venerdì 6 febbraio 2009

La famiglia di Mose, La storia non è mai come appare - quarta parte





Il ruolo di Giuseppe Flavio nella consegna del Tesoro del Tempio  di Gerusalemme  all’imperatore Vespasiano. Attraverso di lui la famiglia di Mosè sopravisse ma da allora  se ne persero le tracce 

All'appuntamento del 70 d.C. la famiglia mosaica era al culmine della sua potenza. Le 24 famiglie sacerdotali che ai tempi di Esdra si erano spartite il potere, fondato sul possesso esclusivo del tempio e del sacerdozio, erano ancora tutte là, più ricche e più numerose che mai, saldamente insediate alla direzione del Tempio e del paese. I loro discendenti si contavano a migliaia e molti di loro avevano sangue reale nelle vene. Il dominio romano aveva portato pace e prosperità, ma era stato segnato da forti attriti a sfondo religioso che avevano provocato una serie di rivolte, l'ultima delle quali, nel 66 d.C., fu fatale per la nazione ebraica e per la famiglia stessa. Con la distruzione di Gerusalemme, ad opera di Tito Flavio Vespasiano nel 70 d.C., la famiglia sacerdotale fu virtualmente sterminata.

Il Tempio, strumento di potere della famiglia, venne raso al suolo e mai più ricostruito. Da quel momento in poi la famiglia sacerdotale di Gerusalemme scompare dalla scena storica, perché non svolgerà mai più un ruolo evidente. Fine di una grande famiglia millenaria?

LA STORIA NON E’ COME APPARE

Le apparenze sembrano confermarlo; ma non sempre le cose vanno proprio come risulta dai dati storici. E certo, infatti, che la famiglia non scomparve materialmente. Ci furono dei sopravvissuti, numerosi e di altissimo rango, dotati di ricchezze e della protezione dei Romani. Ce ne dà notizia lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che li elenca uno per uno, a cominciare da se stesso.

Giuseppe Flavio era lui stesso sacerdote, appartenente alla prima delle 24 famiglie sacerdotali e con sangue reale nelle vene, perché imparentato per parte di madre con gli Asmonei. Al tempo della rivolta contro Roma aveva ricoperto un ruolo di primo piano negli avvenimenti dell'epoca. Inviato come governatore della Galilea da parte del Sinedrio di Gerusalemme, egli era stato il primo a combattere contro le legioni del generale Vespasiano, che era stato incaricato da Nerone di domare la rivolta in Palestina.

Giuseppe venne sconfitto e si rifugiò a Iotpata. Quando la città cadde, si consegnò ai Romani e chiese di parlare con Vespasiano. Da quel colloquio nacque la fortuna di Vespasiano e quella di Giuseppe: il primo sarebbe diventato di lì a poco imperatore di Roma, il secondo, non solo ebbe salva la vita ma, dopo qualche tempo, fu accolto nella stessa famiglia imperiale (di cui assunse il nome "Flavio"), ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a Roma (la villa di famiglia dello stesso Vespasiano), un vitalizio annuo a spese dell'erario e vaste proprietà in Italia e Palestina. 
Giuseppe Flavio giustifica questi incredibili favori con il fatto che, durante il loro incontro dopo la resa di Iotpata, aveva predetto a Vespasiano che sarebbe divenuto imperatore.
Giustificazione ridicola! Lo storico romano Svetonio testimonia che quella di Giuseppe fu soltanto l'ultima di una lunga serie di profezie analoghe, iniziate il giorno stesso della nascita di Vespasiano. 

Tutti sapevano dell'esistenza di queste profezie: è quindi semplicemente assurdo pensare che egli abbia colmato di favori inauditi un ribelle vinto, soltanto perché gli aveva ripetuto una notizia che era ormai di pubblico dominio. C'era ben altro! Il generale romano aveva un handicap terribile per la sua corsa alla porpora imperiale: era squattrinato (è sempre Svetonio a confermarcelo), mentre per diventare imperatore aveva bisogno di larghissimi mezzi finanziari.
Giuseppe glieli fornì.


