In passato anche sui nostri monti Lessini quasi tutti i proprietari terrieri che utilizzavano la manovalanza (“i laorenti a jornàda”) per i lavori nei campi, quali ad esempio i “segàti”, usavano somministrare a ciascun operaio circa un litro di vino al giorno; per questo uso erano soliti produrre e/o acquistare una certa quantità di vino “annacquato” e acidulo.
Questa bevanda, le cui origini si perdono nella notte dei
tempi, in passato era conosciuta con varie denominazioni, nel veronese ed in
Lessinia in particolare era noto come “graspìa
o vìn piccolo”; si otteneva
dall’acqua pura versata nella vinaccia e lasciata per più giorni in
fermentazione nel tino.
Essa generalmente difettava di grado alcolico e tendeva con
facilità ad alterarsi, ma ciò dipendeva esclusivamente dalla mancata conoscenza
dell’epoca di saper ottimizzare il processo per poter ottenere buoni risultati.
Spesso l’errore dei nostri montanari consisteva nel versare
nella vinaccia in un sol tempo una sproporzionata quantità di acqua, causa per
la quale non si sviluppava la fermentazione vinosa; nonostante avessero usato
la vinaccia non sottoposta allo strettoio si otteneva quasi sempre un pessimo
vinello che comunque in tempi di miseria, in difetto di altre alternative,
veniva ingurgitato avidamente.
Si doveva invece avere l’accorgimento di versare nella
vinaccia una quantità di acqua incapace ad impedire lo sviluppo della
fermentazione, si doveva agitare la massa e dopo ore 24 si doveva versare un’identica
quantità di acqua, e si così si doveva procedere fino a che l’acqua non avesse
raggiunto la vera proporzione, la quale su per giù dava comunque un qualcosa di
bevibile.
La proporzione all’incirca era che una vinaccia in grado di
dare mille litri di vino, avrebbe dato circa duecento litri di “graspìa”.
Questa proporzione poteva essere accresciuta se nella
vinaccia si versava dello zucchero, del miele, della gomma e del sale di
tartaro per correggere la eventuale mediocre qualità del vino da esso estratto.
Usando questo procedimento con vinaccia non sottoposta allo
strettoio (“el torcolo”) si otteneva un vinello acidulo, appunto la “graspìa”,
impiegato per l’uso domestico e per dissetare i contadini nel duro lavoro dei
campi.
Se mantenuto in luogo fresco poteva conservarsi per lungo
tempo, anche se in fondo la “graspìa” rimaneva pur sempre “el vìn dei pitòchi”
(il vino dei poveri), visto infatti che il vino vero e proprio erano ben pochi
a poterselo permettere.
Fonte: da
Focebook di Alfred Sternberg, del 25 giugno 2017-06-23
Nessun commento:
Posta un commento