2 maggio 2013
Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente
della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha
smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’
il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi
esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo
Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da
quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando
crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese
della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di
rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo
elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non
mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta”
corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia
all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto
dirigente di Stato, fornisce a Claudio
Messora per il Nino Galloni per il blog “Byoblu”.
All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni
era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista
europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca.
Non era “provincialismo storico”: Andreotti
era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè.
Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo
gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da
Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a
metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex
super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché
il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la
domanda decisiva: “Ci sono state
pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare
quello che stiamo facendo?”. Andreotti Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile”
tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici,
prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due
episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico
Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica
propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette
Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo
Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato
dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate
con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e
israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei
neo-brigatisti: «Kissinger
gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro
di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti
dell’omicidio Mattei, a lungo
presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del
fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De
Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza
mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana Ciampi avrebbe
provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.
Alla fine degli anni
‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva
dell’Italia come competitor strategico: Ciampi,
Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano
per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe
politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la
prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca
d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e,
di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il
rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi
(da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico
esploderà fino a superare il Pil. Non è
un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato,
disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i
cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti
pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella
riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia
stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria
privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella
produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia
non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in
un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì
in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea
di introdurre forme di
flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la
precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di
quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle
imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto».
Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni
– feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i
50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano
la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli
di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano
tantissimo e quindi si guadagnava di più Agnelli facendo investimenti
finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio
della nostra deindustrializzazione».
Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente
compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il
nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di
dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di
grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni:
«Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti
pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni
strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a
partecipazione statale», il “motore” di
sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione:
«Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro
dell’industria «teorizzò che le
strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri,
gestita da Prodi in collaborazione
col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un
colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca
Commerciale Italiana, il Banco di
Roma, il Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del
“Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche
di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a
concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro,
con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di
oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso
delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un
trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil
mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo
della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta,
puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche
allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per
garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della
“catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia”
nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri
studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri
paga».
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con
queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché
nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca
prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè
speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei
valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che
l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad
immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da
questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la
falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha
trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi
di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».
Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche,
non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che
ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle
banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite».
Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma
dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a
casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e
poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le
banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di
nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel
lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra
Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida,
completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso
nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della
spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio
di bilancio.
Per l’Europa “lacrime
e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo.
«Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di
bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E
in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla
depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del
disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica
europea: bisogna tornare alla sovranità
monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema.
Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero
che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito,
semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse»,
che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito
non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito
pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300
miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando
sul lastrico il popolo greco.
Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo
contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda
effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni,
vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita
ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto
in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio
nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande
complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg,
Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10,
gli “Illuminati di Baviera”: sono
tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si
riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema
vero è che «non trovano resistenza da
parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il
potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale».
Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la
penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli
“Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita
dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush,
padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che,
dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro
ascesa».
Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato
nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera
(con Clinton) allo strapotere di
Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy,
secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che
hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente
“ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi
ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista.
L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà
di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che
Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello
dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria
manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel
mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della
green economy e quello Xi Jinping, nuovo
leader cinese della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso
mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria
sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista
che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle
organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per
contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari
dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono
stati attratti «in un’area di consenso
per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo
fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata,
che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles,
funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della
Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore
peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini,
quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di
tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato
democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere
la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano
spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è
disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».
Fonte: Visto su Come
Don Chisciotte del 2 maggio
2013
MESSORA: Nino
Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro; uno che di cose in
questo paese ne ha viste tante. Nino, buongiorno.
GALLONI: Buongiorno!
MESSORA: Benvenuto su
byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito
dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube,
intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo
racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa
decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di
deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché
mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento,
questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via
via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le
puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da
molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al
focus?
GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo
necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi
cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di
certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà
una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore
decisivo una trentina di anni dopo.
MESSORA: gli Stati
Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.
GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché
chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei
comunisti dal governo. In realtà Togliatti, giustamente, si lamentava del fatto
che ci fosse questo ricatto, ma era perfettamente consapevole di doverlo fare
di uscire dal governo, anche perché tutto sommato alla Russia stalinista non
faceva comodo un Partito Comunista al governo, come poi trent’anni dopo non
farà scomodo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che tutto sommato era
stato additato come interessato a fare avvicinare i comunisti all’area di
governo, cosa che poi potrebbe essere sfatata.
Ma torniamo all’industria. Quindi nel 1947 la produzione
industriale, per non parlare della produzione agricola italiana, è a livelli
del 1938. Il paese è semidistrutto. Tuttavia inizia una ricostruzione. Ad un
certo punto di questa ricostruzione, in cui hanno un ruolo le industrie
energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente
anche il nucleare, ci si trova già negli anni ’60 nel miracolo. Cioè piccole
industrie, grandi industrie, industrie a partecipazione statale, soprattutto, e
anche cooperative, trainano l’Italia in una situazione completamente diversa.
Negli anni ’70 scopriamo che abbiamo superato l’Inghilterra, scopriamo che ci
stiamo avvicinando alla Francia, scopriamo che possiamo, dal punto di vista
manifatturiero, andare a dar fastidio alla Germania. Nel ’71 si sgancia la
moneta dall’oro e questo rende teoricamente tutto più facile: gli aumenti
salariali anche in termini reali, la spartizione dei guadagni di produttività
che va in parte ai lavoratori e quindi aumentano i consumi, aumentano le
vendite, aumenta il valore delle imprese. Questo è un concetto fondamentale che
oggi è stato completamente dimenticato. Oggi la consapevolezza e l’orizzonte
delle imprese – e di questo ha grave responsabilità la Confindustria – è
ridotto all’immediato, al profitto annuale. Le imprese dovrebbero traguardare obiettivi
di crescita del valore delle imprese stesse, in modo di contrattare poi con le
banche tassi di interesse buoni e invece manca completamente questa
consapevolezza.
MESSORA: Negli anni
’70 eravamo all’apice.
GALLONI: All’apice. Diciamo che forse l’anno di maggior
crescita è proprio il ’78, che è l’anno, non a caso, del rapimento di Moro.
