Donatello e Michelozzo, Battistero di Firenze: Monumento funebre dell'antipapa Giovanni XXIII
Alla morte di Gregorio XI, avvenuta nel 1378 poco dopo il suo ritorno a Roma, 16 cardinali si riunirono in conclave per eleggere il successore: 11 erano francesi, 4 italiani, 1 spagnolo. Il popolo romano, in ansiosa attesa, inscenò clamorose dimostrazioni per sollecitare la nomina del papa: tutti gridavano che volevano «un papa romano, o almanco italiano», nel timore che spostasse di nuovo la sede ad Avignone.
All’unanimità venne scelto l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che in quel momento si trovava a Roma, ma non era cardinale. L’elezione non era stata ancora annunciata che la folla fece irruzione nel conclave: nella confusione del momento, si credette che il nuovo pontefice fosse il vecchio cardinale Francesco Tibaldeschi († settembre 1378), a cui, nonostante il suo imbarazzo, furono tributati onori solenni, mentre i cardinali fuggivano (sei di loro si asserragliarono in Castel S. Angelo), e il popolo metteva a sacco la dimora del cardinale (4.)
URBANO VI
Quando si scoprì l’equivoco, i romani si acquietarono e l’indomani fu intronizzato il vero papa, Urbano VI (1378-1389), l’ultimo scelto al di fuori del collegio cardinalizio. Nei giorni seguenti si svolsero regolarmente concistori e cerimonie; la notizia dell’avvenuta elezione fu comunicata alla cristianità e i cardinali residenti ad Avignone scrissero lettere di congratulazioni. Il nuovo pontefice mostrò subito di avere un carattere orgoglioso e autoritario, uno zelo imprudente nel procedere alla riforma; invano santa Caterina da Siena lo esortava alla moderazione. I cardinali si sentirono offesi, anche perché non confermò tanti loro privilegi e reagirono negativamente. Da tali debolezze ed errori spuntò una crisi che travagliò per circa 40 anni tutta la Chiesa, il cosiddetto grande scisma d’Occidente.
Clemente VII, antipapa
Infatti 13 cardinali si recarono in agosto ad Anagni e di là emanarono un documento contro l’elezione del papa, «forzata e perciò invalida».
Con la protezione del re di Francia e di Napoli, si recarono a Fondi per eleggere un altro pontefice, che risultò il cardinale Roberto di Ginevra, cugino del re francese: si chiamò Clemente VII (1378-1394, antipapa). Tentò di andare a Roma con la forza, ma i soldati di Urbano VI, al comando di Alberico da Barbiano, glielo impedirono (battaglia di Marino, 30 aprile 1379); non gli rimase che ripiegare su Avignone, luogo più tranquillo e ospitale, in attesa di un’occasione propizia per tornare a Roma.
Le conseguenze furono di una gravità eccezionale: esisteva un doppio papato, uno romano e l’altro avignonese; l’Europa cristiana si divise in due «obbedienze», in due campi nemici.
Urbano e Clemente si scomunicarono a vicenda: in tal modo, nominalmente, l’intera cristianità si trovò scomunicata.
Caos, incertezze e confusioni: in molte diocesi si ebbero due vescovi, in parecchi monasteri due abati, in numerose parrocchie due parroci. Perfino gli spiriti più nobili erano nel dubbio: mentre santa Caterina da Siena lottava senza tregua per il riconoscimento di papa Urbano VI, chiamando i cardinali ribelli «menzogneri» e «dimoni incarnati», un grande predicatore come il domenicano spagnolo san Vincenzo Ferrer combatte con altrettanto zelo per il papa Clemente VII, tacciando i «romani» come «eretici» e «sedotti dal demonio»(5).
Scosso e in decadenza il prestigio del pontificato, ognuno dei due papi si affannò a strappare adesioni; le finanze di Roma e di Avignone erano in dissesto; principi e Stati reclamavano nuovi diritti e concessioni; dottrine eterodosse si diffondevano in Boemia e in Inghilterra; soprattutto vacillava la fede nel papato e nella Chiesa visibile.
