Alcune aree del territorio italiano, come del resto in ogni
altra parte del mondo, sono caratterizzate da peculiarità, così pure da
determinate tradizioni, mestieri e arti; è appunto il caso della Lessinia per
quanto riguarda l’antica arte della lavorazione a forgia del ferro, cioè del
ferro battuto. A Cogollo di Tregnago quest’arte vanta una tradizione secolare
ed è rimasta la memoria di un geniale artigiano.
Si tratta della figura di ROBERTO DA RONCO, gergalmente noto con lo pseudonimo di “EL BERTO DA COGOLO”.
Nacque a Cogollo di Tregnago il 09 settembre 1887 da Benvenuto Da Ronco e da Teresa Pomari. Originaria di Gemona nel Friuli, la sua famiglia vantava già dal 1380 ininterrottamente una tradizione secolare nell’arte della battitura del ferro e si erano insediati a Cogollo nel 1621, data che compare nell’antica casa di famiglia.
Sin da piccolo apprese dal padre l'uso della fucina, dell'incudine, del martello e del maglio; iniziò così a maneggiare il martello battendo i ferri bollenti sull’incudine per essere lavorati e diede da subito la dimostrazione di essere dotato di un innato talento in quest’arte.
All’età di dieci anni frequentò la scuola d'arte di Soave dove apprese il disegno, la sbozzatura del marmo, la scultura del legno; fu indirizzato, pure, allo studio degli stili del passato. Tutte le domeniche, con un paio di fette di polenta fredda e salame nello zainetto, come era in uso a quei tempi di povertà, di buon mattino partiva a piedi per raggiungere la scuola d’arte per poi rincasare a sera.
L’aula venne ricavata in una caverna alla base del castello medioevale e apprese le lezioni dal maestro d’arte Brunelli; per il suo talento e diligenza, alla fine del corso triennale meritò la medaglia d’oro. Fu così in grado di creare da solo i suoi primi “lavoretti”, aggiungendovi ogni qualvolta un’inventiva derivante dalla sua genialità.
Iniziò così a lavorare su commissione oltreché a fare il fabbro vero e proprio: fu questo lavoro quotidiano, tra l'altro, che gli fece apprendere tutti i segreti del mestiere e fu l'unico, ad un certo momento della vita, che lo aiutò a sopravvivere. Lavorò molto il legno in età giovanile e presso gli eredi o altri privati resta, di questo suo periodo, una meravigliosa serie di consolle, trumeaux, cassepanche.
Nel 1907 raggiunse Bassano del Grappa per il servizio militare, dove venne aggregato al VI° Reggimento Alpini, ma a causa di un’ernia dopo sei mesi venne congedato.
Dopo il servizio militare si dedicò interamente all’arte della battitura del ferro; la particolare disposizione ad accogliere l'antico e rifarlo con le stesse tecniche diede presto fama al giovane “Berto”; dalle sue mani uscirono spade e corazze, elmi ed alabarde, pugnali e misericordie. Ma le cose migliori del periodo furono i rifacimenti delle armature del castello di Soave. Sua caratteristica particolare era la lavorazione come in origine, cioè senza saldature e ribattendo il ferro a colpi di martello.
Nel 1909, tramite alcuni conoscenti antiquari si trasferì a Venezia per lavorare alle dipendenze di insigni artisti, come Bottacini e Bellotto, quest’ultimo uno dei grandi artigiani del ferro battuto del XX° secolo; fu al servizio delle maggiori botteghe, in particolare di quella del Bellotto, e frequentò irregolarmente i corsi che si tenevano all'accademia. Fu quello il periodo di particolare importanza culturale per la città lagunare; all’ombra della famosa mostra di Ca' Pesaro (1910).
Del soggiorno veneziano restano tracce splendide: poggioli,
ringhiere, cancelli, inferriate. Ma l'anonimato che quasi sempre ha
accompagnato i lavori di tutti i grandi artigiani impedisce, oggi, delle
attribuzioni precise. Dopo un breve ritorno a Cogollo nel 1911, sfruttò le sue
capacità acquisite con lavori sempre più impegnativi ed ammirevoli. I giovani,
desiderosi di apprende l’arte del talentuso fabbro, iniziarono a frequentare la
sua officina. Accorrevano ragazzi da Tregnago ed Illasi che venivano
accompagnati dalle loro madre, desiderose che apprendessero quest’arte da un
talentuoso artista.
Nel 1912 “Berto” si trasferì a Parigi dove, ospitato da una sorella, rimase per due anni sino al 1914. Nella capitale francese l'ambiente delle arti decorative era stato messo a soqquadro dallo stile floreale. La breve e rigogliosa epoca del Liberty colse “Berto” nel pieno della sua capacità artistica, ma non lasciò sulla sua arte tracce importanti. L'esposizione parigina del 1900 aveva rilanciato il ferro battuto che aveva agonizzato per oltre un cinquantennio. A Parigi l’artista imparò le tecniche dei grandi menuisiers francesi del passato e imitò alla perfezione le serrature di M. Jousse. Qui imparò anche a scolpire il marmo. La sua genialità lo portò a plasmare con le mani qualsiasi materiale.