MESSORA: Cioè noi
stavamo raggiungendo e superando le altre economie avanzate.
GALLONI: C’erano stati altri segnali gravissimi di attacco
al sistema italiano, come appunto l’omicidio di Mattei, ordinato perché aveva
pestato i piedi alle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, trovando una formula che
ci aveva dato una posizione nel Mediterraneo veramente ragguardevole dal punto
di vista della politica estera. E non ci dimentichiamo che Moro era amico degli
arabi moderati, quindi aveva contro Israele e aveva contro gli arabi
estremisti. Poi abbiamo visto che aveva contro la Russia, che non voleva un
avvicinamento del Partito Comunista Italiano al governo e anzi mal sopportava
l’importanza in Europa di questo grande partito, e gli americani che temevano –
questa è la versione non dico ufficiale, ma su cui concordano molti
osservatori, che dobbiamo (va citato in questo caso) alla ricostruzione di mio
padre, che era principale collaboratore di Moro a quei tempi – che
l’avvicinamento del Partito Comunista all’area di governo, secondo i loro
centri studi, i loro servizi, avrebbe potuto vanificare il principale piano
strategico di difesa dell’Occidente nei confronti della Russia sovietica, che
aveva una supremazia evidente di terra. Quindi un’avanzata dei carri armati
sovietici attraverso la Germania orientale, poteva essere fermata prima che i
carri arrivassero nella Germania occidentale solo con degli ordigni atomici
tattici che erano necessariamente e solo piazzabili e piazzati nel Nord-Est
dell’Italia. Quindi se non si poteva fermare con armi atomiche nucleari
tattiche l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente, l’Europa era persa
e quindi gli americani se ne sarebbero dovuti andare dall’Europa,
conseguentemente dal Mediterraneo che – teniamolo sempre presente – è
l’ombelico del mondo.
Ma questo è un quadro teorico.
MESSORA: Spieghiamolo
bene. Cosa c’entra Moro in questo quadro? Cosa c’entra Moro con le bombe nucleari?
GALLONI: c’entra! Perché se Moro faceva riavvicinare i
comunisti al governo, si pensava che i comunisti avrebbero posto un veto
all’uso di ordigni nucleari, anche nel caso di un’avanzata dei carri armati
sovietici verso occidente. Ma erano scenari che gli americani fanno
continuamente, non è detto che le politiche si debbano ispirare a quello.
Però c’è un fatto di cui ci sono testimonianze certe, anche
della famiglia di Moro: Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di
morte poco tempo prima, Moro lo aveva riferito alla famiglia e la famiglia
aveva detto “ritirati dalla politica”, cosa che poi lui non aveva fatto, ma non
si sa poi che cosa avesse in mente di fare dopo quel fatidico marzo 1978.
MESSORA: Quindi le
Brigate Rosse in realtà avevano avuto un ruolo…
GALLONI: Dobbiamo distinguere le prime Brigate Rosse, per
capirci quelle di Curcio, che erano un fenomeno promanante dall’incontro tra
l’estremismo, un certo tipo di estremismo marxista-leninista, che bene o male
aveva un legame col Partito Comunista, anche se lontano, e forze che tutto
sommato, partigiani ed ex partigiani che avevano conservato le armi, anche
perché si sapeva che dall’altra parte c’era la minaccia; tutti gli anni ’70, e
forse anche prima, sono stati vissuti con l’idea che potesse esserci un golpe
di destra, quindi partigiani ed ex partigiani avevano conservato armi,
soprattutto nel nord. Quindi una certa continuità col terrorismo si può anche
vedere. Le seconde Brigate Rosse, quelle che – per capirci – rapirono Moro, eccetera,
invece sono fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con
i servizi americani, israeliani; ci sono evidenze ormai incontrovertibili su
questa lettura.
Torniamo all’industria. Il problema qual è? Il problema è
che in pratica il gioco è: quanto e come ci avviciniamo all’Europa, quanto e
come sviluppiamo l’economia italiana, che già appunto era arrivata a livelli,
come abbiamo detto, di eccellenza. Allora ci sono due strategie,
fondamentalmente. C’è la strategia più moderata che vuole l’Europa e che faceva
capo anche a Moro, ma che faceva capo anche a Paolo Baffi, governatore della
Banca d’Italia, e ad altri personaggi del mondo economico e finanziario
italiano, e poi invece emerge una posizione più estremista, pro Europa, che praticamente
fa propria l’idea che si debba combattere la classe politica corrotta e
clientelare e tutte le sue espressioni facenti capo fondamentalmente alla
Democrazia Cristiana e ai suoi partiti alleati, compreso il Partito Socialista,
e che per questo si debbano anche cedere porzioni di sovranità, e si comincia
con la sovranità monetaria.
MESSORA: Ma chi si
faceva propugnatore di questa tesi?
GALLONI: Intanto era cambiata la dirigenza della Banca
d’Italia ed era passata la linea, diciamo, più estremista sull’Europa, facente
capo a Carlo Azeglio Ciampi. Poi la sinistra democristiana era divisa tra la
sinistra sociale, che faceva capo a Donat-Cattin, che era su posizioni
euromoderate, e la sinistra politica, che faceva capo a De Mita e soprattutto a
Beniamino Andreatta, che invece era su posizioni euroestremiste e
giustificavano questa rinuncia alla sovranità monetaria, cioè alla possibilità
dello Stato di fare investimenti pubblici produttivi, per impedire alla classe
politica stessa, corrotta e clientelare, di avere potere. Quindi per sottrarre
potere alla classe politica, si cominciò a rinunciare alla sovranità monetaria,
quindi agli investimenti pubblici. Quindi la classe politica poi si trovò ad
occuparsi solo di nomine, di poltrone, eccetera, perché non c’era più da
discutere gli investimenti pubblici che ormai dovevano minimizzarsi. Degli
investimenti pubblici la componente più importante era sicuramente quella
riguardante le partecipazioni statali, l’energia, i trasporti e via dicendo,
dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale.
MESSORA: Mario Monti
era molto vicino a De Mita, quindi potremmo dire che già da allora era un
euroestremista.