IL TESORO COME PEGNO

Durante il suo governatorato in Galilea, Giuseppe aveva messo da parte un discreto gruzzolo, sia con la raccolta delle decime dovute al Tempio e con le ruberie di cui egli stesso dà notizia, sia soprattutto per aver requisito l’oro, l'argento e gli oggetti preziosi provenienti dal saccheggio del palazzo di Erode Tetrarca, operato dagli abitanti di Tiberiade (Guerra Giudaica, II,21,3 - Vita, 66).
Consegnò subito a Vespasiano il gruzzolo personale, ottenendo salva la vita, e promise un patrimonio enormemente superiore, in cambio dei benefici che poi ottenne: il tesoro del Tempio di Gerusalemme. Nelle sue stesse opere si trovano indicazioni sufficienti per accusarlo con elementi di fatto.

Che Vespasiano sia entrato in possesso del tesoro del Tempio non c'è alcun dubbio: parte di esso, infatti, in particolare il candelabro a sette braccia, venne fatto sfilare a Roma nel 71 d.C. in occasione del suo trionfo, come raffigurato sull'Arco di Tito. 
Ma come e quando ne entrò in possesso? Leggendo in quali circostanze si svolsero l'assedio di Gerusalemme e l'attacco finale al Tempio, dobbiamo credere che quando i Romani riuscirono ad impadronirsene, ben poco del tesoro originale fosse rimasto a loro disposizione. 
Il Tempio, infatti, era stato occupato per mesi dagli Zeloti, che non avevano esitato a spogliarlo di tutto. Quando, alla fine, si resero conto che ogni difesa era vana, vi appiccarono il fuoco e distrussero tutto ciò che era rimasto di valore, per evitare che cadesse in mani romane. I Romani si trovarono padroni di un edificio distrutto dalle fiamme e saccheggiato dai suoi stessi difensori.

Il fatto certo che emerge dal resoconto di Giuseppe Flavio è che il tesoro del Tempio fu consegnato a Tito da esponenti della famiglia sacerdotale, in cambio di un salvacondotto e di benefici economici. Dal testo risulta anche in modo certo che il tesoro era nascosto in diversi luoghi segreti, anche se,ovviamente, non ne rivela l’ubicazione ed è alquanto confuso e contraddittorio per quanto concerne tempi e modalità di consegna. Soprattutto, si guarda bene dal mettere in luce il ruolo svolto nella faccenda dallo stesso Giuseppe Flavio.

IL ROTOLO DI RAME

Possiamo ricostruire i fatti con l'aiuto di uno straordinario documento che venne alla luce soltanto due millenni dopo: il "Rotolo di Rame". Fu scoperto nel 1952 nella grotta "3Q' di Qurnran. Si tratta di tre fogli di rame, cuciti tra loro ed arrotolati come un foglio di carta, sulla cui facciata interna è inciso un testo in ebraico.
Data la sua antichità, non era possibile svolgere il rotolo senza rovinare il testo. Fu quindi portato a Manchester, dove fu tagliato in strisce verticali cornspondenti alle colonne del testo. Mano a mano che le strisce venivano tagliate e ripulite, furono tradotte dal celebre qumranista IM. Allegro. Il testo è, in sostanza, un elenco di località in cui erano stati nascosti dei tesori. In un primo momento si pensò che  si riferisse a tesori della comunità essenica di Qumran ed il testo venne considerato con profondo scetticismo, perché sembrava impossibile che quella piccola comunità possedesse ricchezze tanto grandi. Fra l'altro, la maggioranza delle località citate nel testo si trova nei dintorni di Gerusalemme.

Oggi è opinione pressoché unanime fu gli studiosi che il rotolo di rame si riferisca al tesoro del Tempio di Gerusalemme (anche perché buona parte di esso è costituito proprio dalle decime), nascosto in previsione dell'assedio.