Nel 1914 ritornò in Patria e il 16 Maggio nel 1916 venne arruolato nel II° reggimento artiglieria pesante campale con sede a Modena. Durante la I° Guerra Mondiale combatté sugli altipiani veneti e riportò una ferita alla gamba destra. Terminata la guerra, il 17 Maggio 1919 si sposò con Luigia Ziviani.
Da allora non si allontanò più dal paese natale, se non per brevissimi periodi. Ricominciò il lavoro del fabbro, dando di giorno in giorno la dimostrazione di un eccezionale talento in quest’arte. Le sue opere divennero ben presto famose e richieste un po’ ovunque ed il suo pseudonimo “Berto da Cogolo” divenne la sua firma d’autore, tanto che fece dimenticare il suo vero nome.
Dato l’aumento delle ordinazioni, avvertì la necessità di un luogo più ampio ove poter realizzare le sue opere; perciò nel 1920 aprì un’officina a Verona in via G. Carducci, collaborando con la ditta DALLA VECCHIA & KUNN, che a quel tempo era particolarmente famosa.
Fu il periodo in cui partecipò all’amministrazione pubblica del comune di Tregnago, ma, per non essersi sottomesso al fascismo, ideologia che aborriva, nel 1922 fu costretto a dimettersi a seguito di oppressioni e violenze; il suo mordace e dichiarato antifascismo gli procurò non lievi dispiaceri soprattutto quando fu colpito dal divieto d'eseguire opere per edifici pubblici.
Nel 1924, quando il comune di Verona decise di rifare alcune parti delle cancellate delle Arche Scaligere, fu ovvio che il lavoro non potesse essergli commissionato per le sue avversioni al regime fascista. Il lavoro venne affidato alla ditta DALLA VECCHIA & KUNN, ma il lavoro vero e proprio venne eseguito segretamente da “Berto” che restituì alla bellezza originaria le trine restaurate dell’antica tomba Scaligera.
Nel 1925 chiuse per causa di forza maggiore la sua bottega di Verona poiché gli squadristi fascisti non solo gli sfasciarono l’officina, ma usarono ripetutamente contro di lui minacce e violenze, essendosi infatti sempre apertamente professato antifascista, e venne quindi obbligato ad andarsene.
Nel 1930 venne ingiustamente incarcerato perché reputato sovversivo al regime fascista ed incarcerato nella prigione degli Scalzi, ove conobbe mons. Giuseppe Chiot con cui strinse una sincera amicizia che durò tutta la vita. Ormai perseguitato dai fascisti sempre nel 1930 tentò d'espatriare, ma fu arrestato; visse, così, in un'altalena di rimandi e d'incertezze sino alla liberazione. A metà del 1930 dopo le tristi avventure con il regime, aprì un piccolo laboratorio artigiano in via Madonna del Terraglio a Verona, ma l’esperienza fu molto breve poiché ai primi di Gennaio del 1931 venne nuovamente preso di mira dai soprusi fascisti e nel cuore della notte venne catturato, picchiato, denudato e gettato nelle gelide acque dell’Adige. Per puro caso riuscì a salvarsi la vita.
Per lui e per la sua famiglia la vita divenne veramente difficile, un geniale artista perseguitato dal regime dittatoriale, non ebbe così per lungo tempo modo di realizzare le splendide opere d’arte delle quali era capace e fu così costretto a fare il carradore.
Passati i primi anni ’30, il clima minaccioso con l’artista e la famiglia iniziò ad attenuarsi e riuscì così a dedicarsi con serenità alla sua arte. Nel fumo dell’officina, senza stampi, usando la fucinatura a carbone, faceva arrossare il metallo e con colpi di martello creava delle vere e proprie opere d’arte; il suo lavoro era veramente geniale. Si alzava di buon mattino e spesso, senza alcun disegno o bozze, trasformava l’idea che gli balzava per la mente in un’opera con le sue “magiche” mani.
Iniziò così la lenta, ma costante, ascesa e fama di un geniale artista che fece conoscere nel modo il piccolo centro lessinico di Cogollo.
Infatti sebbene “Berto” rimase per decenni estraneo alla
cultura ufficiale iniziarono a scomparire gli artisti che lo precedettero; si
spense l’artista A. Mazzucotelli,
morto già C. Rizzarda e
appressandosi ad un immeritato oblìo le opere di A. Calligaris, di U.
Bellotto, di A. Gerardi, mentre
ancora operava il trio della Bottega del ferro (G. Vergerio, E. Coletti, G. Coriani) e A. Benetton, “Berto da Cogolo” iniziò a farsi strada e far
conoscere le sue prime opere e si ebbe così il periodo migliore della sua
maturità artistica.