GALLONI: Di Monti mi ricordo la posizione sulla scala
mobile, che era stata considerata interessante da Donat-Cattin, però poi, per
il resto, era sicuramente un rappresentante della scuola monetarista, non era
un keynesiano. I keynesiani si stavano abbandonando. Anche Andreatta, pur
essendo stato un keynesiano, era entrato in quella che noi chiamiamo “la corrente
neo-keynesiana”, li chiamiamo anche “keynesiani bastardi”, di cui il maggior
rappresentante era il premio Nobel Modigliani, i quali proponevano appunto
questo passaggio rispetto alla moneta che impedisse alla classe politica di
decidere investimenti in infrastrutture per lo sviluppo industriale, per lo
sviluppo del paese. Ecco, questo è stato un errore cruciale che ha determinato
poi l’esplosione dei tassi di interesse e quindi del debito pubblico, ma
soprattutto l’accorciamento di orizzonte delle imprese industriali che
assumevano sempre di meno perché dovevano valutare il profitto immediato e non
potevano stare a fare grandi progetti industriali. Quindi quello che accadde
per gli investimenti pubblici, accadde anche per gli investimenti privati, a causa
degli alti tassi di interesse.
Io negli anni ’80 feci una ricerca che dimostrava che i 50
gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la
stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività
produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i
titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più
facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi.
Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione.
Il passaggio successivo però è molto più grave e riguarda
appunto il periodo che va dalla fine degli anni ’80 all’inizio delle
privatizzazioni.
MESSORA: Ci
arriviamo. Ci spieghi però, a noi che non siamo economisti, come si lega questa
nuova politica monetarista con l’esplosione dei tassi di interesse? Questo
passaggio tecnico ce lo spieghi un po’?
GALLONI: Fino al 1981 la Banca d’Italia, se un’emissione di
obbligazioni pubbliche che servivano per ottenere moneta da parte dello Stato
non veniva completamente coperta, comprava lei il restante, quindi era la
compratrice di ultima istanza, come diceva il mio maestro Federico Caffè.
Questo faceva sì che se l’emissione avveniva a un tasso di interesse basso,
mettiamo del 3%, e una parte non veniva comprata proprio perché il rendimento
era basso, la Banca d’Italia comprava quello che avanzava e quindi emetteva
moneta.
Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, era data
alla Banca d’Italia la facoltà di non essere obbligata… Sembra un po’ un gioco
di parole però, in fondo, lo stesso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, di
cui stiamo parlando, non è che obbligava la Banca d’Italia a non comprare
titoli, le dava la facoltà di non farlo e la pratica, voluta da Carlo Azeglio
Ciampi, fu di applicare questo divorzio in modo letterale. Per la cronaca,
ricordo che l’Inghilterra aveva le stesse regole, perché noi copiammo quelle,
ma non le praticava. Cioè la Banca d’Inghilterra, quando serviva, stampava
sterline a gogò, mentre la Banca d’Italia si irrigidì su quella facoltà che le
era stata riconosciuta attraverso una semplice lettera del Ministro del Tesoro
Beniamino Andreatta, e quindi la parte di emissione obbligazionaria che non
veniva coperta, causava un aumento del tasso di interesse finché non si
piazzava questo residuo, ma poi questo tasso di interesse andava ad essere
applicato su tutta l’emissione della mattinata. Quindi in questo modo c’è stata
una rincorsa dei tassi di interesse verso l’alto.
In effetti io feci un appunto e ci fu una discussione col
Ministro del Tesoro, in cui dimostrai oltre ogni ragionevole dubbio, applicando
semplicissimi tassi di capitalizzazione – come sanno tutti gli economisti – che
il debito pubblico sarebbe raddoppiato e avrebbe superato il Pil. Addirittura mi
dissero che il debito pubblico non poteva superare il Pil, se no il sistema
saltava, al che io gli feci presente che non era così, perché il debito è uno
stock e il Pil è un flusso. Ma avevano deciso una cosa e non volevano più
cambiarla, non accettavano né le critiche di Federico Caffè né quelle di Paolo
Leon, figuriamoci le mie! Per cui poi litigammo e io andai via da quella
amministrazione. E siamo a metà degli anni ’80. Il peggio deve ancora arrivare.
MESSORA: Lo scopo era
soltanto quello nobile di sottrarre alla politica la gestione dei soldi e
quindi andare verso un’Europa che avrebbe potuto salvarli in qualche maniera, o
c’era anche sotto una strategia che poi avrebbe portato al nostro processo non
solo di deindustrializzazione ma anche di privatizzazione? Qual è stata
la road map successiva?
GALLONI: Nel mio ultimo libro “Chi ha tradito l’economia
italiana”, infatti, affronto questo problema e identifico due tipi di
personaggi, cioè quelli che in buona fede volevano fare i salvatori della
patria, come hai ricordato tu, ma anche quelli che traguardavano nella
possibilità di una svendita delle partecipazioni statali, nelle privatizzazioni
– allora si chiamavano dismissioni – la possibilità di fare immensi profitti,
come fu. Quindi c’è stata anche una parte di questa componente, diciamo così,
anti-statalista, anti-italiana, anti-sviluppista, che ha fatto affari
strepitosi e su cui qualcuno, infatti, ha proposto una commissione di indagine
parlamentare.
MESSORA: arriviamo
quindi, con questo ragionamento, all’inizio degli anni ’90.
GALLONI: Sì. Diciamo che c’è il passaggio successivo. È
prima dell’inizio degli anni ’90, perché all’inizio degli anni ’90 avviene il
crollo del sistema monetario europeo, perché non era sostenibile per la
semplice ragione che produceva tassi di interesse più alti per i paesi deboli,
che quindi si indebolivano di più, e tassi di interesse più bassi per i paesi
forti, che quindi si rafforzavano di più.
Ad un certo punto il sistema è saltato, ma era prevedibile.
Ma noi ci dobbiamo rapportare, raccontando gli eventi, al tempo in cui
accadevano, perché col senno del poi siamo tutti bravi. Nell’89 è emerso,
qualcuno aveva detto – lì entra in gioco l’oscuro funzionario,
probabilmente-, l’apice della classe politica italiana, che tutto sommato
faceva capo in quel momento a Giulio Andreotti, capisce che bisogna trovare una
strada un po’ diversa, perché se no si compromettono gli interessi nazionali.