Con l’andare del tempo, il fascino di Roma s’impose e i sostenitori di Avignone diminuirono: solo l’ostinata convinzione di Benedetto XIII (1394-1423), successore di Clemente VII, e la sua straordinaria longevità (visse fino a 94 anni) mantennero in vigore lo scisma.
In questa atmosfera di attesa e di perplessità, si cercarono i rimedi adatti: da tutte le parti, specie presso i teologi dell’Università di Parigi, si vennero elaborando dei piani per risolvere la crisi. Si pensò alla convocazione di un Concilio generale, concepito come superiore al papa e infallibile nelle sue decisioni: l’Università di Parigi sottoscrisse questa idea nel 1381, ma per il momento non ebbe successo.
L’AFFERMARSI DELLA TEORIA CONCILIARISTA
Più tardi si prospettarono come possibili tre soluzioni:
- 1) che uno dei due papi, o entrambi, abdicassero spontaneamente («via cessionis»);
- 2) o i due accettassero un arbitrato e promettessero di stare alla sentenza emanata («via compromissionis»);
- 3) o accettassero il giudizio insindaca-bile di un Concilio ecumenico («via Concilii»).
Erano queste teorie già state accennate chiaramente negli scritti di Marsilio da Padova e di Guglielmo d'Occam, secondo cui la pienezza dell’autorità della Chiesa non è nelle mani di uno solo, ma nella universitas fidelium: il Concilio, in quanto organo rappresentativo della cristianità, aveva un potere superiore a quello del papa, era quindi sua competenza stabilire quale fosse il papa legittimo. Si manifestò così il trionfo del «conciliarismo».
Ovviamente la situazione politica portò altre complicazioni: congiure e tentati assassini irrigidirono papa Urbano VI, ritenuto da qualche cardinale affetto da disturbi mentali. Nel 1386 egli ne fece giustiziare cinque (tra cui due cardinali provenienti dall’Ordine minorita: fr. Ludovico Donati e fr. Bartolomeo de Cucurno), e questa crudeltà ne rovinò la riputazione. La sua morte nel 1389 fu accolta da molti come una liberazione. Anziché trovare l’accordo, i rispettivi collegi cardinalizi elessero regolarmente i propri candidati. Si ebbe così la seguente serie di papi:
papato romano: Bonifacio IX (1389-1404); Innocenzo VII (1404-1406); Gregorio XII (1406-1415);
serie avignonese: antipapi Clemente VII e Benedetto XIII.
È vero che nel 1407 si arrivò a un passo dalla composizione dello scisma: Gregorio XII e Benedetto XIII si accordarono a Marsiglia di incontrarsi a Savona per concretare la comune abdicazione; ma il primo si fermò a Lucca, e il secondo a La Spezia. La riconciliazione svanì di nuovo in una distanza irraggiungibile.
IL CONCILIO DI PISA (1409): MALEDICTA TRIPLICITAS!
In seguito a tale situazione, 13 cardinali «romani» e quelli della curia «avignonese» si radunarono a Livorno nel 1408 e decisero di convocare un Concilio generale a Pisa per l’anno seguente. I due papi, citati davanti al Concilio, non si presentarono e tennero ciascuno un proprio sinodo. A Pisa, invece, arrivarono 24 cardinali, vescovi, ambasciatori e una folla di 600 partecipanti fra dottori in teologia e diritto.
Prevalse il punto di vista conciliarista, sostenuto dai due cancellieri parigini Pierre d’Ailly († 1420) e Jean Gerson († 1429): entrambi i papi dovevano considerarsi distruttori dell’unità della Chiesa, «eretici e scismatici notori».
Vennero quindi deposti e fu eletto un terzo pontefice: il francescano Pietro Filargio, arcivescovo di Milano, che prese il nome di Alessandro V (1409- 1410). Benché riconosciuto dalla maggior parte degli Stati, il «papa pisano» non ebbe il tempo e l’autorità di imporsi, e così — invece della «diabolica duplicitas» — si ebbe la «maledicta triplicitas».
