domenica 28 aprile 2013

I DIECI GRANDI MITI ECONOMICI CHE VANNO SFATATI




di  MURRAY N. ROTHBARD

Il nostro Paese è assediato da un gran numero di miti economici che distorcono il pensiero della società sui problemi importanti e ci portano ad accettare politiche di governo sbagliate e pericolose. Ecco dieci dei più pericolosi di questi miti e un’analisi di ciò che è in loro fallace.

MITO 1: I DEFICIT SONO LA CAUSA DI INFLAZIONE, I DEFICIT NON HANNO NULLA A CHE FARE CON L’INFLAZIONE.

Negli ultimi decenni abbiamo sempre avuto deficit federali. La risposta invariabile del partito all’opposizione, qualunque esso sia, è stata quella di denunciare quei deficit come causa di inflazione perpetua. E la risposta invariabile di qualunque partito al potere è stata quella di sostenere che i deficit non hanno nulla a che fare con l’inflazione. Entrambe le opposte affermazioni sono dei miti.

I deficit significano che il governo federale sta spendendo più di quello che sta prendendo in tasse. Tali deficit possono essere finanziati in due modi. Se essi sono finanziati con la vendita di buoni del Tesoro alla società, allora i deficit non sono inflazionistici. Nessuna nuova liquidità viene creata, le persone e le istituzioni semplicemente usano i loro depositi bancari per pagare le obbligazioni e il Tesoro spende quei soldi. Il denaro è stato semplicemente trasferito dalla società al Tesoro, poi il denaro viene speso per gli altri membri del pubblico.

D’altra parte, il deficit può essere finanziato con la vendita di obbligazioni al sistema bancario. In tal caso, le banche creano nuova moneta con la creazione di nuovi depositi bancari e li utilizzano per comprare le obbligazioni. Il nuovo denaro, sotto forma di depositi bancari è speso dal Tesoro, e quindi entra definitivamente nel flusso della spesa dell’economia, aumentando i prezzi e provocando inflazione. Con un processo complesso, la Federal Reserve consente alle banche di creare il nuovo denaro generando riserve bancarie di un decimo di quella cifra. Così, se le banche comprano 100 miliardi di dollari di nuovi prestiti obbligazionari per finanziare il deficit, la Fed acquista circa 10 miliardi di dollari di vecchi buoni del Tesoro. Questo acquisto aumenta le riserve bancarie di 10 miliardi di dollari e consente alla piramide bancaria la creazione di nuovi depositi bancari o di denaro per dieci volte tale importo. In breve, il governo e il sistema bancario controllano di fatto la “stampa” di nuovo denaro per pagare il deficit federale.

Così, i deficit sono inflazionistici nella misura in cui essi sono finanziati dal sistema bancario, non sono inflazionistici nella misura in cui sono sottoscritti dal pubblico. Alcuni politici citano il periodo 1982-1983, quando i deficit sono aumentati e l’inflazione è iniziata a scendere come una “prova” statistica che deficit ed inflazione non hanno alcuna relazione tra di loro. Questa non è una prova valida. Variazioni dei prezzi generali sono determinati da due fattori: l’offerta e la domanda di moneta. Durante il 1982-1983 la Fed ha creato nuovo denaro ad un tasso molto elevato, circa il 15% annuo. Molto di questo è andato a finanziare il deficit in espansione. Ma d’altra parte, la grave depressione di questi due anni ha aumentato la domanda di moneta (cioè ha abbassato il desiderio di spendere soldi in beni) in risposta alle gravi perdite aziendali. Questo temporaneo aumento compensato nella domanda di moneta non ha reso il deficit meno inflazionistico. In realtà, come processo di salvataggio, l’aumento della spesa ha fatto scendere la domanda di moneta, e la spesa di nuova moneta ha accelerato l’inflazione.

MITO 2: I DEFICIT NON HANNO UN EFFETTO DISTORSIVO SUGLI INVESTIMENTI PRIVATI.

Negli ultimi anni ci sono state preoccupazioni comprensibili sul basso tasso di risparmio e di investimento negli Stati Uniti. Una delle preoccupazioni è che l’enorme deficit federale dirotti il risparmio verso la spesa pubblica improduttiva e quindi distorca gli investimenti produttivi, generando sempre maggiori problemi di lungo periodo in futuro nel livello di vita dei cittadini.

