confortato da una roboante esortazione di Nino Bixio che, riposta in cassapanca la camicia rossa di quando era garibaldino, si era agghirlandato con l’uniforme di  generale   dell’esercito italiano del quale, ormai, scimmiottava posture e atteggiamenti. «Meglio centomila morti... - sentenziò - meglio una battaglia sanguinosissima piuttosto che l’onta di una cessione pacifica».

Lo Stato maggiore dell’esercito piemontese può contare su una netta supremazia numerica  rispetto agli austriaci:  ma le truppe sabaude difettano di addestramento e organizzazione.

Era un’anticipazione di quanto sarebbe successo, cinquanta anni più tardi, alla vigilia della prima guerra mondiale, quando l’Austria offrì all’Italia il Trentino e Trieste in cambio del nostro non - intervento.  L’accordo non fu siglato perché, ogni volta, la diplomazia tricolore aggiungeva clausole e postille anche banali, accampando pretesti per  nuove concessioni e continui miglioramenti.  Alla fine i viennesi sbottarono: «Ma, in questi giorni, quali battaglie  ha perso l’ltalia per pretendere tanto...!?».

Nel 1866, come nel 1915, si preferì  l’ecatombe da cui uscimmo stremati per non “umiliarsi”, nell’accettare una proposta logica e conveniente.

L’offerta austriaca, fatta conoscere a Torino da Napoleone III, fu respinta e l’otto aprile (1866) venne firmato  il patto di alleanza con la Prussia.   Ne il re ne il Governo sentirono la necessità di informare il Parlamento di una decisione che - di fatto - equivaleva a una dichiarazione di guerra.  Anche nel maggio 1915  per la prima guerra mondiale  si cominciò a combattere senza che i deputati fossero messi a conoscenza   delle decisioni del Ministero e, dunque  senza avere avuto  l’opportunità di esprimersi.

In 50 armi, si è ripetuto  lo stesso canovaccio storico che ha il peso e il valore giuridico di un piccolo colpo di Stato.

La sconfitta, di Custoza è la conseguenza inevitabile delle divisioni personalistiche tra gli alti comandi

Vittorio Emanuele  II  aveva 46 anni  una buona salute (nonostante un fisico appesantito dalle minestre di fagioli di cui era ghiotto) e una gran voglia di menare le mani. La prospettiva della battaglia lo affascinava, tanto più che, questa volta, non ci sarebbe stato nessun Napoleone a fargli ombra.  Il  numero uno del suo esercito  sarebbe stato lui e,  poiché era convinto di possedere le doti del grande condottiero, niente avrebbe potuto distoglierlo dall’intenzione di esercitare per davvero - e appieno - il comando effettivo.

UNA POTENZA TRUCCATA

Le sue certezze erano,  naturalmente illusioni.  Per esempio, era convinto che i suoi reparti, forti  di 280mila uomini,  36mila cavalli e 450  “pezzi” di artiglieria, rappresentassero una forza potente e moderna.  Non era vero, questa volta, come non è mai stato vero in tutte le guerre cui l’Italia, in qualche modo, ha partecipato.  I soldati non erano guerrieri: erano, per lo più, contadini  che sapevano amministrare i campi ma con scarsa propensione per le armi.  Erano stati male addestrati e non avevano equipaggiamento adeguato.  Non c’erano nemmeno le carte topografiche e, per muoversi, oltre  il confine della Lombardia, verso il Veneto, dovettero orientarsi con mappe austriache che pochi erano in grado di leggere.  Mancavano - come nel 1848 e nel 1859 i mezzi da traino per l’artiglieria pesante e molte classi erano state congedate proprio alla vigilia della guerra.

Gli ufficiali dello Stato Maggiore erano fermi  ai libri che analizzavano le strategie sopraffine del  Napoleone Bonaparte di Jena e di Austerlitze e da lì non si erano mossi.   Tuttavia  la scarsa preparazione professionale risultava inversamente proporzionata alla  iattanza che ognuno era in grado di mettere in mostra con dovizia di ampollosità.  Ognuno credeva di essere più abile, più intelligente e più adeguato dei pari grado, e dei superiori,  per cui si sentiva in dovere di aggiustare gli ordini cui avrebbe  dovuto obbedire per  renderli davvero efficaci.