Gli successe Giovanni XXIII (1410-1415), secondo papa pisano, che si aggiunse ai primi due: più difficile ancora era stabilire chi fosse il pontefice legittimo. L’unica speranza era riposta in un nuovo Concilio generale della Chiesa.
Alcune conclusioni
La storiografia contemporanea è pervenuta a queste conclusioni: il Concilio di Pisa del 1409 non può considerarsi un concilio “ecumenico” perché vi mancò l’accettazione da parte di tutta la Chiesa; non è sufficiente la convergenza delle volontà dei vescovi e degli altri prelati che, accogliendo l’invito dei cardinali, vollero celebrarlo; anche il diritto di convocazione è dubbio.
L’iniziativa dell’imperatore Sigismondo per sanare la situazione
L’arduo compito di convocare il richiesto Concilio generale di unione fra i tre papi in lizza (il romano Gregorio XII, l’avignonese Benedetto XIII e il pisano Giovanni XXIII) fu assunto dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437), sovrano di indiscussa autorità: egli appariva così nelle vesti dell’antico «advocatus Ecclesiae» e del più recente «defensor pacis». Per controllare da vicino i lavori, egli scelse come sede del Concilio la città tedesca di Costanza, sul lago omonimo.
IL CONCILIO DI COSTANZA - SI CHIUDE LO SCISMA
Giovanni XXIII fu il primo a recarsi al Concilio, avendo buone probabilità di essere riconfermato papa: l’imperatore aveva personalmente aderito a lui. Ma quando, per impedire che i prelati italiani (suoi sostenitori) avessero sempre la maggioranza nelle votazioni, fu deciso che si volasse «per nationes» anziché «pro capite», egli fuggì segretamente a Sciaffusa. mettendo in crisi l’assemblea, che non poteva certo eleggere un quarto pontefice.
I Padri conciliari non si preoccuparono e continuarono i lavori, affermando di essere la massima autorità della Chiesa, a cui ogni altra doveva sottomettersi. Questa teoria venne spiegata in un memorabile discorso dal celebre cancelliere parigino Gerson, che valse a mantenere uniti gli animi. Il principio conciliarista era teologicamente errato, ma in quel momento non si trovò niente di meglio per uscire dalla confusione.
Il 6 aprile 1415 venne approvato il decreto «Sacrosancta» in cui si dichiarava:
- 1) il Concilio riunito a Costanza rappresentava tutta la Chiesa e, quindi, era ecumenico;
- 2) il suo potere gli veniva immediatamente da Cristo;
- 3) tutti, compreso quindi il papa, gli dovevano obbedienza. Un’autentica eresia!
Poco dopo, Giovanni XXIII veniva arrestato, ricondotto al Concilio e deposto dal papato (29 maggio 1415): egli vi si rassegnò, avendo capito di aver perso la sua causa.
Restavano gli altri due papi: il novantenne Gregorio XII fece sapere che era disposto ad abdicare, purché si riconoscesse che il Concilio veniva convocato e legittimato da lui. Così avvenne ed egli morì nel 1417 con il titolo di cardinale vescovo di Porto.
Il vecchio Benedetto III rifiutò energicamente di rinunciare al papato, e fu deposto d’autorità come «spergiuro, scismatico ed eretico» (1417). Si ritirò a Peñiscola presso Valencia in Spagna, tenendo una piccola corte fino alla morte (1423), abbandonato anche da san Vincenzo Ferrer.
L’elezione del nuovo papa fu preceduta da lunghe ed aspre discussioni finché, l’11 novembre del 1417, la totalità dei voti cadde sul cardinale Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V († 1431). L’anno seguente egli chiudeva ufficialmente il quarantennale scisma d’Occidente, in qualità di capo universalmente riconosciuto della Chiesa.
