Don Francesco Venturelli, arciprete di Fossoli, uno dei tanti...
Per i comunisti i parroci erano tra gli oppositori più
efficaci, quindi molto pericolosi.
Avevano confessionali in cui sapere anche la verità sulla
violenza rossa che, fuori, nessuno osava dire.
Avevano pulpiti da cui parlare e condannare, gente ad
ascoltare. Erano organizzati con oratori, consigli comunali, formavano diocesi.
Quattro volte più numerosi di oggi, erano
disseminati ovunque. Più dei carabinieri, più dei farmacisti. Persino più delle
case del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di benefici terrieri,
ebbene, erano da odiare due volte, una perché preti, l'altra come padroni, e
rientravano perciò doppiamente in quell'assunto che, dalla fine della guerra,
girò per anni tra le squadre d'azione comunista, in cellula e nelle case del
popolo:
«Se dopo la liberazione ogni compagno uccidesse il proprio
parroco e ogni contadino il padrone, il problema sarebbe già risolto».
E non è vero che ad ogni don Camillo
rispondesse un Peppone. I primi furono tanti, dei secondi in questo amaro
viaggio di triangolo della morte non vi è traccia. Non c'è parroco che non
abbiano intimidito, isolato. Tantissimi furono scherniti, derubati, rapinati.
Ora io vi racconterò di quelli che, dopo aver già tanto sofferto in tempo di
guerra da tedeschi, fascisti e partigiani rossi, sono stati martirizzati in
tempo di pace dalla violenza comunista. Nell'allora folto branco di parroci può
magari scapparci, che so, lo scapestrato, il disattento, l'arricchito. Non però
tra le decine uccisi.
Ogni assassinato è perbene. E tra i più
attivi, equilibrati, generosi, attenti alla propria gente. E' seguito, amato,
perciò un maledetto nemico del popolo, dunque va soppresso, distrutto e che
ogni assassinato sia esempio per gli altri, che tengano la bocca chiusa. E c'è
un motivo, più d'ogni altro: essi hanno in sé e con sé Dio.
Il 25 aprile è la Liberazione, la fine della guerra, e da
adesso i parroci dell'Emilia Romagna, ma anche delle regioni vicine, ogni sera,
nell'ultimo segno della croce, non sanno se rivedranno l'alba o se capiteranno
in casa gli assassini, come accade la sera del 16 gennaio '46 a don
Francesco Venturelli, arciprete di Fossoli, nel Modenese vicino Carpi.
E' stato cappellano nel campo di concentramento della sua
parrocchia, è un tipo che non chiede che tessera politica hai, che assiste
tutti quanti, inglesi, fascisti, partigiani, collaborazionisti. E' uno che dopo
la Liberazione detesta la brutalità e gli eccidi che si ripetono nel Carpigiano
contro fascisti e presunti fascisti.
E dunque è sera, uno sconosciuto lo chiama fuori di canonica
chiedendo di accorrere per un incidente mortale sulla provinciale. Don
Francesco corre e si trova invece davanti a un plotone di rossi che lo
falcia col mitra.
Invece Don Gianni Domenico, trentenne, celebra messa
ai giovani soldati repubblichini. Il 24 aprile '45 all'arrivo degli alleati
corre tra la sua gente a San Vitale di Reno: in chiesa lo stanno aspettando i
partigiani comunisti, lo gettano in un porcile, lo denudano, lo violentano. Ci
sono anche donne tra loro, e una in particolare, è la più ardente nel
seviziarlo. Il lungo martirio si conclude a colpi di mitra e ai parrocchiani si
impedisce per giorni di seppellire il martirizzato.
Don Giuseppe Tarozzi è parroco a Riolo di
Castelfranco, diocesi di Bologna, severissimo nell'amministrare un'opera pia fa
il diavolo a quattro per tener lontano da essa la politica e ladri. Notte del
25 maggio '45: i commandos comunisti fracassano a colpi di scure la porta della
canonica, lo strappano dal letto, lo pestano, poi lo trascinano via in camicia
da notte. La gente vede un'ombra bianca sospinta fuori a calci, il suo cadavere
non sarà mai più ritrovato.
Ancora diocesi di Bologna: Don Giuseppe Rasori,
sessantenne a San Martino Casola ha solo due parrocchiani non iscritti al Pci.
Sberleffi, minacce, assalti alla chiesa. Vive nella paura ma resta. Nel
pomeriggio del 2 luglio '46 in canonica, dove in guerra ha nascosto tanti
partigiani, lo ammazzano con un colpo di pistola al collo. Il suo successore
poco tempo dopo in chiesa parlando della passione di Gesù accenna allo straccio
rosso con cui fu coperto per derisione. Deve fare ripetute e pubbliche scuse, i
comunisti l'hanno presa come ingiuria alla loro bandiera.
