Suor Maria Giacoma Alocco, in arte, Suor Cariola
“Suor Carriola”. Chi non conosce suor Maria Giacoma Alocco potrebbe pensare che il soprannome datole dalle consorelle comboniane possa essere irriverente. Ma in questo nomignolo non c’è alcuna mancanza di rispetto. Quel “Carriola” è la vera immagine di questa ultra ottantenne sempre alle prese con la terra e i fiori, la zappa e la pompa dell’acqua.
È una sorta di riassunto di quel saldo legame con la terra, che lei oramai non avverte neanche più, tanto è assodato. «Lo faccio con passione», dice. E quella passione, mentre è china a fare buche per seminare le sue rose, ti sembra quasi palpabile.
Pare vada sempre di fretta Suor Carriola, come se con la terra avesse un appuntamento da non mancare. Un appuntamento per la semina e il raccolto, per l’acqua e le erbacce.
Ma se riesci a distoglierla e le domandi di sé, allora il fiume della sua memoria irrompe. E puoi sentirle raccontare della sua gioventù a Cuneo, dei suoi sei fratelli e sorelle, della sua vocazione, di quello che avrebbe voluto fare ma la storia non le ha permesso, e di come oggi, comunque, sia felice.
Ripescando tra i ricordi, ce n’è sempre uno che riaffiora ininterrottamente: quello che racconta del giovane Riccardo e degli anni della seconda guerra mondiale.
Gli anni in cui Maddalena – perché è questo il vero nome di suor Giacoma – faceva da staffetta tra la sua città e un convento di montagna in cui erano rifugiati una ventina di giovani tra partigiani e allievi carabinieri. Ragazzi che avevano preferito nascondersi piuttosto che partecipare ad una guerra non condivisa, alimentare un regime che sentivano distante.
«Partivamo sempre in due, vestite da montagna. Con giacca e gonna di velluto. I documenti erano falsi, se avessero trovato quelli veri avrebbero rischiato con noi anche le nostre famiglie. Non portavamo mai cose da mangiare ma soldi, nascosti all’interno dell’ovatta della fodera della giacca – racconta suor Giacoma –. Consegnavamo le giacche alle suore del convento, loro toglievano i soldi e mettevano dentro le lettere dei ragazzi. Non ci fermavamo neanche per mangiare, tornavamo subito indietro. Il rischio di essere scoperte era davvero grande».
Questo andirivieni per Maddalena dura tutto il periodo della guerra. Fino alla Liberazione, il 25 aprile del 1945. Giorno in cui vorrebbe essere lei a dare la notizia della fine del conflitto ai ragazzi rifugiati nel convento. Ma le cose non vanno così.
«Il Signore aveva scritto dell’altro e mi ha salvata. Era l’ultimo giorno di guerra e i ragazzi avevano voglia di uscire dal loro rifugio. Riccardo decise di andare per primo, in avanscoperta. Non si poteva uscire tutti insieme, il rischio era troppo alto. E fu lui a pagare per tutti. Ad attenderlo fuori, a pochi metri dal convento, c’erano tre fascisti. Quando lo trovai era a terra, con la testa aperta. Non avevo nulla con me, solo un fazzoletto, che gli misi dietro il capo, dove pareva uscisse del cervello. Avevo quindici anni e lui continuava a guardarmi, ripetendo “Nuccia, Nuccia”: il nome della moglie».
Un nome che i tre fascisti pensarono fosse quello di Maddalena.
«Mi puntarono subito il mitra addosso, volevano che facessi il nome di Riccardo per rintracciare la famiglia e che dicessi dov’erano gli altri. Quando risposi che non lo conoscevo e che non ero io la Nuccia che chiamava, sembrarono non credermi. Così alzai gli occhi al cielo e mi feci il segno della croce». A salvarla furono i documenti falsi che teneva ancora nella giacca.
Quando i fascisti se ne andarono, Maddalena rimase sola con Riccardo moribondo. Aiutata da un prete riuscì a trascinare il ragazzo nel salone dell’Azione Cattolica.
«Riccardo continuava a battere una mano contro la gamba. Frugai nella tasca e trovai una lettera per la moglie. “Portagliela”. Riuscii a sussurrarmi. Ma feci di più: andai a chiamarla». In sella alla bicicletta Maddalena attraversò la città invasa dai carri armati. Ancora una volta rischiava la vita per i ragazzi del convento.
«Non riuscii ad andare dritto dalla moglie, mi fermai dal fratello di Riccardo per raccontare quel che era accaduto e insieme andammo a prendere Nuccia». Le due donne, con l’uomo tra di loro, riattraversarono la città. Quando arrivarono, Riccardo fece appena in tempo a vedere la moglie, e spirò.
«È un’immagine che mi ritorna spesso alla mente. Per la quale ringrazio Dio. Aveva atteso la moglie per morire, avevo fatto bene ad andare a chiamarla».
Mentre Suor Carriola finisce di raccontare, capisci da dove nasce quell’energia che avverti mentre la guardi spostare e trasportare piante, caricare e scaricare pietre nel giardino della casa delle comboniane del “Cesiolo”, a Verona. La tempra di questa donna viene da lontano. Il suo sogno era dedicarsi agli altri: ai bambini, ai più deboli, ai «neretti» (come dice lei). Per questo a 25 anni scelse di farsi suora.
«Era un’idea che avevo da tempo, ma che per una serie di cose non ero riuscita a seguire: la morte di mia madre, la guerra e tutto quello che c’era da fare dopo. Poi ho capito che comunque era quella la mia strada. Sognavo di andare in Africa, ma la mia vita ha preso un altro corso e io l’ho seguito. Dal momento in cui ho iniziato il mio cammino come suora mi sono sempre occupata della terra: gli orti e i campi, le vigne e i fiori. Prima a San Pietro in Cariano, in Valpolicella, dove sono stata sette anni, e poi nella Casa Madre di Verona, a Santa Maria in Organo, per 21 anni. Ora non posso più smettere. Finché avrò forza mi dedicherò alla terra. È una cosa che faccio con passione».
Chissà quante cose racconterebbero le mani di Suor Carriola, se solo potessero. I solchi e la ruvidità della sua pelle sembrano la narrazione silenziosa di fatiche lontane e vicine, ma sempre affrontate con il cuore pieno di gioia.
La stessa che ancora oggi le illumina il viso nelle giornate colme di sole, quando con il cappello in testa e la carriola tra le mani la vedi trafficare nel giardino o dentro la serra con un’agilità che dimentica gli ottant’anni.
A San Pietro in Cariano, gli abitanti del paese ancora la ricordano. La generosità di suor Giacoma difficilmente verrà dimenticata da coloro che da questa carriola hanno ricevuto fiori e frutti, cibo e vestiti. Ma non solo, anche armadi e sedie, tavoli e poltrone. L’abitudine di questa suora contadina, che distribuiva tutto quel che veniva portato a Villa Costanza, era nota tra la gente. In molti scaricavano sotto la veranda, sapendo che suor Giacoma avrebbe caricato la sua carriola per ridistribuire tra chi era in difficoltà. Accerchiata da una nuvola di bambini, che volentieri rimanevano in sua compagnia, per sette anni le giornate di Suor Carriola trascorsero così: donando quel che trovava a chi aveva bisogno. Una scelta di vita che l’accompagna da ottant’anni.
Fonte: combonifem / 20. aprile. 2008
1 commento:
Vorrei scrivere una e mail alla redazione VEJa, ma non riesco a contattare.
Per favore mandatemi la Vs Mail GRAZIE
Posta un commento