mercoledì 7 marzo 2012

DIME CAN MA NO TALIAN. MA DOPO CHE FARE?


Serenissima Repubblica. Lapide inserita a Vicenza sulla Torre Bissara  che ricorda il trattamento riservato ad Anfrea Boldù, suo pubblico ufficiale infedele. 


C’è una bella storia ebraica che ci racconta come un giusto si ficcò in capo di salvare gli abitanti di una città, in preda al peccato. E perciò ogni giorno gira per tutte le strade, con un cartello che esorta gli abitanti a non rubare, a non uccidere, a non commettere altri mali.
All’inizio, tutti lo guardano perplessi; molti sorridono, o scuotono il capo. Tutti continuano a commettere peccati. Passano i giorni e gli anni e il giusto continua a girare con il suo cartello. Ormai è diventato vecchio, continua a girare e a gridare di non violare i comandamenti.

Finché un giorno un bambino gli chiede: “Ma non ti sei accorto che gridi, gridi, e nessuno ti ascolta? Non ti accorgi che tutto quel che fai non serve a nulla?”.
Certo”, risponde il vecchio, “me ne sono accorto. All’inizio giravo, giravo e gridavo, perché speravo di cambiarli. Ora però mi rendo conto che non li cambierò mai. Ma non smetterò di gridare. E se ora continuo a gridare, è perché non voglio che loro cambino me.”

Ecco, in molti non vogliono essere scambiati per italiani, perché preferiscono rimanere Veneti. La Serenissima ha lasciato dietro di sé testimonianze cospicue. Tra queste ci piace qui ricordare una lastra di marmo inserita nelle mura della Torre Bissara sita al centro di Vicenza (vedi foto) che ci parla – da secoli – del trattamento riservato dalla “dominante” ai suoi pubblici ufficiali che si sono dimostrati infedeli.

Siamo esattamente al 3 Ottobre 1698 ed un alto funzionario dello Stato (nella repubblica di Venezia diversi magistrati sovrintendenti alle attività economiche portavano il titolo di Camerlenghi de Comùn) è bandito, perché si è impossessato di denari dell’erario, cioè di tutti, e ciò malgrado appartenga ad una delle famiglie patrizie che da sempre governano la repubblica. Non ci sono dunque nepotismi o eccezioni che contano. Chi sbaglia paga, ed il Camerlengo Andrea Boldù, vale a dire colui che amministra il tesoro e i beni dello Stato nella città di Vicenza che da lui retta prende anche il nome di “Camera” viene espulso.

Tuttavia, per capire esattamente cosa ciò significasse, dobbiamo esaminare quanto ci dice Pompeo Molmenti nel suo libro dal titolo: «I BANDITI DELLA REPUBBLICA VENETA» (seconda edizione riveduta e notevolmente aumentata) Firenze R. Bemporad & Figlio, edito nel 1898:
«Già, fin dal 30 agosto 1531, si avvertiva che essendo i banditi diffidati et fuori della protettione del Principe, anzi del listesso Principe nemici, e da lui chiamati abbominevole et detestanda generatione, non devono esser protetti et ricoverati dai suoi feudatari, e per ciò meritano de’ feudi esser privati, essendo anco per legge feudale deciso che quel Vassallo, che favorisce li nemici del suo Patrono sia del feudo escluso. (…) Ma poiché talvolta avveniva che i banditi bene armati si introducevano nelle case altrui, né si aveva ardìre di scacciarli, così molti decreti ordinavano che li Comuni et università delle ville dovessero far sonar campana martello, et con l’armi seguitarli, prenderli et anco ucciderli promettendo immunità e benefizi. Un decreto del 16 dicembre 1560 permetteva di uccidere l’assassino còlto in fragranti, perseguendolo anche sulle terre non soggette alla Repubblica. (…) Per recidere il male, non si avea ripugnanza di ricorrere perfino a mezzi perfidi e tenebrosi. (…) I Dieci incaricavano i rappresentanti della repubblica nei paesi stranieri di occuparsi non soltanto di faccende diplomatiche, ma di farsi anche, quando l’opportunità il richiedesse, esecutori della giustizia. Nei Registri dei Dieci trovo, in data 22 febbraio 1576, una lettera al Bailo di Costantinopoli, nella quale si parla di un Marco Boldù, patrizio, bandito dallo Stato per diversi enormi delitti.  Se il Boldù fosse capitato a Costantinopoli, il Bailo, secondo le istruzioni, con cauto secreto et sicuro modo doveva farlo levare di vita o per via di veleno come meglio gli fosse sembrato. Occulti espedienti questi, che eccitano nel nostro animo un senso di ribrezzo, ma comuni a tutti i governi e non come taluni vorrebbero, esclusivi della politica veneziana.»

