Con la fine dell’apparente dicotomia USA-URSS, il mondo ha assunto una struttura multipolare. Al trust dei Paesi dominanti si affiancano Paesi emergenti, termine usato per indicare le aree in via d’integrazione in un unico grande mercato che, nelle intenzioni delle oligarchie beneficiarie, dovrebbe assumere sempre più una dimensione planetaria.
L’attuazione del progetto non è pacifica, sia per la conflittualità interna al gruppo delle nazioni industrialmente avanzate, sia per i fattori di instabilità impliciti nella progressiva estensione dell’universo capitalista. Al tempo stesso, la molteplicità del locale sembra resistere, e talvolta contrapporsi, all’avanzata del globale, facendo ragionevolmente dubitare della ineluttabilità di certi processi così come descritti dalla propaganda mondialista.
Secondo alcuni studiosi, come Michael Hardt ed Antonio Negri, il potere che governa il mondo e regola gli scambi globali, dovrebbe chiamarsi impero, piuttosto che mondialismo, parola derivata da mondialisme, che è la traduzione francese dell’inglese globalization. Tuttavia il termine impero andrebbe inteso come concetto e non come metafora, essendo qualcosa di diverso, sia dagli imperi dell’antichità e del medioevo, sia dall’imperialismo degli Stati nazionali nel XIX e XX secolo. La diversità andrebbe ricercata, più che nei valori di riferimento, nel diverso rapporto con lo spazio.
Nella forma imperialismo, che costituisce una proiezione della sovranità nazionale, i confini statali delimitano il centro di ogni singola potenza, da cui viene esercitato il potere sui territori esterni attraverso un sistema di canali e barriere che alternativamente facilitano e bloccano i flussi commerciali e finanziari.
Al contrario, la forma impero non ha un centro di potere o frontiere ben determinate. E’ un apparato decentrato e deterritorializzante, che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale amministrando scambi plurali tra entità continuamente ridefinite. Si caratterizza per la mancanza di limiti, spaziali e temporali. Pretende non soltanto di regolare le interazioni umane, ma di dominare direttamente la natura umana. Non rappresenta il suo dominio come storicamente transitorio, ma cristallizza l’ordine attuale per l’eternità.
Altri autori, come James Petras ed Henry Veltmeyer, considerano la sovranità globale un processo in formazione. Evidenziando la complessità strutturale del potere mondialista, preferiscono parlare, più che di impero, di Economic Empire Building (EEB). Tale idea concilia i tentativi di concettualizzare quanto di nuovo emerge nella realtà contemporanea, con le posizioni di coloro che negano valore scientifico al concetto di globalizzazione, riconoscendone al massimo efficacia descrittiva. Essi sottolineano, e non a torto, che il fenomeno, nella sua sostanza economica, sia imperialismo e non abbia bisogno di nuove definizioni, giacché risulta spiegato, in maniera esaustiva, dalla dottrina marxista-leninista. Il nuovo paradigma liberista sarebbe quindi un altro capitolo della grande narrazione borghese sul carattere benefico e pacifico del capitalismo, una riedizione dell’ultraimperialismo di Kautsky, a suo tempo confutato da Lenin.
Mondialismo, impero, imperialismo, rappresentano visioni diverse di un unico fenomeno: la dinamica del potere globale. La sua antitesi, almeno dialetticamente, dovrebbe essere il localismo, inteso come valorizzazione delle specificità di una comunità territoriale. Tale contrapposizione è più teorica che reale perché, essendo quello mondialista un sistema in itinere, l’oligarchie dominante si legittima anche per la capacità di gestire il conflitto tra identità, reali o fittizie.
Come un’efficace strategia aziendale di differenziazione produttiva consiste nell’offrire beni e servizi a consumatori targettizzati in base alle peculiarità di ciascuno, nel presupposto che gusti e preferenze tendano comunque ad uniformarsi su scala planetaria, così un’efficace global governance consiste nell’organizzare - a livello mondiale, continentale, statale, regionale, locale - le diverse espressioni identitarie, residuali o persistenti, nell’interesse delle lobby che sono organiche al progetto. I
l localismo quindi non è antimondialista per definizione, ma può esserlo o non esserlo secondo la forma che assume e degli interessi che serve. In tal senso distinguiamo tre fondamentali caratterizzazioni del localismo: cristallizzato, spettacolare, dinamico.
