lunedì 17 novembre 2014

L’INDIPENDENZA DA CESARE NON È SOLO UN FATTO ECONOMICO. PER DIO





di DAVIDE LOVAT 



La separazione fra sfera spirituale e sfera temporale è connaturata alla civiltà cristiana, essendo stato addirittura Gesù di Nazareth a proclamarla per primo nella storia dell’umanità, durante il processo al cospetto di Pilato, narrato nel Vangelo di Giovanni. Fu quello, e solo quello, il momento originario del concetto puro di laicità delle istituzioni; non, come taluni erroneamente credono, quello della disputata questione circa la legittimità del tributo a Cesare, perché chiunque abbia studiato la dottrina patristica sa che quel passo evangelico ha tutt’altra portata e si collega bene alle istanze indipendentiste, tanto che la riflessione su quel brano è attualissima e opportuna per capire le differenze tra autonomismo e indipendentismo. Ragioniamoci sopra attualizzando, con anche un po’ d’ironia francescana nell’esegesi testuale del Vangelo.

Il popolo d’Israele si lamentava dell’occupazione di Roma ladrona, da cui voleva rendersi indipendente, ma era diviso in troppe fazioni che non facevano sintesi e si delegittimavano reciprocamente; chi era per la trattativa con Roma per avere concessioni, come i sadducei, chi voleva l’indipendenza ma consigliava prudenza per lo squilibrio militare, come i farisei, chi era per la lotta armata, come gli zeloti. Tutti concordavano solo sul fatto che le tasse fossero eccessive: “basta schei a Roma, basta tasse, Roma ladrona, secessione, indipendenza”.

Vedendo Gesù che trovava favore crescente presso il popolo, vollero metterlo alla prova chiedendogli se fosse legittimo il pagamento del tributo a Cesare, per delegittimarlo: se avesse detto sì, lo avrebbero definito un collaborazionista; se avesse detto no, lo avrebbero denunciato come cospiratore. Sappiamo come Gesù risolse la questione: fattasi consegnare una moneta, chiese di chi fosse l’effigie ivi raffigurata e, saputo che apparteneva a Cesare, sentenziò: “Sia dato a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio

Qual è l’insegnamento, allora, per noi indipendentisti? Finché la questione sarà posta in termini di denaro, tasse, amministrazione, gestione delle risorse, non se ne uscirà mai. Non è una questione di soldi quella che può legittimare le istanze indipendentiste per la libertà. Le questioni di soldi si risolvono in termini di autonomia, rimanendo però soggetti a Roma. L’autonomia difatti si risolve in una mai definita linea di contrattazione tra potere centrale originario e potere locale derivato, sempre revocabile. Ma per poter reclamare invece l’indipendenza, bisogna saper dimostrare l’assoluta specificità e diversità di un popolo, residente storicamente su un preciso territorio, rispetto allo Stato che esercita la sovranità su di esso.

Facciamo un esempio concreto e mi si perdonerà se uso quello che gli italiani chiamano Nordest o Triveneto, mentre per me è e resta, da sempre, la Venetia già conosciuta dagli antichi Romani o, meglio ancora, la Repubblica di San Marco. Il motivo è che si tratta di un caso che si presta a fare da esempio di scuola.

Se le lamentele dei Veneti dipendessero dall’uso dissennato delle risorse fiscali da parte di “Roma ladrona”, la questione dovrebbe risolversi sulla base di alcune concessioni da ottenersi con la rappresentanza politica, organizzata in partiti che rivendichino al centro le ragioni della periferia; ma sarebbe assurdo, oltre che illegittimo da ogni punto di vista, primo tra tutti il Diritto Naturale, chiedere l’indipendenza per una questione di soldi. La libertà non è un valore economico, né la Patria è qualcosa che sta bene soltanto finché si ha la panza piena…
L’indipendenza invece è un diritto quando a un popolo non viene permesso di “dare a Dio quel che è di Dio”, cioè vivere secondo i propri usi, costumi, consuetudini, valori etici, sociali, religiosi, politici ed economici; quando cioè Cesare, lo Stato, vuole prendersi anche l’anima del popolo che governa.

In un caso del genere, da dimostrare ovviamente, il diritto all’autodeterminazione è tanto automatico quanto sacrosanto. Esistono queste condizioni in Veneto (e, mutatis mutandis, magari anche in Nordovest, o Padania che dir si voglia)? Cioè: se avvenisse la secessione, la Costituzione del nuovo Stato sarebbe completamente diversa nei valori di fondo rispetto a quella italiana? Solo se la risposta fosse sì, allora il ragionamento potrebbe continuare; e io lo farò seguendo tale ipotesi, limitandomi a 3 principi costituzionali cardinali per la convivenza associata: la famiglia, la proprietà, la religione.