Alcuni politici, ancora una volta hanno tentato di confutare questa accusa con le statistiche. Dichiarano che nel 1982-83 i deficit erano elevati e in crescita mentre i tassi di interesse erano scesi, indicando in tal modo che i deficit non hanno alcun effetto distorsivo. Questo argomento mostra ancora una volta l’errore di cercare di confutare la logica con le statistiche. I tassi di interesse sono scesi a causa del calo dell’indebitamento aziendale in una fase di recessione. I tassi di interesse “reali” (tassi di interesse meno il tasso di inflazione) sono rimasti elevati senza precedenti; in parte perché la maggior parte di noi si aspetta una ripresa dell’inflazione, in parte a causa dell’effetto distorsivo.

In ogni caso, le statistiche non possono confutare la logica, e la logica ci dice che se risparmi vanno in titoli di Stato, ci sarà necessariamente meno risparmio disponibile per gli investimenti produttivi, i tassi di interesse sarebbero più alti in assenza di deficit. Se i deficit sono finanziati dalla società, allora questo dirottamento del risparmio verso progetti di governo è diretto e palpabile. Se i deficit sono finanziati dall’inflazione bancaria, la deviazione è indiretta, la distorsione si sta svolgendo col nuovo denaro “stampato” dal governo in competizione per le risorse con il vecchio denaro risparmiato dalla società.

Milton Friedman ha cercato di confutare l’effetto di distorsione dei deficit, affermando che tutta la spesa del governo, non solo i deficit, distorcono il risparmio privato e gli investimenti. E’ vero che i soldi dirottati dalle tasse potrebbero anche essere andati in risparmio privato e in investimenti, ma i deficit hanno un effetto assai più distorsivo che la spesa complessiva, in quanto i deficit finanziati dal pubblico ovviamente toccano il risparmio e solo il risparmio, mentre le imposte riducono il consumo della società così come il risparmio.

Così i deficit, in qualunque modo li si guardino, causano gravi problemi economici. Se finanziati dal sistema bancario sono inflazionistici. Ma anche se sono finanziati dal pubblico causeranno comunque gravi effetti distorsivi, dirottando il risparmio necessario da investimenti privati produttivi a progetti governativi dispendiosi. Inoltre maggiore è il deficit maggiore è la pressione fiscale sul reddito permanente sul popolo americano al fine di pagare gli interessi crescenti, un problema aggravato dagli alti tassi di interesse derivanti da deficit inflazionistici.

MITO 3: GLI AUMENTI FISCALI SONO UNA CURA AL PROBLEMA DEL DEFICIT.

Quelle persone preoccupate per il deficit offrono purtroppo una soluzione inaccettabile: un aumento delle tasse. Curare un deficit aumentando le tasse equivale a curare la bronchite di qualcuno sparandogli.  La “cura” è di gran lunga peggiore della malattia. Uno dei motivi, che molti critici hanno sottolineato, è che l’aumento delle tasse dà semplicemente al governo più soldi, e così i politici e i burocrati sono suscettibili di reagire aumentando ulteriormente le spese. Parkinson nella sua celebre “legge” ha detto: «le spese salgono per incontrare le entrate». Se il governo è disposto ad avere, ad esempio un deficit del 20%, gestirà gli elevati ricavi per portare la spesa ancora più in alto al fine di mantenere la stessa percentuale di deficit.


Ma anche a prescindere da questo giudizio sagace nella psicologia politica, perché qualcuno dovrebbe credere che una tassa è meglio di un prezzo più alto?  E’ vero che l’inflazione è una forma di tassazione, in cui il governo e altri primi ricevitori di nuova moneta sono in grado di espropriare i membri della società con un loro rapido aumento del reddito in seguito al processo di inflazione. Ma almeno con l’inflazione la gente sta ancora raccogliendo alcuni dei benefici di scambio. Se il pane sale a 10 dollari alla pagnotta, questo è un peccato ma almeno si può ancora mangiare il pane. Ma se le tasse salgono, il vostro denaro è espropriato a vantaggio dei politici e dei burocrati, i quali non lasciano nessun servizio o beneficio. L’unico risultato è che i soldi dei produttori è confiscato a beneficio di una burocrazia che aggiunge alla beffa un danno, utilizzando una parte di quel denaro confiscato per spingere attorno a sé la società. No, l’unica vera cura per il deficit è semplice ma praticamente sotto silenzio: tagliare il bilancio federale. Come e dove? Ovunque e dappertutto.

