sabato 4 maggio 2013

FALLIMENTO DEL LIBERALISMO ITALICO: L’ITALIA UNITA NON SARÀ MAI LIBERALE




di GILBERTO ONETO

Per affrontare la lettura del libro Manifesto capitalista (sottotitolo: Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta) si devono superare una repulsione psicologica nei confronti di un titolo davvero infelice e l’ostacolo “di pelle”  verso l’autore, quel Luigi Zingales che è passato alla cronaca per la maramaldata nei confronti del suo (fino ad allora) amico e sodale Oscar Giannino, che invece – a onta della disavventura – continua a essere simpatico ai più.

Una volta superate queste giustificate repulsioni, si trova un lavoro interessante e ben costruito, ma scritto per “addetti ai lavori”,  pieno di tecnicalità che disorientano parecchio il lettore medio, ed evidentemente scritto per un pubblico americano, con riferimenti e modalità molto americani. Infatti è la traduzione di A Capitalism for the People, dal titolo originario un pochino più efficace.

Anche per tutte queste ragioni, la parte decisamente più interessante è la postfazione aggiunta all’edizione italiana nella quale si affrontano le vicende di casa nostra con una serie di elementi di analisi condivisibili.  Descrive  lo Zingales le condizioni di illegalità diffusa in cui sono costretti a muoversi gli operatori economici nella penisola: qui il familismo amorale prevale sulla competenza, non esiste reale libertà di concorrenza, la meritocrazia è un concetto del tutto ignoto, non esistono regole chiare né un quadro legislativo certo che proteggano i migliori e moralizzino il mercato e l’imprenditorialità.  Tutte cose risapute che l’autore ha il merito di riuscire a descrivere con chiarezza anche grazie a una visione  culturale “esterna”. Dove il suo ragionamento mostra qualche limite è nella enunciazione  di come “creare le condizioni per la meritocrazia” e per riportare l’Italia a una condizione di accettabile civiltà.

I limiti nella sezione  propositiva sono paradossalmente la parte più interessante del libro perché sono fondamentali nel comprendere i caratteri e gli errori di una certa parte del liberismo italiano:  il ragionamento sviluppato dallo Zingales consente di chiarire  l’atteggiamento di una vasta parte del mondo liberale e liberista.
I ragionamenti e – soprattutto – le proposte di soluzione sono inappuntabili ma peccano di generalismo, sono limitate dal loro essere un po’ apolidi e mondialiste. La situazione italiana è molto specifica e la mancata comprensione di questa specificità storica, culturale e anche antropologica è alla base dell’impotenza e del fallimento  che si porta addosso una bella fetta del mondo liberale italiano, dal più moderato (liberale più a parole che nella sostanza)  espresso dal berlusconismo, fino a quello che si proclama più estremo e coerente del gianninismo e del milieu che ruota attorno all’Istituto Bruno Leoni.

Tutto l’universo culturale e politico di costoro è infatti costruito su giuste considerazioni che hanno il pregio ma anche il difetto dell’universalità ma che tralasciano alcune specificità italiane.
Zingales esprime  questa posizione quando elenca i requisiti per garantire la meritocrazia e con essa la libertà di mercato e una vera condizione liberista. Ne snocciola cinque: 1) la necessità di una efficiente giustizia penale e civile; 2) un fisco più giusto ed efficiente con imposte più basse, certe e pagate da tutti;  3) regole chiare, comprensibili e rispettate per la concorrenza; 4) privatizzazioni vere; 5) risoluzione dei conflitti di interesse. Aggiunge poi la necessità di favorire la meritocrazia mediante un efficace sistema scolastico e una legge elettorale funzionante.
Tutte cose belle, buone e sante che valgono per qualsiasi paese e condizione, e che perciò risultano essenziali anche per l’Italia ma che qui non bastano.

Lo Stato è la sola garanzia di sopravvivenza dell’Italia: lo statalismo è impossibile da ridurre perché è base stessa dell’unità. Libertà e concorrenza si declinano naturalmente con un sistema federale e di autonomie, che in Italia significherebbe però la fine dell’unità e perciò dell’Italia stessa.
L’unità italiana si basa sull’associazione forzata di almeno due gruppi di comunità: uno di struttura europea (e quindi bisognoso di libertà e concorrenza) e uno che ha imparato a sopravvivere solo in forma parassitaria: come succede per i parassiti animali e vegetali, la loro concentrazione risponde anche a logiche spaziali e, quindi, geografiche.
Solo in Italia esiste una ossessiva interferenza  sui rapporti economici di efficienti strutture malavitose e – soprattutto – una stretta interdipendenza fra queste e lo Stato.
L’immigrazione ha superato nei numeri e nella virulenza ogni limite di guardia e gli immigrati sono diventati uno dei maggiori ostacoli a una riforma liberale, alla concorrenza e al mercato. Con buona pace dello stesso Zingales che, a un certo punto del suo ragionamento, arriva addirittura (soggiogato dalla opportunità di essere politicamente corretto) a descrivere gli immigrati come motore di cambiamento positivo.
Se non si tengono in debita considerazione questi elementi, ogni progetto di riforma liberale è destinato a fallire: l’Italia non è un paese normale e non potrà mai esserlo. Il solo intervento salvifico nei sui confronti è di eutanasia.

Insomma, la ricetta liberista di Zingales si rivela come la più puntuale cartina al tornasole dei limiti di certo liberismo, che infatti non va da nessuna parte.
Esso può avere una funzione salvifica e determinante solo se viene associato all’indipendentismo. L’Italia intera non potrà mai essere liberale:  diversa è la vocazione di sue cospicue parti geografiche, che sono state la culla della libertà e del liberismo e possono rinascere e prosperare solo se liberali, indipendenti e libere. C’è una parte strutturalmente liberale e una inevitabilmente statalista e le due non possono più convivere.
Come sempre, le motivazioni di ordine economico sono sacrosante e sono l’elemento scatenante di ogni cambiamento, ma senza cuore, passione, ideali e bandiere, non vanno da nessuna parte.

Fonte: srs di GILBERTO ONETO, da L’Indipendenza del 2 maggio 2013

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