S’intende che al giorno d’oggi, nella penisola italiana, nessuno vuole il ricorso a pugnali e veleno per tutti quegli incaricati di pubblico ufficio, politici compresi, che si dimostrano infedeli al mandato ricevuto. Tanto meno è realizzabile la muratura d’una lastra marmorea a segnalare la condanna (che nella realtà spesso manca) dell’infedele. Non basterebbero i muri!

Eppure sarebbe sufficiente concretizzare quella che fu una delle proposte della prima Unione Federalista. Quella che si formalizzò presso il notaio Chiodi di Milano, nel 1995, e che vedeva il suo primo presidente nella persona del prof. Gianfranco Miglio. Da qualche anno riproposta nella neocostituita Unione Federalista che ha per segretario Giancarlo Pagliarini, e che è presto descritta:

• Per consentire l’effettiva partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa prevista dalle Leggi vigenti, è consentita l’indizione e l’attuazione di referendum «d’iniziativa» e «di revisione» tra la popolazione comunale in materia di esclusiva competenza locale.

• Per «iniziativa», s’intendono azioni tese ad imporre a Sindaco, Giunta e Consiglio comunale, deliberazioni su argomenti che interessano l’intera comunità. Per «revisione», s’intendono quelle deliberazioni che, già assunte dalla Amministrazione comunale, si vogliono, eventualmente, prese con differenti norme.

• In ambedue i casi: «d’iniziativa» e «di revisione» i referendum sono validi con qualsiasi numero di partecipanti al voto.

• Al fine di garantire l’imparzialità, l’efficienza, l’efficacia dell’Amministrazione e un corretto rapporto con i cittadini, nonché per la tutela di interessi giuridicamente rilevanti, è istituito l’ufficio del Procuratore civico. Esso svolge una solida funzione di inchiesta, esercitata con gli stessi poteri di indagine (e, naturalmente, gli stessi limiti) dell’autorità giudiziaria. Al Procuratore civico spetterà procedere, d’ufficio o su denuncia, contro i pubblici amministratori e funzionari responsabili di cattiva amministrazione, promuovendo il giudizio nei loro confronti davanti alla Corte dei Conti (quando, ovviamente, non emergano reati addirittura perseguibili dinanzi alla giustizia ordinaria).

• Egli avrà funzione dirimente e deliberante, in caso di controversie riguardanti l’indizione di referendum comunali.

• L’ufficio del Procuratore civico rappresenta una carica onorifica, e non onerosa, ed è eleggibile in forma contemporanea a Sindaco e Consiglieri comunali.

Questa semplice riforma non costa nulla. Basta modificare gli Statuti dei Comuni (ma si dovrebbe esigerla anche per le Province, e le Regioni), che sono di esclusiva competenza dei singoli Consiglieri comunali, in armonia con il Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267 denominato «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali». 
È un peccato che pochi indipendentisti parlino di questa riforma. Chi ne comincia a sussurrare è una parte del Movimento 5 stelle, dopo che alcuni appartenenti alla prima Unione Federalista (scomparso G.F. Miglio) si “infiltrarono” tra i “grillini”.
Lo stesso Beppe Grillo che al convegno tenuto a Firenze nel 2009 rifiutò l’idea. Ora comincia a ricredersi, ed alcune proposte di modifica delle Statuti comunali o, per esempio, alla Regione Piemonte, hanno cominciato ad essere formalizzati, con grande rigetto, ovviamente, della partitocrazia.
Eppure, qualsiasi tipo d’indipendenza i vari Movimenti politici vorranno e potranno ottenere, sarà inutile se non avremo questi strumenti atti a controllare i ‘rappresentanti’, che altro non debbono essere che semplici delegati.


Fonte: da L’indipendenza,  del  18 febbraio 2012

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