MITO 4: OGNI VOLTA CHE LA FED DIMINUISCE L’OFFERTA DI MONETA, I TASSI D’INTERESSE AUMENTANO (O SCENDONO); OGNI VOLTA CHE LA FED ESPANDE L’OFFERTA DI MONETA, I TASSI DI INTERESSE SALGONO (O SCENDONO).

La stampa finanziaria ora ne sa abbastanza di economia per guardare i dati settimanali di approvvigionamento di denaro come falchi, ma inevitabilmente interpretano questi dati in modo caotico. Se l’offerta di moneta aumenta questo viene interpretato come l’abbassamento dei tassi di interesse ed inflazionari, ma è anche spesso interpretato nello stesso articolo come l’aumento dei tassi di interesse. E viceversa, se la Fed stringe la crescita della moneta viene interpretato sia come un aumento dei tassi di interesse che come loro taglio. A volte sembra che tutte le azioni della Fed, non importa quanto contraddittorie, debbano risultare un aumento dei tassi di interesse. Chiaramente c’è qualcosa di molto sbagliato qui.

Il problema è che, come nel caso dei livelli di prezzo, ci sono diversi fattori causali operanti sui tassi di interesse ed in direzioni diverse. Se la Fed amplia l’offerta di moneta, lo fa generando più riserve bancarie e ampliando in tal modo l’offerta di credito bancario e di depositi bancari. L’espansione del credito significa necessariamente un aumento dell’offerta nel mercato del credito e, quindi, un abbassamento del prezzo del credito o tasso di interesse. D’altra parte, se la Fed limita l’offerta di credito e la crescita dell’offerta di moneta, questo significa che l’offerta cala sul mercato del credito, e dovrebbe significare un aumento dei tassi di interesse.

E questo è precisamente ciò che accade nel primo decennio o due di inflazione cronica. L’espansione voluta dalla Fed abbassa i tassi di interesse; un loro inasprimento da parte della Fed li solleva. Ma dopo questo periodo, la società e il mercato cominciano a prendere coscienza di ciò che sta accadendo. Cominciano a rendersi conto che l’inflazione è cronica a causa dell’espansione sistemica dell’offerta di moneta. Quando si rendono conto di questo dato di fatto, essi dovranno anche comprendere che l’inflazione cancella il creditore a favore del debitore. Così, se qualcuno concede un prestito al 5% per un anno e vi è l’inflazione al 7% in quell’anno, il creditore ci perde e non guadagna. Perde il 2% dal momento che viene pagato di nuovo in dollari che ora valgono il 7% in meno del loro potere di acquisto. Viceversa, il debitore guadagna dall’inflazione. Non appena i creditori cominciano a capire questo, pongono un premio di inflazione sul tasso di interesse che i debitori saranno disposti a pagare.

Quindi, nel lungo periodo nulla più alimenta le aspettative di inflazione che l’aumento dei premi sui tassi di interesse a fronte dell’inflazione, e nulla smorza di più le aspettative che l’abbassamento di quei premi. Pertanto, un inasprimento della Fed tenderà ora a smorzare le aspettative di inflazione con tassi di interesse più bassi, una espansione da parte della Fed accende di nuovo quelle aspettative di crescita. Ci sono due opposte tendenze causali al lavoro. E così l’espansione o la contrazione operata dalla Fed possono sia aumentare o diminuire i tassi di interesse a seconda di quale tendenza causale sia più forte. Quale sarà la più forte? Non c’è modo di saperlo con certezza. Nei primi decenni di inflazione non vi è alcun premio d’inflazione; nei decenni successivi, come siamo ora, vi è. La forza relativa e i tempi di reazione dipendono dalle aspettative soggettive della società e queste non possono essere previste con certezza. Questo è uno dei motivi per cui le previsioni economiche non possono mai essere fatte con certezza.