Tra le altre cose, quindi, mi manda un biglietto, mi scrive Giulio Andreotti e
mi dice “caro dottore, vuole collaborare con noi per cambiare l’economia di
questo paese?”. Al che io entusiasticamente aderisco.
Per farla breve io mi trovo al vertice del Ministero del
Bilancio, che era il ministero cruciale, alla fine dell’estate del 1989. Quindi
in quel momento Andreotti era più vicino alle posizioni americane e più lontano
dalle posizioni europeistiche estreme. Passano poche settimane, perché dalla
fine di agosto dell’89, quando io ho ripreso servizio al mio ex ministero, fino
a quando praticamente vengo di nuovo estromesso, che è novembre, passano due
mesi praticamente. In questi due mesi io metto mano, e si sa in giro che io sto
mettendo mano, ci fu anche un mio incontro molto in tensione con Mario Monti
alla Bocconi. Io stavo appunto col mio Ministro e ci fu questo scontro
piuttosto forte sul problema della moneta e del debito pubblico; avevamo
posizioni completamente diverse.
MESSORA: La tua qual
era?
GALLONI: La mia era che praticamente si dovesse operare per
abbassare i tassi di interesse in qualunque modo e dimostrai appunto che la
Banca d’Inghilterra aveva lo stesso regime nostro, cioè il divorzio, ma non lo
praticava, quindi quando serviva al paese stampava sterline. Questo era il
problema.
MESSORA: E la sua?
GALLONI: La sua, che si dovesse andare avanti su una
politica di forte europeizzazione e quindi si dovesse continuare con questo
forte debito pubblico. Dopo questo incontro alla Bocconi in effetti si scatena
l’inferno, perché arrivano pressioni dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione
Agnelli, dalla Confindustria e vengo a sapere che persino un certo Helmut Kohl
aveva telefonato al Ministro del Tesoro Guido Carli per dire “c’è qualcuno che
rema contro il nostro progetto”, adesso le parole le ho ricostruite in base a
delle testimonianze dirette, però vengono fatte pressioni sul mio Ministro
affinché io venga messo da parte, cosa che avviene nel giro di un pomeriggio,
nel senso che io ottengo dal Ministro la verità, mi rivela la verità, la
scriviamo su un pezzo di carta perché lui temeva ci fossero dei microfoni, gli
faccio vedere questo pezzetto di carta, dico “ci sono state pressioni anche
dalla Germania sul Ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo
facendo?” e lui mi fece di sì con la testa. Per cui ho mantenuto rispetto per
questa persona, però me ne sono andato.
Che cosa era successo? Che fino all’estate del 1989
Andreotti era contrario alla riunificazione tedesca e questo fatto impediva
qualunque progresso, ovviamente, perché la Germania voleva fare la riunificazione.
MESSORA: e ci fu
quella famosa battuta.
GALLONI: sì, sì. Infatti in quei tempi ad Andreotti chiesero
“ma lei ce l’ha tanto con la Germania?”, dice “no, io amo la Germania. Anzi, la
amo talmente tanto che mi piace che ce ne siano addirittura due!”. Questa era
la frase.
Passano appunto pochi mesi e invece la Germania, pur di
ottenere la riunificazione, si mette d’accordo con la Francia per rinunciare al
marco, che era quello che faceva paura alla Francia. Però perché questo accordo
tra Kohl e Mitterand regga, occorre deindustrializzare l’Italia e indebolire
l’Italia. Perché se no che fanno? Si passa a una moneta unica e l’Italia
poi…
MESSORA: che stava
fiorendo.
GALLONI: stava già perdendo colpi l’industria italiana, da
vari punti di vista, però era una situazione ancora di dominio del panorama
manifatturiero internazionale. Eravamo la quarta potenza che esportava. Voglio
dire, eravamo qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e
manifatturiero. Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli
investimenti pubblici e cose del genere. Dopodiché, ovviamente, si entra nella
stagione delle privatizzazioni spinte, negli anni ’90, in cui praticamente
quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale.
MESSORA: Quindi
decidono la deindustrializzazione. Dopodiché c’è qualcuno che si attiva.
GALLONI: Sì. La deindustrializzazione significa che non si
fanno più politiche industriali. Non ci dimentichiamo che poi c’è stato un
periodo in cui Bersani era Ministro dell’Industria, in cui, diciamolo, teorizzò
che non servivano le strategie industriali. Adesso sta dicendo il contrario, ma
poteva pensarci pure prima. Per dirne una. Non si fanno politiche per le
infrastrutture. Questo è importante, perché è un paese che è molto lungo,
quindi è costoso trasportare le merci da sud a nord, mentre il nord è già in
Europa dal punto di vista geografico e infrastrutturale, il centro e il sud
sono lontani, quindi potenziare le infrastrutture sarebbe stato strategico.
Poi, alla fine degli anni ’90, si introduce la banca
universale, quindi la possibilità per la banca di occuparsi di meno del credito
all’economia e di occuparsi di più di andare a fare attività finanziarie e
speculative che poi avrebbero prodotto solo dei disastri, come sappiamo.
MESSORA: La fine del
Glass-Steagall Act.
GALLONI: Sì, esatto. Poi la mancanza di strategie efficaci
della stessa FIAT, dell’industria privata. Ripeto, in quegli anni la
Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di
flessibilizzazione sempre più forti – che poi avrebbero prodotto la
precarizzazione – aumentare i profitti, quindi una visione poco profonda di
quello che è lo sviluppo industriale, quindi perdita di valore delle imprese,
perché le imprese guadagnano di valore se hanno prospettive di profitto che
dipendono dalle prospettive di vendita. Questo è l’ABC. Se invece difendono il
profitto oggi perché devono realizzare e devono portare ai proprietari una
certa redditività ma poi, voglio dire, compromettono il futuro di un’azienda,
questa perde di valore.
MESSORA: Si narra di
questo incontro sul Britannia. Qual è stato il ruolo anche dell’Inghilterra,
secondo te?
GALLONI: L’Inghilterra non è che avesse un interesse diretto
all’indebolimento dell’Italia nel Mediterraneo, ma ha una strategia complessiva
in Africa e in Medio Oriente, che ha sempre teso ad aumentare i conflitti, il
disordine, e c’è la componente che fa capo alla corona, di cui sono espressione
anche alcuni movimenti ambientalisti, che poi si debba puntare a una riduzione
drastica della popolazione del pianeta; quindi è contraria ad ogni politica che
invece favorisca lo sviluppo così come lo intendiamo comunemente.