Il rotolo inizia direttamente con la lista dei nascondigli:  ''A Horebbeh, nella valle di Acor, sotto i gradini che vanno verso oriente, a quaranta cubiti di profondità: cofano d'argento, il cui peso totale è di 17 talenti. Nel monumento funebre di Ben-Rabbah da Shalisha: cento lingotti d'oro. Nella grande cisterna del recinto del piccolo peristilio, turata da una pietra bucata, in un angolo del fondo, di fronte all 'apertura superiore: novecento talenti. Sulla collina di Kohlit: vasi di offerte di Prelevamento, di mezza misura e di riscatto, tutte offerte di prelevamento del tesoro: del settimo anno e della decima..."  E continua su questo tono per tutta la sua lunghezza, elencando ben 74 nascondigli diversi, ognuno con il  suo contenuto.
Inutile dire che nessuno di questi tesori si trova oggi nel nascondiglio indicato. (J M. Allegro ha effettuato ricerche in tutte le località che era riuscito
ad individuare sulla base della descrizione, senza trovare nulla). Cosa scontata, del resto. L'ultima frase del rotolo di rame, infatti, afferma: "Nella caverna di Kohlit... c'è una copia di questo scritto, con la spiegazione, le misure ed un inventario completo, oggetto per oggetto". Il rotolo ritrovato a Qumran, quindi, era soltanto una copia dell' originale che era stato nascosto nella caverna di Kohlit, nei pressi di Gerusalemme. 
Possiamo quindi essere certi che durante o dopo la distruzione di Gerusalemme, un drappello di soldati fedelissimi a Tito, accompagnati da Giuseppe e da altri sacerdoti, se ne andarono in gran segreto per il deserto di Giuda (che Giuseppe conosceva benissimo, per avervi trascorso tre anni in gioventù), dissotterrando uno dopo l'altro i tesori elencati nell' originale del rotolo di rame, prelevato a Kohlit.
La copia di riserva, ormai inutile, venne lasciata dov'era, a Qumran.

Il TESORO DlSPERSO

Questa caccia al tesoro segreta costituiva un grande vantaggio per Vespasiano: non avrebbe dovuto rendere conto a nessuno dei tesori recuperati, di cui poteva disporre a suo piacimento. Il fatto d'aver ritrovato la copia di riserva dell'elenco ci consente di conoscere con precisione l'enormità della somma di cui Vespasiano si trovò improvvisamente a disporre, largamente sufficiente a garantirgli la porpora imperiale. 

Sotto questa luce, i favori elargiti in cambio a Giuseppe ed ai suoi compagni appaiono ampiamente giustificati.Gli oggetti di culto più appariscenti, come la menorah ed il vasellame sacro, vennero messi da parte per il trionfo e per l’erario pubblico, probabilmente su richiesta dello stesso Giuseppe, che era pur sempre un sacerdote e che non poteva vedere di buon occhio la loro distruzione. Dopo il trionfo, essi furono depositati nel tesoro del Senato. Nel 455 d.C. vennero presi dai Vandali di Genserico, quando saccheggiarono Roma, e furono portati a Tunisi. Qui, nel secolo successivo, se ne impadronì il generale bizantino Belisario che li portò a Costantinopoli, dove se ne persero le tracce. 
Il denaro delle decime, i gioielli, l'oro e l'argento, invece, vennero incamerati dall'imperatore, che fu così in grado di risanare le proprie finanze e di costruirsi una sfarzosa villa imperiale (regalando la sua casa di famiglia a Giuseppe). 
Giuseppe si ritirò a Roma, dove mise su famiglia, e dopo qualche anno cominciò a scrivere le opere per le quali è passato alla storia. Ma quanti altri membri della famiglia sacerdotale sopravvissero al massacro e che ne fu di loro, in seguito?  Sappiamo per certo che vi furono parecchi scampati perchè Giuseppe Flavio li elenca uno per uno.

Fin dalle prime fasi dell'assedio di Gerusalemme molti Ebrei disertarono, passando dalla parte dei Romani. "Fra essi - dice Giuseppe Flavio (VI, 2, 114) - c'erano due capi della famiglia sacerdotale, Giuseppe e Gesù, ed alcuni figli di capi di questa famiglia, come i tre figli di Ismaele, che era stato decapitato a Cirene, i quattro figli di Mattia ed il figlio di un altro Mattia, che era fuggito dopo la morte di suo padre che Simone, figlio di Gioras, aveva fatto uccidere insieme a tre dei suoi figli, come si è detto dianzi. Cesare li accolse con benevolenza e...si impegnò a restituire a ciascuno i propri beni non appena ne avesse avuto la possibilità, al termine della guerra." Si tratta quindi di dieci membri della famiglia sacerdotale, fra cui due di alto rango, che dobbiamo ritenere si siano, successivamente, riappropriati dei loro beni.

SOPRAVVISSUTI E SCOMPARSI

Dopo la conquista del Tempio, o meglio di quel che ne restava, un gruppo di sacerdoti che lo avevano difeso fino all'ultimo momento si arresero ai Romani, chiedendo salva la vita. Nei loro confronti l'atteggiamento di Tito fu ben diverso: "Egli rispose che il tempo del perdono era passato per loro; l'unica cosa per la quale egli avrebbe avuto qualche motivo di risparmiare loro la vita, il Tempio, stava riducendosi in cenere ed era dunque giusto, per dei sacerdoti, essere annientati insieme alloro santuario. E li fece  condurre al supplizio". (VI, 6, 1,321 e seg.)