MITO 5: GLI ECONOMISTI, UTILIZZANDO GRAFICI O MODELLI DI COMPUTER AD ALTA VELOCITÀ, SONO IN GRADO DI PREVEDERE CON PRECISIONE IL FUTURO.

Il problema della previsione sui tassi d’interesse illustra le insidie di porre previsioni in generale. Le persone sono maledettamente spaventate di tale comportamento, e grazie al cielo non si può prevedere con precisione. I loro valori, le idee, le aspettative e le conoscenze cambiano continuamente, e cambiano in modo imprevedibile. Quale economista, per esempio, avrebbe potuto prevedere (o ha previsto) la Cabbage Patch Kid mania nel Natale del 1983? Ogni quantità economica, ogni prezzo, acquisto o reddito è l’incarnazione di migliaia, addirittura milioni, di scelte imprevedibili da parte di individui.

Molti studi, formali ed informali sono stati fatti registrando le previsioni degli economisti, i quali hanno dato risultati costantemente abissali. I futurologi spesso si lamentano che non possono fare abbastanza bene finché le tendenze attuali sono continue, ciò che hanno difficoltà a fare è il cogliere i cambiamenti di tendenza. Ma naturalmente non c’è una scorciatoia che permetta di estrapolare le tendenze attuali in un prossimo futuro. Non hai bisogno di sofisticati modelli computerizzati per fare questo, si può fare meglio e molto più a buon mercato utilizzando un righello. Il vero trucco sta proprio nel far credere di poter prevedere quando e come un trend cambierà, e i previsori notoriamente fanno male questo compito. Nessun economista ha previsto la gravità della depressione del 1981-1982 e nessuno ne ha predetto la sua permanenza nel 1983. La prossima volta che siete influenzati dal gergo o dalla competenza apparente di questi previsori economici, ponetevi questa domanda: se può realmente prevedere il futuro così bene, perché sta sprecando il suo tempo a mandare newsletter o fare consulenze quando egli stesso potrebbe fare migliaia di miliardi di dollari nelle Borse merci e valori?.

MITO 6: ESISTE UN COMPROMESSO TRA DISOCCUPAZIONE ED INFLAZIONE.

Ogni volta che qualcuno chiede al governo di abbandonare le sue politiche inflattive, economisti e politici delle istituzioni avvertono che il risultato può essere solo un aggravamento della disoccupazione. Siamo quindi intrappolati nell’avere inflazione contro alta disoccupazione, diventando persuasi che dobbiamo accettare entrambe. Questa tesi è la posizione di ripiego dei keynesiani. In origine, i keynesiani ci hanno promesso che, manipolando per bene i deficit e la spesa pubblica, ci avrebbero portato la prosperità permanente e la piena occupazione senza inflazione. Poi, quando l’inflazione è diventata cronica e sempre più alta, hanno cambiato la loro melodia avvertendoci della necessità di un compromesso, il tutto al fine di non esercitare ogni possibile pressione sul governo per fermare la sua creazione inflazionistica di nuova moneta.

La dottrina del compromesso si basa sulla presunta “curva di Phillips”, una curva inventata molti anni fa dall’economista britannico A. W. Phillips. Phillips ha correlato il tasso di incremento salariale con la disoccupazione, e ha poi affermato che i due si muovono inversamente: maggiore è l’aumento dei salari, minore è la disoccupazione. Questa però è una tesi particolare, dal momento che viaggia al di là della logica e del senso comune. La teoria ci dice che maggiore è la retribuzione, maggiore è il tasso di disoccupazione, e viceversa. Se ognuno andasse domani dal suo datore di lavoro e insistesse su un aumento doppio o triplo del suo salario, molti di noi sarebbero prontamente senza lavoro. Eppure questo risultato bizzarro è stato accettato come il Vangelo dall’istituzione economica keynesiana.