Il primo esempio della sua maestrìa e genialità è dato dal Gallo, databile tra il 1938 e il 1939; informale, esso era nato sulla scia del secondo futurismo. Tecnicamente esso si rifà all'antico: battitura a caldo, con chiodatura e ribattitura; da allora in poi, sempre, ”Berto” rifiuterà i ritrovati moderni; egli batteva il ferro dopo averlo fucinato mentr'era ancora rovente senza l'ausilio di stampi o saldature; usava il maglio e il martello unendo, talvolta, più parti con grafite o ribattendo il ferro con fasce o chiodi; le sue sculture appaiono, così, all'occhio abituato alla levigatezza impropria in un metallo malleabile ma non brillante, quasi grezze; un modernismo, appena sentito si sposa con l'arte tradizionale passando attraverso la semplicità formale e l'accurata rappresentazione dei soggetti le cui dimensioni, eccetto il Cancello Cavaliere (Villa Cavaliere, Tregnago, Verona) raramente raggiungono l'altezza dei 50 centimetri. Preciso, metodico, il D. non eseguì alcun lavoro senza disegno, a cui concesse un'accentuata importanza. Quasi mai calligrafico, carico di vitalità gioiosa, un po' naïf nei soggetti, il D. fu ricchissimo nell'accoppiare la sofferta visione quotidiana dell'esistenza ai grandi temi dell'uomo. Il suo linguaggio è originale, pure ripetendo motivi antichi; manca del tutto il gioco intellettuale e la purezza del segno è confermata dalle parole che un critico ebbe a scrivere di lui: "...il garbo fresco e gentile trasforma nelle sue mani la materia in fiore ed è sorretto da un antico filone di poesia..." (S. Bertoldi, Cronache d'arte, in L'Arena [Verona], 15 ag. 1955).
Anche nelle figure di gruppo la concatenazione dei movimenti è determinata da accorgimenti che, di volta in volta, si presentano necessari; così, lo studio anatomico, che con il ferro pare quasi dileguarsi, in lui acquista una sfumatura elegante che si ritrova con l'equilibrio del corpo e la bellezza della forma. C'è anche da rilevare che “Berto” sapeva fare corrodere il metallo, grazie ad un particolare acido, sì da restituirgli quasi immediatamente la patina del tempo.
Raggiunse una grande fama negli anni ’50 e partecipò a varie mostre: nel Maggio 1951 a Firenze e in Novembre a New York; nel 1953 a Milano; nel Maggio 1955 ancora a Firenze e in Giugno a Parigi dove ottenne un prestigioso riconoscimento ufficiale. Nel 1956 le sue opere vennero esposte a Verona; nell’agosto 1957 ancora a Verona, in Settembre dello stesso anno vennero esposte a Stoccolma ed in Ottobre a Venezia.
L'ultima parte della sua vita fu allietata dall'amicizia di artisti, letterati e uomini di cultura fra cui R. Di Bosso, Q. Sacchetti, L. Montano, G. Mardersteig, E. Meneghetti, U. Zampieri. Sue opere furono acquistate da Vivian Leigh (cfr. L'Arena, 15 ag. 1957),Claire Booth Luce, la famiglia reale di Svezia, P. Bargellini. Espose a Firenze (1951 e 1955),New York (1951),Milano (1953), Parigi (1955),Stoccolma (1957),Verona (1956,1957),Venezia (1957:cfr. N. Dessy, Mostra d'arte a La Bevilacqua la Masa..., in Cronache venete, 30 ott. 1957).
Il 26 Novembre 1957, dopo un’inesorabile malattia Roberto Da Ronco (“el Berto da Cogolo”), il grande e geniale artista lessinico, il maestro del ferro battuto, morì a Cogollo. Tutta la sua opera fu esposta a Tregnago e Verona nel 1977; una parte di essa invece, trovò posto nel 1980 a Stia (Arezzo) in occasione della II Mostra di Toscana-Scultura.
La casa di Cogollo
Le sue opere, quasi tutte in collezioni private o nella collezione Da Ronco presso gli eredi, si possono dividere in tre gruppi;
quello religioso che comprende: una Crocefissione (1940),
Schola (1943), Via Crucis (1943-44) composta di quattordici stazioni,
Annunciazione (1946);
quello bucolico, che è il più poetico perché certamente il
più caro a “Berto”, comprende, tra le altre opere, Ritorno dai campi (1947),
Corsa (1948-49), Ritorno dalla caccia al cervo (1950), Aratura (1952),
Suonatore di flauto (1955);
ed infine quello mitologico-leggendario i cui esempi
migliori sono Tauromachia (1947), Ratto di Europa (1948), Idra (1949), S.
Giorgio e il drago (1949) cui si deve aggiungere una Biga (1948),"fiabesco
cocchio reale trainato da cavalli corrosi dal loro stesso movimento".
Fonte: da facebook
Magica Lessinia del 20 maggio 2017
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