Don Alfonso Reggiani, parroco di Anzola di Piano,
Bologna, il 5 dicembre '45 sta pedalando di ritorno da una visita ai suoi
ammalati, lo fermano in due, l'ammazzano a raffiche di mitra, se ne vanno sulle
biciclette. Una cigola e gli assassini dicono: «L'ungeremo a casa, adesso che
abbiamo ammazzato il maiale». Al funerale di don Alfonso, reo di battute
umoristiche sui comunisti, ci sono solo cinque bambini e qualche donna.
Un prete semplice, conciliante, Don Enrico Donati, ma
è parroco a Lorenzatico, Bologna, della famiglia del sindacalista bianco
Giuseppe Fanin, che sarà massacrato, nel '48 a colpi di spranga dai comunisti.
Il 13 maggio '45 quattro compagni con la scusa di portare don Donati al comando
partigiano per formalità, lo feriscono a colpi di mitra, gli legano le mani, lo
infilano in un sacco e lo gettano con due sassi per zavorra in un macero colmo
d'acqua.
La sera del 25 luglio '45 un altro comando chiama Don
Achille Filippi, parroco di Maiola, sull'uscio della chiesa e l'uccide:
cancellando anni ed anni di lavoro e bontà per la gente, le colonie per i
bambini, la povertà degli anziani. Ma il gran farabutto in chiesa biasimava le
violenze e i soprusi dei comunisti; a morte.
Già un altro era stato condannato a morte un mese prima
della Liberazione a Santa Maria in Duno per aver rinfacciato ai partigiani
rossi efferatezza durante la guerriglia: il primo marzo '45 si presentano due
armati travestiti da tedeschi, irrompono in canonica con due donne anch'esse
armate, dicono di essere di un comitato, legano Don Corrado Bortolini,
rubacchiano e poi lo portano via in motocicletta. Mai più trovato, anche se
tutti sanno che è stato torturato, strangolato, gettato in una fossa. Al suo
successore c'è chi ammonisce di non interessarsene: «Tanto don Corrado dorme in
un campo di fiori».
Don Tino Galletti, nella chiesa di Spazzate
Sassatelli, a Imola, è un altro che non parla bene dei comunisti in una
parrocchia rossa, non più di sei persone alla messa domenicale. Il 9 maggio '45
è ucciso a colpi di pistola e per non mandarlo via da solo ammazzano anche tre
dei suoi sei fedeli. Non un cane ai funerali.
Implora pietà invece Don Luigi Lenzini, parroco di
Crocetta di Pavullo, nel Modenese, la notte in cui un gruppo di comunisti,
gente del paese, lo trascina in camicia da notte dalla canonica alla vigna e
qui lo seviziano da stramaledetti e poi gli spaccano la testa: ha condannato il
metodo di «far fuori la gente» dei comunisti.
Freddati a pistolettate il parroco di Mocogno e di Montalto,
cioè il canonico Giovanni Guizzardi e Don Giuseppe Preci, nel
Modenese. Morte lenta per l'anziano Don Ernesto Talè, parroco di
Castellino delle Formiche, modenese, e per la donna che stava accompagnandolo
da un ammalato, «quella carogna non voleva morire ... », dirà al bar,
vantandosi con gli amici, uno dei "coraggiosi partigiani" torturatori
del prete.
Nel Reggiano non ammettono gli eccessi disumani di chi,
partigiano comunista, scredita il movimento di Resistenza e sono freddati col
mitra Don Giuseppe Lemmi, cappellano di Felina e Don Luigi Manfredi,
parroco di Budrio.
E' il 14 settembre '45, l'assassino che spacca il cranio a Don
Tebaldo Dapporto, parroco di Casalfiumanese di Imola, corre alla Camera del
Lavoro a vantarsi d'aver fatto fuori il suo prete-padrone.
Don Carlo Terenziani, prevosto di Ventosa, la mattina
del 29 aprile '45 è preso dai partigiani rossi che lo fanno girare per le
strade come un Cristo schernito, sputato, ingozzato di vino all'osteria,
battuto e infine fucilato a sera.
Don Giuseppe Pessina, parroco di San Martino di
Correggio, piange diciannove parrocchiani assassinati dai comunisti e sa troppe
cose: ucciso a colpi di mitra mentre la sera del 18 giugno '46 rintocca l'Ave
Maria...
(L'elenco delle
vittime delle radiose giornate non finisce qui, tanti preti martiri in Emilia,
tanti in Toscana e tanti in altre regioni...)
Fonte: srs di Beppe
Gualazzini, da IL GIORNALE del 14 novembre 1966
Fonte: da inilossum.it/
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