A questo punto, dovrebbe essere chiaro che questo risultato statistico nega i fatti così come la teoria logica. Durante il corso degli anni ’50 (del XX° secolo, n.d.t), l’inflazione era solo circa l’1-2% annuo, e la disoccupazione si aggirava intorno al 3-4%, in seguito il tasso di disoccupazione era compreso tra l’8-11%, e l’inflazione tra il 5% e il 13%.  In breve, negli ultimi due o tre decenni sia l’inflazione che la disoccupazione sono aumentati bruscamente e severamente. Semmai abbiamo avuto una curva inversa di Phillips. Vi è tutt’altro che un compromesso tra inflazione-disoccupazione.

Ma gli ideologi raramente lasciano il posto ai fatti, anche se dicono continuamente di “testare” le loro teorie coi fatti. Per salvare il concetto, hanno semplicemente concluso che la curva di Phillips rimane ancora un compromesso tra inflazione-disoccupazione, salvo che la curva ha inspiegabilmente “virato” per una nuova serie di presunti compromessi. Ovviamente dinnanzi a questo tipo di mentalità, nessuno mai potrebbe confutare qualsiasi teoria.

In realtà, l’inflazione corrente anche se riduce la disoccupazione nel breve periodo, inducendo i prezzi ed aumentando i tassi salariali (in modo da ridurre i salari reali), creerà solo più disoccupazione nel lungo periodo. Alla fine, i tassi salariali aumentati con l’inflazione e l’inflazione stessa portano alla recessione e alla disoccupazione inevitabilmente quale esito. Dopo più di due decenni di inflazione ora stiamo vivendo in quel “lungo periodo”.

MITO 7: LA DEFLAZIONE (O CALO DEI PREZZI) È IMPENSABILE, E POTREBBE CAUSARE UNA DEPRESSIONE CATASTROFICA.

La memoria della gente è corta. Ci dimentichiamo che, dall’inizio della rivoluzione industriale a metà del XVIII° secolo fino all’inizio della seconda guerra mondiale, i prezzi in generale sono diminuiti anno dopo anno. Questo perché è continuamente aumentata la produttività e la produzione di beni generati col libero mercato causando un crollo dei prezzi. Non c’era però la depressione, poiché i costi sono scesi con i prezzi di vendita. Di solito i salari sono rimasti costanti mentre il costo della vita è sceso, in modo che i salari “reali” o lo standard di vita di ciascuno di noi aumentasse costantemente.

Praticamente l’unico momento in cui i prezzi sono aumentati in più di due secoli è stato nei periodi di guerra (guerra del 1812, guerra civile, prima guerra mondiale), quando i governi belligeranti hanno gonfiato l’offerta di moneta così pesantemente per pagare la guerra, come e più che nel compensare i continui guadagni della produttività. Possiamo vedere come il capitalismo di libero mercato funzioni in assenza di inflazione da parte di un banca governativa o centrale se guardiamo a quanto è successo in questi ultimi anni coi prezzi dei computer. Un semplice computer usato costava inizialmente una enormità, milioni di dollari. Ora, con un notevole aumento della produttività indotta dalla rivoluzione dei microchip, i computer stanno calando nel prezzo anche mentre scrivo. Le aziende di computer ci sono riuscite, nonostante il calo dei prezzi, perché i loro costi sono in calo mentre è in aumento la loro produttività.

In realtà questi costi in diminuzione e nei prezzi hanno permesso loro di toccare un caratteristico mercato di massa con una crescita dinamica del capitalismo di libero mercato. La “deflazione” non ha portato a nessun disastro in questa industria. Lo stesso è valso per altri settori ad alta crescita: dei calcolatori elettronici, della plastica, dei televisori e dei videoregistratori. La deflazione, lungi dal portare alla catastrofe, è il segno distintivo di una crescita economica sana e dinamica.

MITO 8: LA MIGLIORE TASSA È UNA TASSA “PIATTA” SUL REDDITO, PROPORZIONATA AL REDDITO A TUTTO CAMPO SENZA ECCEZIONI O DEDUZIONI.

Di solito è proposto dai sostenitori della flat tax, che l’eliminazione di alcune esenzioni consentirebbe al governo federale di ridurre l’aliquota fiscale vigente in modo sostanziale. Ma questa visione assume, per dirne una, che le deduzioni dall’imposta sul reddito attuali siano sovvenzioni immorali o “scappatoie” che dovrebbero essere terminate per il bene di tutti. Una detrazione o l’esenzione è solo una “scappatoia” se si assume che il governo detenga il 100% del reddito di tutti e che permetta ad alcuni di tali redditi di rimanere tassati, e che questo costituisca una irritante “scappatoia”.