Alcune decisioni
Il Concilio di Costanza era durato circa 4 anni alla presenza di oltre 300 vescovi e prelati, 30 cardinali, 33 arcivescovi, molti prìncipi tedeschi con l’imperatore, una folla di clero e di laici, esponenti della nobiltà e della politica: insomma, un congresso di tutti i capi religiosi e civili dell’Occidente cristiano, uno dei più grandi Concili di tutti i tempi (il XVI Concilio ecumenico). Gli elettori furono divisi in cinque nazioni: francese, tedesca, italiana, spagnola e inglese. Ciascuna prendeva le sue decisioni nella propria assemblea nazionale, poi presentava i voti nella sessione generale. Ogni nazione disponeva, evidentemente, di un solo voto. Tre furono i problemi-base che si imposero all’attenzione dei Padri:
-1 la causa dell’unione, cioè la ricomposizione dello scisma;
2 la causa della fede, cioè la sua difesa dalle eresie di Wyclif e di Hus;
-3 la causa della riforma, cioè la riforma della Chiesa «in capite et in membris».
Un importante documento approvato (il 9 ottobre 1417) fu il decreto Frequens, che ordinava una certa “frequenza” di Concili generali: il prossimo entro 5 anni, il seguente dopo altri 7 e poi, regolarmente, ogni 10 anni. Non era che un’applicazione del decreto Sacrosancta, nel senso che costituiva il Concilio come organo di controllo del papato e mezzo per attuare la riforma.
Una serie di altri decreti generali di riforma e di “concordati” toccarono punti disciplinari e amministrativi; furono condannate 45 proposizioni di Wyclif, mentre Hus e il suo seguace Gerolamo da Praga vennero mandati al rogo(6).
Solo nel 1420 Martino V poté entrare in Roma: riordinò le miserabili condizioni dello Stato pontificio e, sebbene fosse un buon papa, poco si curò per l’attuazione della riforma e favorì un po’ troppo la sua Famiglia.
VERSO UN NUOVO CONCILIO
Cresceva intanto l’attesa del nuovo Concilio, che doveva celebrarsi 5 anni dopo la conclusione di quello di Costanza, anche se il papa era preoccupato per le teorie conciliariste. In effetti, nell’aprile del 1423 si aprì a Pavia un nuovo Concilio, ma a causa della peste, fu trasferito l’anno seguente a Siena. Scarsamente frequentato, non emanò alcun decreto, salvo l’impegno di indire un concilio a Basilea nel 1431. L’impegno venne mantenuto da Martino V, che vi designò come presidente il cardinale Cesarini.
Basilea (1431)
Pochi giorni dopo, il papa morì. Gli successe il veneziano Eugenio IV (1431-1447).
Il Concilio venne aperto nella cattedrale di Basilea il 23 luglio del 1431, alla presenza di pochi Padri, nessuno dei quali era vescovo. Il papa allora, temendo il predominio dei conciliaristi, decise di sciogliere l’assemblea e di convocare un altro concilio a Bologna per il 1443, soprattutto per facilitare la partecipazione dei Greci che desideravano l’unione con i Latini.
Sennonché a Basilea si era tenuta la prima sessione conciliare, in cui si era fissato un triplice programma:
1) estirpare l’eresia di Hus in Boemia;
2) ristabilire la pace tra i popoli;
3) riformare la Chiesa.
È naturale quindi che i Padri volessero continuare, e lo stesso cardinal Legato pregò il papa di ritirare la sospensione.
Nella II sessione, il Concilio si autodefinì ecumenico e rinnovò i decreti di Costanza circa la superiorità dei Concilio sul papa (febbraio 1432); nella III sessione si arrivò a intimare, sotto minaccia di processo, a Eugenio IV e ai suoi cardinali di recarsi personalmente a Basilea; nell’autunno l’ordinamento procedurale divenne ancor più democratico, in antitesi con la costituzione gerarchica della Chiesa: il diritto di voto fu esteso a tutti e pro capite. L’esito felice delle trattative con i seguaci di Hus (giunti a Basilea nel 1433), le pressioni esercitate dall’imperatore Sigismondo, le difficoltà politiche nello Stato pontificio spinsero Eugenio IV a riconoscere il Concilio (bolla del 15 dicembre1433).
