Federico Faggin è il papà del microprocessore. (a sinistra nella foto)
Massimo Marchiori ha inventato l'algoritmo di Google.
Dai due cervelli veneti l'appello ai giovani: «Non andatevene».
Opulenti e gaudenti, schiavi dell’iperlavoro e insensibili, despiritualizzati e un po’ volgari, di giorno a produrre nei capannoni e di notte a sfogarsi lungo le strade-labirinto che li intersecano cercando amore a pagamento. E’ - stereotipo più stereotipo meno - la fotografia del Veneto che la vulgata televisiva figlia non solo dei «santorismi» spesso propina agli spettatori di un Paese che ormai ci ha catalogati. Dall’immaginario della servetta a quella del padroncino, dall’epopea del «ciao mama» uscita linda dalla civiltà contadina a quella del Rolex sporco di sudore che non molti possiedono ma il cui riflesso tutti avvolge in una patina di poco aristocratico oro.
Forse un po’ ce lo «meritiamo», perchè per uscire dalla miseria da Piano Marshall che il Veneto ha attraversato abbiamo sconfitto la pellagra mangiando paesaggio e valori, ma non è certo nel luogo comune degli stolti produttori di ricchezza che vanno fatte morire la forza e la complessità di una regione che ha il Pil di una nazione e un’anima che nei fatti ribalta l’ossessione della «borghesia rifatta». C’è dell’altro, lo sappiamo. Molto altro.
Il problema, d’altra parte, è non solo o non tanto quello di subire gli stereotipi cuciti addosso al Veneto, quanto quello di essersi talmente abituati a sentirli a fior di pelle che gli stessi veneti - anche al di là delle loro colpe - finiscono per crederci. Per cui, forse, il problema, più che di anima, è di comunicazione. Certo, il potere (la politica, le tivù) abita a Roma e Milano, dove perfino l’autoctona inflessione di attrici e presentatrici dev’essere «ripulita » per avere diritto di videocittadinanza. E da lontano, si sa, se a volte la fotografia può essere più «onesta» e d’insieme spesso può tradire la messa a fuoco e produrre immagini distorte. Ma c’è, al di là di una sorta di autocompiacimento nel marcare con rabbia la sindrome della lateralità, una colpa nostrana. La colpa di non saper rappresentare adeguatamente sia la forma che la sostanza. Complice, a volte, l’autoflagellazione di noi media nostrani.
Allora, se è così, aiutiamoci a raddrizzarli questi luoghi comuni. Non attraverso autocompiacimenti localistici ma nella sottolineatura di ricchezze che vanno oltre la questione «identitaria». Insomma, dal «prima i veneti» ai «veneti primi».
Oggi raccontiamo due storie «uniche» che messe assieme non danno una semplice somma di genialità ma la dimensione algebrica della loro grandezza. Storie per alcuni aspetti «note» ma passate sottotraccia rispetto al loro impatto sulla società contemporanea.
Storie che riemergono nei giorni in cui Obama ha annunciato che consegnerà a Federico Faggin, il vicentino inventore del primo microprocessore (il «motore» di elaborazione dati che ha reso possibile l’esistenza el computer e degli stessi telefonini), la Medaglia nazionale per la tecnologia e l’innovazione, la più alta onorificenza statunitense agli scienziati. La prima a un italoamericano, un seme di questa terra passato dai banchi del mitico Istituto tecnico «Rossi» di Vicenza alla dimensione cosmica di Silicon Valley. Prima perito, poi fisico, padre di quel «4004 Intel» un milione di volte meno potente degli attuali ma grazie al quale oggi c’è un computer in ogni famiglia.
E se di Faggin tutto è noto (si fa per dire) c’è un’altra eccellenza che dorme sotto i silenzi di chi non vuol vedere o sapere. Cioè Massimo Marchiori, quarantenne mestrino che insegna all’Università di Padova, inventore dell’algoritmo attraverso il quale Google è diventato il primo motore di ricerca al mondo; uomo della tecnè e della modestia, ricercatore puro che ha fatto la scelta del sapere e non quella del denaro. Tornando, dopo l’America, cervello interamente italiano. Due genii nella regione dei millanta Archimede Pitagorici più o meno sommersi che danno il segno della sfida culturale fatta di idee e impresa, di quella scommessa nel futuro che è stata, è e sarà il dna di questa regione.
Faggin e Marchiori non sono Copernico ma con le rispettive e rispettose distanze sono due grandi protagonisti della Grande Rivoluzione Tecnologica che ha cambiato il mondo fra secondo e terzo millennio.
Veneti (e italiani) che dimostrano come l’identità non sia folclore, non reclinamento verso il passato ma espressione delle intelligenze, della fatica e del confronto. Favrin e Marchiori sono insieme la più grande suggestione che rappresenta la «nuova» identità di un Veneto che marcia fra nanotecnonologie e scienza dei trapianti, biotecnologie e super-elettronica. E sono anche la sfida dell’autocritica che fa dire ad esempio a Faggin che gli imprenditori - al di là di straordinarie e illuminate avanguardie - rispetto alla ricerca hanno ancora troppa paura di accettare il rischio economico. Dire che qui ci sono le persone, le intelligenze e i mezzi ma a volte non c’è la volontà che fa essere l’America sempre più avanti.
Ecco, forse, il vero difetto: il poco coraggio, nella terra del coraggio, di assumersi il rischio, di osare strategie. Per cui, oltre che difendersi dallo stereotipo di un Veneto che si disintegra tra i capannoni, bisognerà porsi l’obiettivo di battere queste paure.
Se ci sarà sempre qualcuno disposto a fotografare distorcendo, noi saremo qui a testimoniare il contrario scrivendo.
Fonte: srs di Alessandro Russello da il b del 22 ottobre 201
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