MESSORA: Quindi è
vero che sul Britannia si presero delle decisioni?
GALLONI: Qui dobbiamo capirci. Allora, Bilderberg,
Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli Illuminati di Baviera, sono tutte cose
vere. Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decidono delle cose.
Ma non è che le decidono perché veramente le possono decidere, è perché non
trovano resistenza da parte degli Stati. L’obiettivo è quello di togliere di
mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò
che è sovranazionale, multinazionale e internazionale in questo senso.
Dopodiché è ovvio che se gli Stati sono stati indeboliti o addirittura nei
governi ci sono rappresentanti di questi gruppi, che siano il Britannia, il
Bilderberg, gli Illuminati di Baviera, eccetera, negli Stati Uniti d’America
c’era la Confraternita dei Teschi, di cui facevano parte padre e figlio Bush,
che sono diventati presidenti degli Stati Uniti. E’ chiaro che dopo questa
gente risponde a questi gruppi che li hanno, bene o male, agevolati nelle loro
ascese.
MESSORA: Quindi alla
fine decidono.
GALLONI: Ma perché dall’altra parte è mancata, da parte dei
cittadini e degli Stati, una seria resistenza. Quindi praticamente questi
dominano la scena.
MESSORA: Quindi non è
colpa di questi ma è colpa di chi non si oppone abbastanza.
GALLONI: Questi si riuniscono, decidono delle cose, però
rimangono lì. Ci sono sempre stati i circoli dei notabili che hanno deciso
delle cose. Mica è detto che siano riusciti sempre a farle!
MESSORA: Però in
questo caso ci sono riusciti.
GALLONI: In questo caso ci sono riusciti perché non hanno
trovato resistenza.
MESSORA: Quindi è
colpa nostra.
GALLONI: Beh, sì, un po’ sì, secondo me.
MESSORA: L’ignavia
del cittadino che non rivendica il potere.
GALLONI: Sì. Ad esempio l’idea montiana che l’aumento della
base monetaria produca inflazione è stato ciò che ha consentito di attrarre
anche i sindacati in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si
sono fatte a partire dal 1981, quando invece si è dimostrato, anche in tempi
recenti, che l’emissione e l’autorizzazione di mezzi monetari per migliaia,
decine di migliaia di dollari e di euro non ha prodotto l’iper inflazione.
Quindi evidentemente è qualcos’altro che genera l’inflazione, non è la quantità
di moneta. La quantità di moneta può influire sui tassi di interesse attraverso
le tensioni della domanda di essa, ma non è che influiscano direttamente
sull’inflazione. Certo, paradossalmente potrebbe essere il contrario: se la
moneta è poca e i tassi di interesse aumentano, quelli hanno effetti sui
livelli dell’inflazione.
MESSORA: Quindi
l’ignoranza degli attori sociali è stata o anche un certo tornaconto?
GALLONI: Una cosa non esclude l’altra. Diciamo che quelli
che volevano avere un certo tornaconto facevano leva sull’ignoranza dei fatti
monetari, dei partiti, dei sindacati, della classe dirigente e anche una certa
scomparsa della scuola keynesiana dovuta a vari fattori anche oscuri.
MESSORA: Quindi
privatizzazioni. Anni ’90. Cosa succede poi?
GALLONI: Dopo gli anni ’90 la situazione praticamente
comincia a precipitare quando inizia questa crisi, che è il 2001. Quando gli
operatori di borsa si accorgono che anche i titoli che avevano tirato fino a
quel punto, e-commerce, e-economy, prodotti avanzati, eccetera, non danno più
rendimenti crescenti, allora cominciano a svendere e comincia la speculazione
al ribasso. In quelle condizioni le banche, che avevano preso grandi impegni coi
sottoscrittori dei loro titoli, perché erano diventate, come ho ricordato
prima, universali, per garantire questi rendimenti fanno operazioni di
derivazione. Le operazioni di derivazione sono tipo catene di Sant’Antonio: tu
acquisisci denaro per dare i rendimenti e quindi posticipi la possibilità di
dare i rendimenti agli ultimi che ti hanno affidato delle somme. Questa cosa,
si è fatta nel giro di due o tre mesi, perché dopo c’era la ripresa, era sempre
stata fatta dalle banche, è un’operazione tecnica, diciamo così. Quindi di tre
mesi in tre mesi si diceva che arrivava la ripresa. Centri studi, economisti,
osservatori, studiosi, ricercatori, tutti sui loro libri paga, prevedevano di
lì a tre mesi, di lì a sei mesi, la ripresa. Non si sa perché. Perché le politiche
economiche volute per esempio da Bush, tipo la riduzione delle tasse, erano
chiaramente politiche che non avrebbero risolto il problema della crescita. Poi
tutte queste guerre americane, speculazioni, vanificavano la potenza di un
dollaro che se fosse stato destinato a investimenti produttivi, alla ricerca,
alle infrastrutture, eccetera, probabilmente avrebbe creato una situazione
accettabile. Invece non si faceva niente di tutto questo, non si avviavano gli
investimenti produttivi pubblici, perché i privati non investono se non c’è
prospettiva di profitto; come avviene in borsa così avviene nell’economia
reale.
Quindi siamo andati avanti anni e anni con queste operazioni
di derivazione, emissione di altri titoli tossici. Finché si è scoperto, intorno
al 2007, che il sistema bancario era saltato, nel senso che nessuna banca
prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose che
faceva lei stessa, cioè speculazioni in perdita. La massa dei valori persi
dalle banche sui mercati finanziari superava, per la prima volta, la massa di
quello che le famiglie, le imprese e la stessa economia criminale mettevano
dentro il sistema bancario. Di qui la crisi di liquidità che deriva da questo,
cioè che le perdite superavano i depositi e i conti correnti.