Fino allora si erano svolte XV sessioni; nella XVI i Padri presero atto che dell’approvazione papale. L’anno seguente il Concilio emanò parecchi decreti di riforma:
- contro i chierici concubinari e contro l’uso indiscriminato delle scomuniche,
- sulla celebrazione devota della santa Messa e sulla recita dell’ufficio divino;
- sull’abolizione delle tasse per la Curia romana;
- norme per l’elezione del papa e la nomina dei cardinali, che non dovevano superare il numero di 24.
Ferrara (1437-1438)
La questione della sede portò a una rottura aperta tra il papa e il Concilio: la maggioranza voleva restare a Basilea; Roma e la minoranza optò per una città italiana, più gradita ai Greci. Nel 1437, Eugenio IV trasferì il Concilio a Ferrara, ma la maggioranza si ribellò, depose come “eretico” il papa e ne elesse un altro (1439), l’antipapa Felice V, l’ex duca di Savoia Amedeo VIlI. Fu l’ultimo scisma nella storia dei papi e il più grave errore del conciliarismo.
Il Concilio di unione con i Greci si riaprì a Ferrara nel 1438 con il cardinale Cesarini, l’umanista Niccolò Cusano e pochi altri vescovi: venne difesa la legittimità del trasferimento e condannata la ribellione dei basileesi. Arrivarono quindi il papa e poi i Greci.
Alla prima seduta comune, nell’aprile del 1438, erano presenti, con Eugenio IV, oltre 150 fra cardinali e vescovi di parte greca, l’imperatore di Costantinopoli, i patriarchi e i metropoliti e un seguito di 700 persone, tutte ospiti del papa; fra essi il dotto Giovanni Bessarione, futuro cardinale di Santa Romana Chiesa e sincero ecumenista. Le trattative furono molto difficili e solo il timore dell’invasione turca a Costantinopoli impedì lo scioglimento del Concilio.
Gli argomenti controversi vennero così fissati:
1) il procedere dello Spirito Santo;
2) l’aggiunta del Filioque nel Credo;
3) l’uso latino del pane azzimo nella Messa;
4) l’epiclesi;
5) la dottrina dei Purgatorio e
6) il primato del romano pontefice.
Firenze (1439-1442): l’unione tra Greci e Latini
Difficoltà di ordine economico e politico, e il pericolo della peste indussero i Padri conciliari ad accettare l’invito munifico di Cosimo de’ Medici a trasferirsi a Firenze nel 1439.
Si accesero le dispute dogmatiche: per opera soprattutto dei priore generale dei Camaldolesi, Ambrogio Traversari, i Greci accolsero la dottrina sulla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e, più rapidamente, tutti gli altri punti. Dopo lunghe dispute fu accettata anche la dottrina del primato papale.
Il 6 luglio 1439, Eugenio IV promulgava la bolla Laetentur caeli, che sanzionava l’unione fra i Greci e i Latini: era il trionfo del papato romano, sia pure sulla carta.
Per contrapporsi al Concilio di Basilea, che rimaneva adunato con intendimenti anti-papali, e poiché erano in corso altre trattative ecumneniche, il Concilio di Firenze continuò anche dopo la partenza dei Greci. Infatti, si unirono alla Chiesa di Roma anche gli Armeni monofisiti (celebre il decretum pro Armenis del 1439) e poi i Giacobiti di Egitto e di Etiopia (1442). Il 25 aprile 1442 il Concilio emigrò a Roma, in Laterano, dove si completò l’unione con altri gruppi di Caldei (nestoriani) e Maroniti (monoteliti) (1444-1445).
Intanto il conflitto fra il papa e i conciliari di Basilea continuava, nonostante molti tentativi di mediazione. Anzi, nel 1439, oltre a eleggere un antipapa, i basileesi dichiararono come «verità di fede cattolica» che il Concilio ecumenico è superiore al papa e che il papa non lo può sospendere, né sciogliere, né trasferire altrove.
Malgrado ciò, i principi tedeschi e il nuovo imperatore Federico III d’Asburgo riconobbero papa Eugenio IV. Nel 1448 i ribelli si trasferirono a Losanna presso Felice V (morì in fama di santità nel 1451), che l’anno seguente abdicò, ultimo antipapa della storia. Infine i basileesi elessero papa Tommaso Parentucelli da Sarzana, già di per sé regnante col nome di Niccolò V († 1455), che dal 1447 era il legittimo successore di Eugenio IV.