Permettere a qualcuno di mantenere un po’ del suo reddito non è né una scappatoia né una sovvenzione. Abbassando le imposte complessiva abolendo le detrazioni per le cure mediche, per i pagamenti di interessi, o per le perdite non assicurate, semplicemente si abbassano le tasse a un gruppo di persone (quelle che hanno poco interesse a pagare le spese mediche o le perdite non assicurate), a spese di crescerle per coloro che hanno sostenuto tali spese.

Non vi è inoltre alcuna garanzia né probabilità che, una volta che le esenzioni e le deduzioni siano sicure, il governo mantenga la sua aliquota fiscale al livello più basso. Guardando il record dei governi passati e presenti ci sono tutte le ragioni per ritenere che il nostro denaro venga preso dal governo riaumentando il tasso di sicurezza fiscale (almeno) al vecchio livello, con un conseguente maggiore drenaggio dai produttori alla burocrazia.

Si suppone che il sistema fiscale debba essere analogo ai prezzi o ai redditi sul mercato, ma il prezzo di mercato non è proporzionale al reddito. Sarebbe un mondo strano, se per esempio, Rockefeller fossero costretti a pagare 1.000 dollari per un pezzo di pane, ovvero un pagamento proporzionale al suo reddito rispetto alla media. Ciò significherebbe un mondo in cui l’uguaglianza dei redditi è stata applicata in modo particolarmente bizzarro ed inefficiente. Se una tassa fosse applicata come un prezzo di mercato, sarebbe pari ad ogni “cliente”, non proporzionato al reddito di ciascun cliente.

MITO 9: UN TAGLIO DELLE IMPOSTE SUL REDDITO AIUTA TUTTI, NON SOLO IL CONTRIBUENTE MA ANCHE IL GOVERNO, IL QUALE NE POTREBBE BENEFICIARE DAL MOMENTO CHE LE ENTRATE FISCALI AUMENTEREBBERO QUANDO IL TASSO DI PRESSIONE FISCALE VIENE TAGLIATO.

Questa è la cosiddetta “curva di Laffer”, stabilita dall’economista californiano Arthur Laffer. E’ stata avanzata come un mezzo per consentire ai politici di quadrare il cerchio, riuscendo ad operare i tagli fiscali mantenendo la spesa al livello attuale e il pareggio del bilancio, tutto allo stesso tempo. In questo modo, la società avrebbe goduto del taglio delle tasse, felice del pareggio di bilancio, continuando a ricevere lo stesso livello di sussidi da parte del governo.



E’ vero che se le aliquote fiscali sono al 99%, e sono tagliate a 95%, il gettito fiscale salirà, ma non c’è motivo di ritenere tali semplici connessioni come valide in qualsiasi altro momento. In realtà, questo rapporto funziona molto meglio per una accisa locale che per una imposta sul reddito nazionale. Alcuni anni fa, il governo del Distretto di Columbia decise di procurarsi un po’ di entrate aumentando bruscamente la tassa sulla benzina nel Distretto, ma gli automobilisti sarebbero semplicemente andati oltre il confine in Virginia o Maryland a fare il pieno a un prezzo molto più economico. Con grande dispiacere e confusione i burocrati di D.C. hanno poi dovuto abrogare la tassa.

Ma questo non è probabile che accada con l’imposta sul reddito. Le persone non stanno andando a smettere di lavorare o abbandonando il Paese a causa di un relativamente piccolo aumento delle tasse, oppure facendo il contrario a causa di un taglio delle tasse. Ci sono alcuni altri problemi con la curva di Laffer. La quantità di tempo che dovrebbe servire affinché avvenga l’effetto Laffer non viene mai specificato. Ma cosa ancora più importante: Laffer presuppone che ciò che tutti noi vogliamo sia quello di massimizzare le entrate fiscali verso il governo. Se per ipotesi fossimo veramente alla metà superiore della curva di Laffer, dovremmo quindi tutti quanti voler impostare le aliquote fiscali a quel punto “ottimale”. Ma perché? Perché dovrebbe essere l’obiettivo di tutti noi al fine di massimizzare le entrate del governo? Perché dirottare al massimo la quota di prodotto privato verso le attività di governo? Piuttosto dovremmo pensare ad essere più interessati a ridurre al minimo le entrate del governo, spingendo le aliquote fiscali molto, molto al di sotto di qualunque “ottimo lafferiano”.