A questo punto è intervenuta la FED e ha cominciato a
finanziare le banche, anche europee, nelle loro esigenze di liquidità. La FED
ha emesso, dal 2008 al 2011, 17 mila miliardi di dollari, cioè più del
Pil americano, più di tutto il debito pubblico americano, ha autorizzato o
immesso mezzi monetari in qualche modo e poi ha chiesto all’Europa di fare
altrettanto. L’Europa alla fine del 2011 ha offerto qualche resistenza e poi,
anche con la gestione di Mario Draghi, ha fatto il “quantitative easing”, cioè
dare moneta illimitatamente per consentire alle banche di non soffrire di
questa crisi di liquidità derivante dalle perdite che superano nettamente le
entrate. Ovviamente l’economia è sempre più in crisi, quindi i depositi che
seguono gli investimenti produttivi sono sempre di meno e le perdite, invece,
sono sempre di più.
Allora il problema qual è? Perché continua questo sistema?
Questo sistema continua per due ragioni. La prima è che chi è ai vertici delle
banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite.
Perché non guadagna su quello che sono le performance, come sarebbe logico, ma
guadagna sul numero delle operazioni finanziarie che si compiono, attraverso
algoritmi matematici, sono tantissime nell’unità di tempo. Quindi questa gente
si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi
fiscali e poi le banche possono andare a ramengo. Non vanno a ramengo perché
poi le banche centrali, che sono controllate dalle stesse banche che dovrebbero
andare a ramengo, le riforniscono di liquidità.
MESSORA: Non solo le
banche centrali, anche i governi.
GALLONI: Sì, ma sono le banche centrali che autorizzano i
mezzi monetari.
MESSORA: Ma i Monti
bond? Chi ce li ha messi i soldi?
GALLONI: Sì, però i debiti pubblici sono bruscolini. Nel
caso delle perdite delle banche stiamo parlando di decine di trilioni di
dollari e di euro.
MESSORA: Sì, questo
non lo discuto. Però quello che abbiamo dato di Monti bond, alla fine si
sarebbe risparmiata forse l’IMU agli italiani. Per cui sulle singole famiglie
questo discorso ha valore.
GALLONI: sì, sicuramente sulle singole famiglie. Certo,
avremmo potuto risparmiarci l’IMU invece che darli al Monte dei Paschi. Però è
una piccola cosa rispetto ai 3-4 quadrilioni di titoli tossici che oggi sono in
giro per il mondo. Sono tremila, quattromila trilioni. Un trilione sono
mille miliardi. Quindi stiamo parlando di grandezze stratosferiche. Siccome le
perdite si aggirano sul 10%, mediamente, che è quello che ovviamente questi
titoli non rendono, avremmo bisogno a regime non di qualche decina di trilioni,
come hanno dato oggi le banche centrali alle banche, ma praticamente dai 300 ai
400 trilioni di dollari. Cioè in pratica stiamo parlando di 6 volte il Pil
mondiale. Sono cose spaventose.
MESSORA: Quindi come
se ne esce adesso?
GALLONI: Se ne esce con un accordo tra gli Stati, Cina,
India, Stati Uniti d’America, possibilmente Europa e qualcun altro, che
congelano tutta questa massa, la garantiscono, la trasformano invece in mezzi
monetari che servano per lo sviluppo. Quindi a quel punto poi il problema
diventerebbe la capacità di progettare infrastrutture, voli su Marte,
acchiappare gli asteroidi per farne delle miniere, voglio dire, se ci vogliamo
allargare. Se ci sono queste capacità progettuali, industriali, produttive,
forze disoccupate, eccetera, noi ne usciamo. Diversamente la teoria ci porta a
pensare che potrà esserci una grande botta iperinflattiva che cancellerà tutti
i debiti.
MESSORA: Traduci per
i non capenti.
GALLONI: Allora, dai debiti si esce in vari modi. Primo,
perché si hanno dei redditi che consentono di ripagare in qualche modo i
debiti, e questa è la via maestra, quindi non ci si dovrebbe mai indebitare per
somme che si sa che non si possono ripagare attraverso i nostri redditi; e
questa sarebbe la regola numero uno. Quindi il debito non è un male, il debito
è un bene se tu hai il reddito (nel caso degli Stati il Pil) sufficiente
per poi fronteggiare la situazione. C’è la remissione del debito, che è una
possibilità anche parziale che io ho sollevato in una mia ricerca sulle banche
italiane anni fa, quando ci fu la crisi del 2007-2008, che tutto sommato
agevolerebbe anche le banche e ci metterebbe tutti in condizione di avere
fondamentalmente, per 8 anni, un 5% in più di reddito, riducendo del 40% i
crediti delle banche; questa è un’altra possibilità. E poi c’è l’inflazione che
praticamente, se non ci sono indicizzazioni, si mangia il debito, perché
decresce il valore della moneta e conseguentemente decresce l’importanza del
debito. Queste sono le strade che si possono aprire a livello operativo nei
confronti della gestione del debito.
MESSORA: A livello
nazionale? Per esempio andrebbe bene per l’Italia o parli a livello europeo?
GALLONI: A livello nazionale c’è appunto chi parla di varie
misure riguardanti il debito pubblico. In realtà la cosa migliore sarebbe
riprendere il percorso della crescita e quindi minimizzare l’importanza del
debito rispetto alla ricchezza nazionale. Non ci dimentichiamo che le ricchezze
pubbliche e private in Italia sono 10 volte il Pil, quindi ovviamente ce n’è,
non è che non riusciremmo a ripagare il debito. Però il debito non è che si
deve ripagare, come credono alcuni, il debito sta lì. L’importante è ridurre i
tassi di interesse e che i tassi di interesse siano più bassi dei tassi di
crescita, allora non è un problema. Questo è il modo sano di affrontare il tema
del debito pubblico. Diversamente può succedere, come è successo in Grecia, che
per 300 miseri miliardi di euro poi se ne perdano a livello europeo 3.000 nelle
borse. Allora ci si interroga: ma questa gente si rende conto che agisce non
solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Ma chi
comanda effettivamente in questa Europa si rende conto? Oppure vogliono
obiettivi di questo tipo per poi raggiungere una sorta di asservimento dei
popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati per obiettivi poi
fondamentalmente, come è stato in Italia con le privatizzazioni, di
depredazione, di conquista di guadagni senza lavoro?
MESSORA: Adesso c’è
un altro ciclo di privatizzazioni. Sembra che ci stiamo avvicinando a quello.