Il punto della situazione
Il Concilio di Costanza fu senza dubbio “ecumenico” nel suo insieme, specie nel suo risultato fondamentale, cioè la ricostruzione dell’unità della Chiesa occidentale, e anche nelle sue decisioni dottrinali e riformiste. Ma non si può dire che sia stato considerato, o che possa considerarsi oggi, ecumenico in tutti i suoi decreti. Sotto il profilo ecclesiologico, le teorie conciliariste non sono mai state accettate dalla Chiesa, e quindi hanno un valore puramente storico e contingente, atte cioè a risolvere una questione che richiedeva un’immediata soluzione, più pragmaticamente giuridica che dottrinalmente dogmatica.
Il Concilio di Pavia-Siena presenta tutti i crismi giuridici ed ecclesiologici per essere annoverato nella lista dei Concili generali. Ma la scarsa rappresentatività dei Padri e il suo operato non hanno avuto alcuna portata durevole.
Il Concilio di Basilea, fino alla traslazione a Ferrara, è stato accettato da Eugenio IV solo nella misura in cui i suoi decreti non contrastavano i diritti primaziali della Sede apostolica anche in campo disciplinare. Questa accettazione del papa ha convalidato la legittimità e l’ecumenicità di alcuni decreti riformatori (per esempio quello sul celibato ecclesiastico).
Di conseguenza, la vicenda del conciliarismo trovò risposta definitiva al Concilio di Firenze, il 6 luglio1439, con la definizione primaziale della bolla Laetentur caeli, certamente ecumenica, e quindi obbligante sotto il profilo ecclesiologico.
Un certo conciliarismo mitigato (o idea conciliare), postulante la convocazione del Concilio per risolvere le situazioni più gravi della Chiesa, rimarrà ancora e riapparirà con forza nel secolo XVI. La sua radice sta forse nella struttura essenziale della Chiesa stessa, che è monarchica e collegiale insieme. I loro profondi rapporti non sono mai stati chiariti del tutto.
Il Concilio Vaticano II ha detto, per ora, l’ultima parola nella Nota previa (o Proemio) al capitolo III della Lumen gentium, quello dedicato alla costituzione gerarchica della Chiesa e soprattutto all’episcopato.
«Proemio
Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo, sull’esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente».
NOTE
4) Era costume che all’annuncio che un cardinale fosse stato eletto papa, il popolo si precipitava a saccheggiarne la dimora: per il fatto di essere divenuto papa cambiava domicilio e aveva la possibilità di rifarsi...
5) San Vincenzo Ferrer nasce nel 1350. in Spagna. da nobile famiglia. Nel 1367 entra tra i domenicani e diventa maestro si teologia. Nel 1398, mentre è ricoverato per una seria malattia, ha una visione: gli appare Cristo tra san Domenico e san Francesco che gli raccomandano di predicare la penitenza. Nei 20 anni successivi a questo episodio, Vincenzo percorre l’Europa occidentale predicando la penitenza dei peccati e la necessità di prepararsi al giudizio finale. Viaggia a dorso di un asino ed è sempre circondato da molti pellegrini. Con la sua predicazione popolate e missionaria, accompagnata da vari prodigi, richiama le folle alla meditazione delle verità eterne e al rinnovamento della vita cristiana. Muore in Francia nel 1419.
6) Jan Hus fu bruciato il 6 luglio 1415 e il suo fedele discepolo Gerolamo fu anche lui mandato al rogo il 30 maggio 1416. Questi era andato al concilio nell’aprile del ’15 per tentare di liberare il suo maestro facendo leva sull’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, confidando nel salvacondotto che questi aveva sottoscritto per Hus, ma che il concilio aveva reso vano dicendo che la materia di fede è superiore alla parola di un imperatore. La loro condanna produsse una ventata di fiero orgoglio boemo e le guerre ussite che ne seguirono.
Fonte: Appunti. Biennio filosofico. Anno Accademico 2010-2011