Il localismo cristallizzato è la memoria dei padri testimoniata dai cultori delle tradizioni locali. Nella sua dimensione collettiva, s’identifica col folclore e si esprime in feste patronali, rappresentazioni in costume, sagre gastronomiche, celebrazioni di eventi passati. Ha rilevanza politica ed economica unicamente come produzione letteraria a compendio di progetti, finanziati da enti pubblici o privati, per la valorizzazione dei beni culturali di un territorio. Trasposto a componente dell’offerta turistica, insieme alle bellezze paesaggistiche, il localismo assume forma spettacolare. Si esprime in itinerari culturali e ricordi mercificati. Si articola in un sistema di strutture recettive e ricreative. Produce reddito, ma non necessariamente a vantaggio di imprenditori locali. Catene alberghiere e attrattive turistiche sono spesso gestite da grandi holding globali. In forma cristallizzata e/o spettacolare, il localismo è perfettamente funzionale al mondialismo. L’esistenza di luoghi incontaminati e residui di culture ancestrali nutre l’illusione della diversità e alimenta fughe dalla realtà, quel ritrovare se stesso altrove da qui, lontano nello spazio o nel tempo, che facilita l’assimilazione del pensiero unico.
Il localismo dinamico consiste invece nella valorizzazione sostenibile delle risorse locali in rapporto all’economia nazionale ed alle sfide globali. E’ il risultato di una particolare condizione d’equilibrio tra il radicamento in una comunità territoriale e l’apertura al resto del mondo. E’ una sintesi difficile. Da un lato, se il senso d’appartenenza degenera nel feticismo del proprio passato, si perpetuano identità castrate, incapaci di governare i mutamenti in corso e generare progettualità rivoluzionarie. Dall’altro, se il fascino del nuovo e del diverso porta allo sradicamento culturale, si produce un clima di consenso, o di semplice assuefazione passiva, allo sfruttamento indiscriminato delle risorse locali, naturali ed umane, da parte dell’oligarchia mondialista. Ogni territorio ha un proprio patrimonio di valori che derivano innanzitutto dall’ambiente fisico: sono gli ecosistemi modificati nel corso del tempo dall’intervento umano. In secondo luogo dall’ambiente costruito: sono gli edifici, il sistema produttivo, le infrastrutture. Infine dall’ambiente antropologico: sono il tessuto sociale, le forme di organizzazione collettiva, la visione del mondo, le conoscenze tecnologiche. Questi valori non sono di per sé delle risorse, cioè fattori in grado di alimentare automaticamente strategie di sviluppo.
Affinché ciò avvenga, occorre che siano riconosciute come tali. Ogni risorsa territoriale è quindi un’entità complessa basata su due componenti fondamentali: la dotazione, che corrisponde ad uno o più valori territoriali, e la capacità delle comunità residenti di riconoscere le potenzialità del territorio e di valorizzarle in relazione a un fine.
La libertà e la felicità di una comunità territoriale non sono quindi il risultato di un lascito, ma un’attività deliberata con cui un popolo, esercitando la sua sovranità attraverso le istituzioni democratiche, sceglie il proprio modello di sviluppo sostenibile, cioè i mezzi e i fini con cui accrescere le sue risorse territoriali senza degradarne il valore.
La scoperta e la coltivazione delle risorse sono attività ataviche, di qualunque collettività umana. Tradizionalmente sono processi sociali di apprendimento avvenuti nel tempo, talvolta senza specifici e consapevoli interventi progettuali.
Ai giorni nostri, la velocità e la rilevanza globale del cambiamento, impongono di passare da una capitalizzazione delle risorse territoriali implicita, cioè indotta dal fluire stesso del tempo, ad una loro valorizzazione esplicita, cioè pianificata dal breve al lungo termine.
Questo compito spetta alle istituzioni, non al mercato. Le risorse territoriali appartengono alle comunità, non alle multinazionali. Ciò è vero, a condizione che dotazione e capacità coincidano. Altrimenti, la gestione dei valori del territorio in cui viviamo, passa a un potere esterno e sovraordinato, che procede secondo la logica del suo equilibrio.
Il localismo dinamico non è quindi una forma di aggiustamento spontaneo dell’economia locale alla competizione globale, ma un modello di sviluppo, aperto all’interscambio ma endogeno quanto ai fattori produttivi, incentrato sul ruolo degli enti pubblici come propulsori di progresso sociale. E’ un problema di scelte, che si compiono a livello politico.
Nel sistema di interdipendenze indotte dall’economia globale, bisogna privilegiare le forme di connettività cha valorizzano le risorse territoriali, non quelle che accrescono il PIL regionale a loro detrimento.
Le istituzioni che rinunciano a questa funzione, lasciano proliferare la logica del think global and act local, che mercifica le risorse naturali e le persone, compreso le differenze culturali e razziali, per favorire la globalizzazione produttiva e consolidare il potere mondialista.
Fonte: srs di Raffaele Ragni. 28 settembre 2009
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