Quelli che, in assoluto, ritenevano di essere i migliori,  erano Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini.

La Marmora rimase Primo Ministro fino al 20 giugno, ossia quattro giorni prima della battaglia sciagurata di Custoza con la quale - contemporaneamente  - cominciò e finì  la campagna dell’esercito di terra.  In questo modo,  riuscì a occuparsi poco e male degli affari politici del Governo: pochissimo e malissimo delle questioni strategiche che riguardavano i comandi che erano ai suoi ordini.  Cialdini, invece, si organizzò per conto suo elaborando un piano di battaglia  che gli altri generali non conoscevano e che non potevano assecondare.

IL  CAOS  AL  COMANDO

Alla fine, chi comandava?  La domanda - logico - non aveva  risposta perché, in realtà, non comandava nessuno.  I  “vertici”  si incontrarono a Bologna per tentare di elaborare un piano omogeneo delle operazioni.  Ma, dopo ore di discussione, pacata nei toni ma risoluta nella sostanza, apparve chiaro che si stava perdendo tempo. Nessuno voleva darla vinta all’altro e  ognuno fece a gara per non  intendersi.

Il  re dovette accettare di essere affiancato da La Marmora e La Marmora si risolse  a sopportare che Cialdini si  muovesse “autonomamente”,  come responsabile di una  specie di secondo esercito, parallelo ma con pochi legami di parentela con il resto che si muoveva per conto suo.

Venne stabilito che  La Marmora, con i contingenti a sua disposizione, avrebbe mosso verso il Mincio, mentre Cialdini, con i reparti ai suoi ordini, avrebbe attraversato il Po, a sud,  per prendere gli  austriaci d’infilata.  Naturalmente, la commedia degli  equivoci prevedeva che La Marmora fosse  convinto di esercitare l’azione principale alla quale Cialdini avrebbe dovuto assicurare il necessario appoggio e le indispensabili coperture.   Al contrario,  Cialdini  (che non accettava intromissioni)  giudicava che la sua manovra fosse l’asse portante del  “piano”.

Il 18 giugno, a Cremona,  La Marmora stese per il  re la dichiarazione di guerra.  Vittorio Emanuele II - chissà perché - la tenne ferma due giorni e solo il   20 la fece recapitare al comando  supremo austriaco.  Il giorno   dopo, il  21, lasciò Firenze e si trasferì al suo quartiere generale  di Canneto  sull’Oglio,  presso Mantova.   Accanto a se non aveva voluto La Marmora ma Enrico Morozzo della Rocca presentato come «un generale che l’ Europa ci invidia»  e che, in realtà, stava abbondantemente  sotto  la  mediocrità.  Aveva il vantaggio di essere il compagno di merende del re: lo accompagnava a caccia di fagiani e di contadinotte,  giustificava le sue intemperanze, gli forniva gli alibi di cui aveva bisogno e gli prestava il denaro necessario per coprire qualche marachella.

UN ESERCITO DIVISO IN TRE

Dunque, alla fine, l’esercito che era stato spezzato in due, si trovò diviso per tre: ognuno con enormi difficoltà nel  tenere i contatti con gli altri monconi, perché i comandi non erano collegati fra loro con il telegrafo e dovettero utilizzare i servizi dei normali uffici postali,  con l’immaginabile tempestività che potevano assicurare  i portalettere sotto le bombe.

Le incomprensioni - e, per la verità, anche le disobbedienze -  si rivelarono nella  loro disastrosa realtà.

Il 22 giugno Cialdini telegrafò  che contava di passare il Po la notte fra il 25 e il 26 e chiedeva «un’azione dimostrativa»  sul Mincio che avrebbe dovuto iniziare il 24.   Gli risposero di sì ma La Marmora decise che avrebbe attaccato il 25, alle sette del mattino, per poi ritornare sulla sua stessa decisione,  lasciando le divisioni senza ordini e con le armi al piede.

Gli austriaci erano solo 75mila, la quarta parte - scarsa - degli italiani che,  però, frazionando la  loro forza, trovarono il modo di  combattere quasi alla pari.  I nemici, invece di attendere che gli ufficiali sabaudi  prendessero l’iniziativa, attaccarono risolutamente, cogliendo i nostri impreparati e in crisi di movimento.