La Repubblica Italiana si fonda su valori illuministici che stridono con i valori del popolo di San Marco e nei tempi recenti, con la presa netta del potere da parte del Partito (che è espressione del Centro Italia marxista), la corda si sta tendendo oltre ogni limite accettabile.
 Primo, l’attacco all’istituto matrimoniale e alla famiglia tradizionale attraverso l’introduzione del divorzio breve, della fecondazione assistita anche eterologa (leggi adulterio legalizzato) e la promozione della sodomia di Stato attraverso il riconoscimento di diritti economici a unioni non coniugali, è già una ragione antropologica sufficiente a rifiutare la sovranità di un popolo straniero sulla propria terra.
Secondo, la tassazione della prima casa è un delitto contro il diritto naturale alla proprietà dell’abitazione e dei mezzi minimi di autosostentamento del nucleo familiare, e questo è un motivo socioeconomico sufficiente a protestare l’indipendenza.
Terzo, la parificazione di tutte le religioni, comprese quelle che contrastano con l’art.8 della Costituzione o che incitano alla conquista militare, alla sottomissione (“islam” è parola che in arabo significa “sottomissione”) del mondo, può andar bene a tutti, ma non al popolo di San Marco che continua a celebrare la Festa del Redentore Gesù Cristo e ha memoria di migliaia di suoi martiri nel contrasto a queste che, per noi, sono eresie.

Avere il coraggio di affermare che “l’ateismo è un fatto privato e lo Stato è laico nelle istituzioni, ma il popolo della Repubblica è di tradizioni e cultura forgiate dalla fede cristiana” te lo hanno fatto sembrare un anacronismo o una follia bigotta, ma era sostanzialmente così nello Statuto Albertino fino al 1946 (articolo 1, peraltro) ed è il modo migliore con il quale proclamare l’incompatibilità territoriale con moschee, pratiche alimentari inaccettabili, pretese smisurate, abusi contro le donne, immigrazione incontrollata.
Non ha forse fatto così, in fin dei conti, l’ex capo del KGB sovietico, W. Putin, con la confessione ortodossa del cristianesimo, incentivandone la riaffermazione in Russia? Putin, ne sono certo, a casa sua o nel suo cuore continua a essere la stessa persona che comandava il KGB, ma, come insegnava Macchiavelli su questa materia, ha capito che la religione è un ottimo “instrumentum regni” quando i suoi valori tradizionali incontrano il favore della netta maggioranza della popolazione. Poi, in privato, ognuno pensi ciò che vuole.
In Svizzera, come è noto, hanno bloccato definitivamente la costruzione di moschee con un referendum relativo all’incompatibilità dei minareti con il paesaggio alpino; ma è stato possibile perché la Costituzione Elvetica ha un rapporto molto diverso con la religione rispetto a quello della Repubblica Italiana.
In breve, solo rompendo radicalmente con i valori dello Stato occupante, solo se si vuole edificare uno Stato completamente, o fortemente, diverso da quello da cui ci si stacca, può legittimarsi la rivendicazione indipendentista. Si deve giungere a dire “meglio avere le pezze al culo da indipendenti che nuotare nell’oro da concittadini”, perché non sono i soldi la questione essenziale del patto di convivenza civile.
Vale per il sentimento indipendentista della Repubblica di San Marco, vale per eventuali simili desideri in Padania, ma vale anche nell’edificazione dell’Europa politica, dove all’efficienza economica va preferita la libertà e l’effettivo esercizio della sovranità dei popoli che, per essere riconosciuti come tali, devono avere un comune sentire fatto di memorie, sentimenti, usi e costumi, credenze e altare, ethos (i valori morali) ed ethnos (l’ascendenza, l’appartenenza e la discendenza), lingua e radicamento nel territorio, nell’ambiente, nella venerazione dei morti, il tutto riunito in una simbologia a tutti riconoscibile, fatta di feste e riti comunitari. Fuori da queste caratteristiche un popolo non è tale.
Per esserlo, deve saper sostituire i simboli dello Stato occupante con simboli propri e diversi, perché un popolo senza simboli non è un popolo, ma solo un’accozzaglia di individui dispersi, senza dignità né nome.


Fonte: visto su L’Indipendenza del  24 agosto 2014



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