MITO 10: LE IMPORTAZIONI DA PAESI DOVE LA MANODOPERA È A BASSO COSTO CAUSA LA DISOCCUPAZIONE NEGLI STATI UNITI.

Uno dei molti problemi con questa tesi è che si ignora la domanda: perché sono bassi i salari in un Paese straniero ed alti negli Stati Uniti? Si inizia con questi tassi salariali come ultimo dato ma non si persegue la domanda perché quelli lo siano. In sostanza sono alti negli Stati Uniti perché la produttività del lavoro è alto, perché qui i lavoratori sono aiutati da una grande quantità di beni strumentali tecnologicamente avanzati. I salari sono bassi in molti Paesi stranieri perché i beni strumentali sono minori e tecnologicamente primitivi. Senza l’aiuto di un capitale, la produttività dei lavoratori è di gran lunga inferiore a quella degli Stati Uniti.

I salari in tutti i paesi sono determinati dalla produttività dei lavoratori in quel Paese. Quindi, gli alti salari negli Stati Uniti non sono una minaccia permanente alla prosperità americana ma sono il risultato di tale prosperità. Ma ciò nonostante, perché certe industrie negli Stati Uniti si lamentano ad alta voce e cronicamente per la concorrenza “sleale” di prodotti da Paesi a bassi salari? Dobbiamo renderci conto che i salari in ogni Paese sono interconnessi a un settore e con l’occupazione di un’altra regione. Tutti i lavoratori sono in concorrenza tra loro e se i salari nel settore A sono molto più bassi che in altri settori, i lavoratori, specie i giovani lavoratori che iniziano la loro carriera, lascerebbero o si rifiuterebbero di entrare nell’industria A, preferendo altre imprese o settori in cui il tasso di salario è maggiore.

I salari nelle industrie che si lamentano sono alti perché vi è un’offerta elevata da parte delle industrie presenti negli Stati Uniti. Se le industrie siderurgiche e tessili negli Stati Uniti hanno difficoltà a competere con i loro omologhi all’estero non è perché le imprese straniere stanno pagando bassi salari, ma a causa di altre industrie americane che hanno spinto in alto i salari americani ad un livello tale che le altre industrie dell’acciaio e del tessile non possono permettersi di pagare. In breve, ciò che sta realmente accadendo è che le industrie dell’acciaio e tessili o altre imprese, stanno utilizzando la manodopera in modo inefficiente rispetto ad altre industrie americane.

Le tariffe o le quote di importazione per mantenere le imprese inefficienti o le industrie in funzione fanno male a tutti, in ogni Paese, in chi non è in quel settore. Esse danneggiano tutti i consumatori americani mantenendo i prezzi alti e tenendo la qualità e la concorrenza bassa, distorcendo la produzione. Una tariffa o una quota di importazione equivale a tagliare una ferrovia o distruggere una compagnia aerea al solo scopo di rendere il trasporto internazionale artificialmente più costoso.

Le tariffe e le quote di importazione colpiscono anche le altre industrie americane efficienti dall’impegnare risorse che altrimenti avrebbero usi più efficienti. Nel lungo periodo, le tariffe e le quote, come ogni sorta di monopolio di privilegio conferito dal governo, sono una manna per le imprese protette e sovvenzionate. Poiché, come abbiamo visto nel caso di ferrovie e compagnie aeree, le industrie godono del monopolio conferitogli dal governo (sia per mezzo di tariffe o regolamenti) alla fine queste diventano così inefficienti che perdono soldi in ogni caso, e questo sempre più comporta nuovi salvataggi per assolvere ad una loro perpetua espansione privilegiata al riparo dalla libera concorrenza.

*Articolo tradotto in italiano da Francesco Simoncelli, qua la prima parte.


Fonte:  da  L’INDIPENDENZA  del  19-20 aprile 2013


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