GALLONI: Il problema delle privatizzazioni è anche quello
dei prezzi di vendita. Perché se ovviamente, come è successo negli anni ’90, ci
si aggirava intorno ai valori di magazzino, voi capite di che truffa stiamo
parlando. È chiaro che se poi i prezzi di vendita fossero troppo alti, nessuno
comprerebbe. Bisogna trovare una via di mezzo. Ma in realtà bisognerebbe
cercare di ragionare sulle capacità strategiche e sul mantenimento di poli
pubblici di eccellenza che servissero per rilanciare la ricerca, il campo
dell’acquisizione delle migliori tecnologie per il trattamento dei rifiuti, che
per esempio in Italia avrebbe delle prospettive enormi. Non ci dimentichiamo
che in Italia siamo depositari di due brevetti fondamentali, uno è dell’Italgas
e l’altro dell’Ansaldo, per produrre degli apparati relativamente piccoli che
consentono al chiuso, quindi senza emissioni, di trasformare i rifiuti in
energia elettrica e in altri sottoprodotti utili per l’agricoltura e per
l’edilizia.
MESSORA: E dove
stiamo andando in Europa, in questo momento?
GALLONI: Io avevo identificato una spaccatura di
impostazione, anche al momento in cui Monti era diventato Presidente del
Consiglio dei Ministri, tra le posizioni americane e le posizioni europee. In
Europa si diceva “lacrime e sangue. Prima il risanamento dei conti pubblici e
poi lo sviluppo”. Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi
fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non
c’è la ripresa. In condizioni di ripresa è facile ridurre la spesa pubblica, ma
in condizioni recessive ridurre la spesa pubblica significa far aumentare la
recessione con conseguenze sulle entrate e sulle uscite.
MESSORA: ma è
possibile, secondo te, che questi non lo sanno?
GALLONI: Ma bisogna vedere quali sono i loro obiettivi.
MESSORA: Quali sono?
GALLONI: E che ne so quali sono i loro obiettivi?
MESSORA: Si possono
immaginare?
GALLONI: Sono obiettivi anche di asservimento dei popoli,
chiaramente. Mentre la posizione americana era una posizione di sviluppo,
cercando di non peggiorare i conti pubblici, che già è una versione
possibilista. Ma non è la concezione né di Monti né della Merkel né del polo
europeo, chiaramente. Quindi al momento le uniche speranze sono quelle di una
politica nuova che reintroduca la Glass-Steagall, che riproponga la sovranità
monetaria a livello europeo o se no si torni alle valute nazionali o al limite alla
doppia circolazione, che sarebbe assolutamente sostenibile.
MESSORA: Valuta
nazionale più euro?
GALLONI: Sì. Terza cosa da fare è un gestione diversa dei
debiti pubblici, tranquillizzante, perché ci sono tanti altri modi per gestire
i debiti pubblici. In parte qualcosa, addirittura, è stato anticipato da Draghi
che è intervenuto sul mercato secondario raffreddando gli spread. Quindi
praticamente forse Draghi ha fatto una retromarcia rispetto alle decisioni
dell’inizio degli anni ’80 dei cosiddetti divorzi tra governi e banche
centrali. Poi in Italia dobbiamo assolutamente riposizionare la pubblica
amministrazione. Oggi è piazzata in modo di creare un’alleanza tra irregolari e
criminali. Questo ci porta a una sconfitta. La pubblica amministrazione si deve
piazzare in un altro modo, si deve piazzare tra gli irregolari e i criminali. I
criminali li deve trattare come meritano, con gli irregolari, invece, deve
avere tutto un altro atteggiamento, cioè deve essere la stessa pubblica
amministrazione che deve realizzare gli adempimenti previsti dalle normative e
quando c’è scontro, perché spesso c’è scontro tra norma e diritto, tra norma e
buonsenso, tra norma ed equità, il funzionario pubblico deve essere messo in
condizioni di scegliere il diritto, l’equità e il buonsenso e vedere di
tutelarsi rispetto alla arida applicazione della norma. Se non si fa questo non
si va da nessuna parte. E poi, quello che è forse più importante e che riassume
un po’ tutto, dobbiamo acquisire quelle strepitose tecnologie oggi a disposizione
dell’umanità, che rimetteranno in gioco tutti gli equilibri geopolitici a
livello internazionale e a livello locale, ma che sono la nostra più grande
speranza per l’ambiente e per lo sviluppo, per esempio tutte le tecnologie di
trasformazione e di trattamento dei rifiuti solidi urbani. Ci sono, ripeto,
delle tecnologie, alcune sono già applicate, ad esempio a Berlino si stanno
applicando. Tu vai a conferire i tuoi rifiuti e ti danno dei soldi, poi ricevi
energia gratis, non inquini, non ci sono i cassonetti per strada, non ci sono i
mezzi comunali o municipali che intralciano il traffico per trasportare
l’immondizia, non ci sono cattivi odori, non ci sono emissioni nocive. Questo è
fondamentale. L’azzeramento delle emissioni genotossiche e la limitazione di
quelle tossiche nell’ambito dei parametri internazionali.
MESSORA: Facciamo un
ragionamento sullo scenario geopolitico globale. Spiegaci come si bilanciano
gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa con quelli della Cina, se
questi Stati Uniti d’Europa convengono oppure no agli Stati Uniti, se c’è una
pressione, secondo te, da parte loro e in che modo la Cina può influire in
questo processo, se è un influsso positivo o negativo. Lanciamoci in queste
speculazioni.
GALLONI: Diciamo che dopo Kennedy gli Stati Uniti sono
sempre più risultati preda dei britannici. È lì che c’è un nodo fondamentale da
sciogliere. Peraltro gli Stati Uniti hanno drammaticamente cercato, in
determinate situazioni regionali, come può essere la più importante il
Mediterraneo, dei partner adeguati. L’Italia questa partita non se l’è saputa
giocare dopo la caduta del muro di Berlino, per le ragioni che dicevamo
all’inizio. La Cina si sta avvicinando agli Stati Uniti d’America sotto certi
profili, ma è ancora lontanissima sotto altri profili. Non dobbiamo neanche
sopravvalutare certi comparti manifatturieri, che se anche fossero totalmente
ceduti alla Cina e all’India – ma c’è anche il Brasile, c’è anche il Sud
Africa, ci sono tante altre realtà emergenti nel pianeta – non sarebbe un
dramma. Il problema è che noi abbiamo un futuro, ad esempio nei nostri rapporti
con la Cina, se capiamo che non dobbiamo andare lì in Cina per fare un business
qualunque, ma se capiamo che cedendo anche parti delle nostre produzioni industriali
e manifatturiere, otteniamo però una maggiore penetrazione rispetto ai nostri
prodotti di qualità, di eccellenza, perché non ci dimentichiamo che stiamo
confrontando un mercato di 60 milioni di persone con un mercato che è 20 volte
più grande. Quindi è chiaro che se noi rinunciamo a qualche cosa, ma riusciamo
anche ad esportare un po’, quel po’ moltiplicato per la domanda che in questo
momento sta crescendo, ci dà tutto un altro risultato.