Ciò non gli impedì, soltanto pochi giorni dopo, di garantire salva la vita a due alti esponenti della famiglia sacerdotale (VI, 8, 3): "In quegli stessi giorni, un sacerdote di nome Gesù, figlio di Thebuthi, dopo aver ottenuto da Cesare una garanzia sotto giuramento per la propria vita, a condizione di consegnare certi oggetti preziosi del culto, uscì e fece passare...due candelabri simili a quelli che erano depositati nel tempio, dei tavoli, dei crateri e delle coppe, tutto in oro massiccio. Egli fece passare anche i veli, le vesti del gran sacerdote con le pietre preziose, e molti altri oggetti utilizzati per i sacrifici. Ed il guardiano del tesoro del tempio, un certo Fineas, anche lui fatto prigioniero, consegnò le tuniche e le cinture dei sacerdoti, una grande quantità di porpora e di scarlatto... ed anche molta cannella e una gran quantità di altri aromi che essi mescolavano e bruciavano ogni giorno come incenso per Dio. Egli consegnò anche ai Romani molti altri tesori del tempio ed anche una buona parte degli ornamenti sacri, grazie ai quali, anche se prigioniero di guerra, ottenne l'amnistia riservata ai disertori."

Giuseppe Flavio scarica tutta la responsabilità della consegna ai Romani del tesoro del Tempio su due sacerdoti, Gesù e Fineas, anch'essi evidentemente di altissimo rango (tanto da essere depositari del tesoro), che tradiscono in cambio della vita e di benefici economici. Ma è fuori dubbio che in questa faccenda egli deve aver svolto ruolo primario, altrimenti non si spiegano gli incredibili favori di cui fu oggetto. Oltre a quelli già menzionati, infatti, egli ottenne anche di poter liberare chiunque volesse. 

Nella sua Autobiografia (417419) egli afferma: "Feci richiesta  a Tito di liberare alcuni prigionieri ed ottenni la liberazione di mio fratello e di cinquanta amici. Recatomi poi, dietro autorizzazione di Tito, nel Tempio dove erano rinchiusi moltissimi prigionieri, con donne e bambini, liberai tutti gli amici ed i conoscenti che vi riconobbi, in numero di circa 190, e li feci rilasciare senza che pagassero alcun riscatto, restituendoli alla loro precedente condizione."

In totale, quindi, Giuseppe elenca dodici alti sacerdoti, cui vanno aggiunti lui stesso e suo fratello, che hanno avuto salva la vita grazie al loro tradimento e che hanno anche recuperato i loro beni. Oltre a questi, egli cita ben 240 altre persone, tutti suoi amici e conoscenti, che furono liberati solo grazie al suo intervento e "restituiti alla loro precedente condizione", cioè reintegrati anch’essi con i propri beni. Data la posizione del personaggio, possiamo essere certi che, se non proprio tutti, per lo meno la maggioranza di essi apparteneva a famiglie sacerdotali.

Il gruppo di sacerdoti sopravvissuti al massacro di Gerusalemme, in conclusione, fu certamente molto numeroso. Di gran lunga più numeroso rispetto a diverse altre occasioni in cui la famiglia sacerdotale era stata ridotta al lumicino, come, ad esempio, dopo la disfatta e la distruzione del tempio di Silo da parte dei Filistei, ai tempi di Samuele; o dopo il massacro di Nob perpetrato da re Saul, che cercò di annientare la famiglia sacerdotale; o dopo quello di Manasse, che inondò Gerusalemme di sangue sacerdotale; o, da ultimo, dopo Nabuccodonosor, che fece massacrare tutti i "grandi del Tempio". Sono tutte circostanze in cui la famiglia era risorta dalle proprie ceneri più forte ed influente che mai. Questa volta, però, essa sembra uscire definitivamente dalla scena. Non se ne parlerà mai più, almeno nelle cronache storiche ufficiali. Essa sembra svanire nel nulla, come per incanto. ,
Che fine fece, in realtà? E quanto analizzeremo nel prosssimo numero. .

(Fine quarta parte di sei)



Fonte: srs di Flavio Barbiero da Hera numero 22, ottobre 2001



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