All’inizio, lo Stato Maggiore pensò che si trattasse di qualche «scontro locale», immaginato per saggiare le forze avversarie e, quando si resero conto che gli uomini di Vienna stavano facendo sul serio, era troppo tardi.

Il  re, con i suoi ufficiali d’ordinanza, andò a  ispezionare il campo di battaglia. Altrettanto - ma separatamente - fece La Marmora con i suoi uomini.  Vittorio Emanuele, girovagando  di qua  e là,  oltre il Mincio, si trovò a un tiro di schioppo dai contingenti austriaci con il rischio di finire prigioniero.

Ordini e contrordini per tentare  di raddrizzare la baracca aumentarono una confusione già abbastanza pronunciata.  L’unico  che non perse la testa fu il generale Giuseppe Covone  che tenne testa ai  nemici  ai al punto che,  da solo, avrebbe potuto  volgere lo scontro a nostro favore.  Chiese rinforzi che non gli mandarono e, alla fine, senza munizioni sufficienti, dovette rinunciare a continuare il combattimento e ordinò il ripiegamento.  Una possibile vittoria si trasformò in una ritirata,  a  tratti tumultuosa.

Non avevano accettato  « l’umiliazione»  del regalo dell’Austria, attraverso la Francia, perché era meglio morire in battaglia.  Morirono in battaglia - i soldati, naturalmente perché gli ufficiali si tennero, come sempre, in disparte - e raccattarono anche una  figuraccia difficilmente ripetibile.

Anche il disastro di Lissa fu dovuto alla ostilità tra i vertici della Marina, il cui capo Persano,  neppure sapeva nuotare

Forse si poteva recuperare l’onore delle armi con un successo per mare.  L’ ammiraglio Carlo Pellion di Persano era il numero uno della Marina ma non sapeva nuotare.  Quando, usciva in missione, si faceva affiancare da  due robusti marinai che avevano il compito tenerlo a galla, in caso di incidente.

A  LlSSA  SENZA  PIANI

Il  giorno della battaglia di Lissa, non c’era un vero e proprio piano di battaglia. Del resto, anche qui, il secondo in comando, l’ammiraglio Giovanni Battista Albini, disprezzava il suo  superiore e gli disobbediva apertamente.  Il numero tre,  Giovanni Vacca,  aveva trovato il modo di urtarsi con entrambi e quindi si sentiva  autorizzato a non rispettare  gli ordini  ne dell’uno  ne  dell'altro.

Ci si mosse a tentoni, immaginando un’azione dimostrativa  con la speranza che il nemico si spaventasse per l’esibizione di forza e non accettasse  il combattimento.  Invece la  flotta di Vienna uscì allo scoperto,  manovrò con perizia e cannoneggiò il naviglio italiano senza lasciargli scampo.  A ogni esplosione austriaca che andava a segno, si sentivano i cori dei marinai che urlavano: «San Marco».

Oltre la retorica risorgimentale, sia chiaro che veneziani, triestini e istriani servivano l’imperatore  Francesco Giuseppe ed erano fieri di farlo.  Quando la battaglia si esaurì il comandante nemico Wilhelm von Tagethoff  firmò un  bollettino di vittoria irridente.  «Uomini di ferro - scrisse - su navi di legno hanno avuto ragione di teste di legno su navi di ferro».

La Prussia, però, vinse a Sadowa.  La vittoria fu completa e definitiva.  I contingenti austriaci non erano più in grado di continuare lo scontro. L’imperatore fu costretto ad accettare la pace e le condizioni che ne seguivano.

Per quel che ci riguarda, Vienna dispose che il Veneto venisse attribuito a Napoleone  III  il quale ne fece dono a Vittorio Emanuele II.  Ne più ne meno la proposta inoltrata la vigilia della dichiarazione di guerra.

Un’altra sconfitta consenti di aggiungere un’altro pezzo d’Italia.   Mancava Roma ma, per accaparrarsi anche quella, occorreva aspettare che cadesse in disgrazia l'imperatore francese, padrino dell’unità d’Italia e grande benefattore di  casa Savoia.  Per pugnalarlo alle spalle, occorreva attendere che un rovescio politico lo indebolisse al punto da renderlo vulnerabile.

(14 - Continua)


Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di mercoledì  4 novembre  2009,  pag. 12- 13 -14.

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