Però della Cina parlerei da un altro punto di vista.
All’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese è stato deciso un grande
cambiamento di rotta, cioè di puntare di più sulla crescita della domanda
interna e di meno sulle esportazioni. Questo potrebbe essere l’inizio della
fine della cosiddetta globalizzazione. Non ci dimentichiamo che la
globalizzazione è il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga
di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta
l’ambiente, quello che non rispetta la salute. Questa è la causa principale
delle crisi che stiamo vivendo: che invece di premiare il produttore migliore,
abbiamo premiato il produttore peggiore. Questo ha danneggiato le industrie
europee e soprattutto l’industria italiana, chiaramente. E non solo
l’industria, anche l’agricoltura.
MESSORA: Perché si
demanda la questione della tutela dei diritti oltre il confine, dove non c’è un
controllo.
GALLONI: Si deve rimettere in piedi l’economia, nel senso
che deve avere tutta la sua importanza l’economia reale. L’economia reale deve
avere una finanza che la aiuta. Poi se c’è un’altra finanza che va a fare
disastri da qualche altra parte, che non influiscano sull’economia reale, sulla
vita dei cittadini. Questo deve essere il primo punto che corrisponde alla
reintroduzione della legge Glass-Steagall in pratica. Per questo possono essere
utili le doppie e le triple circolazioni monetarie, le monete complementari e
addirittura la reintroduzione di monete nazionali, pure in presenza di una
moneta internazionale.
MESSORA: Ma per
scontrarsi o per far fronte alla Cina è necessario avere gli Stati Uniti
d’Europa o basta anche il piccolo guscio di noce italiano, come alcuni dicono?
GALLONI: Io non penso che ci si debba scontrare o frenare la
Cina. Bisogna avere delle strategie industriali, e non solo industriali, in
grado di difendere i nostri interessi, i nostri valori, i nostri principi, le
nostre vocazioni. Dopodiché ci si confronta con i cinesi e si vede quali sono
le sinergie che possono essere messe in campo. Si deve fare un discorso di carattere
strategico, secondo me.
MESSORA: Ma la
politica di Nino Galloni quale sarebbe? Uscire dall’euro e recuperare sovranità
monetaria o puntare sul “più Europa”?
GALLONI: A me interessa che ci siano spese in disavanzo,
perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione è un crimine puntare al pareggio di
bilancio. Ovviamente se gli Stati hanno pareggio di bilancio, è possibile che
l’Europa faccia gli investimenti in disavanzo, e allora mi sta benissimo
l’euro.
MESSORA: Cosa che non
c’è.
GALLONI: Cosa che non c’è, ma è il terzo passaggio che
potrebbe essere favorito dalla gestione Draghi. Io non lo escludo. Perché chi
immaginava che avrebbero dato mezzi monetari illimitatamente alle banche? Chi
immaginava che sarebbero intervenuti per raffreddare gli spread acquistando i
titoli pubblici sui mercati? Adesso il terzo e ultimo passaggio è quello di
accettare di autorizzare mezzi monetari per la ripresa, per lo sviluppo, per
gli investimenti produttivi. L’importante però è che questo non avvenga in una
logica di quantitative easing. Cioè la politica monetaria sbagliata può
impedire lo sviluppo, ma la politica monetaria giusta non produce lo sviluppo.
Cioè la moneta è una condizione necessaria, ma non sufficiente dello sviluppo.
Quindi non basta approntare mezzi monetari a gogò e allora
si acchiappa lo sviluppo. Questa è una visione di tipo liberista riguardante le
emissioni monetarie. In realtà bisogna fare dei progetti di infrastrutture, di
ricerca, di ripresa industriale, di salvaguardia della salute e degli interessi
dei cittadini e soprattutto dell’ambiente, e sulla base di queste grandi
strategie approntare i mezzi monetari che certamente non sarebbero scarsi.
Quindi se io dovessi ripetere i miei punti fondamentali, immediati: una legge
che ripristini la netta separazione tra i soggetti che fanno speculazioni
finanziarie sui mercati internazionali dai soggetti che devono fare credito
all’economia. Perché la prima cosa è il credito, la più grande componente della
moneta, il 94% della moneta è credito.
Poi il discorso della sovranità monetaria, come ho detto
prima. O gli Stati o l’Unione Europea devono fare spese in disavanzo per
acchiappare la ripresa. Una diversa gestione dei debiti pubblici, che è
possibile, un diverso posizionamento della pubblica amministrazione, perché il
cittadino deve vedere un amico nello Stato, nella pubblica amministrazione,
quindi fermare anche questo progetto di polizia europea senza controlli che
potrebbe compiere qualunque azione senza dover rispondere a nessuna autorità.
MESSORA: Eurogendorf
con base in Italia a Vicenza.
GALLONI: Quinto: acquisizione di tutte quelle grandi
tecnologie che oggi sono a disposizione dell’umanità per migliorare veramente
le condizioni di vita di tutti.
MESSORA: L’ultima domanda.
Tedeschi cattivi? Amici o buoni?
GALLONI: I tedeschi sono posizionati nella storia e nella
geografia in modo di doversi in qualche modo espandere. Se devono assumere una
posizione di leader, devono anche accettare di rivedere le proprie politiche estere.
Quindi un paese che voglia essere leader, come sono stati gli Stati Uniti
d’America, importano più di quello che esportano. Se i tedeschi non accettano
di importare più di quello che esportano, non possono neanche pretendere di
essere leader.
Fonte: visto su BYOBLU del 29 aprile
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