domenica 28 febbraio 2010

TIZIANO MALAGUTTI: LA LUCE CON CUI SCRIVEVA

Tiziano Malagutti

«Quando si allineano soggetto, occhio e cuore, allora nasce la grande fotografia».  L’ha detto Henry Cartier Bresson, lo faceva ogni giorno Tiziano Malagutti
Tiziano Malagutti è morto dieci anni fa: il fotografo che ha lasciato un segno nella cronaca della città. Era sempre al posto giusto nel momento giusto. Con la sua Leica e al volante della Mini Cooper era un mito per i suoi colleghi e in redazione. Ha scattato un milione di  clic. Sue le immagini memorabili dello scudetto dell’Hellas.

Se essere giornalista è essere sul luogo e al momento giusto per raccontare al lettore cosa, come, quando, dove e perché, Tiziano Malagutti era straordinario. Mai una sbavatura, mai un eccesso, mai sopra le righe. Sembrava non ci fosse, scattava da prospettive impossibili immagini che parlavano.


Tiziano Malagutti ritratto a Castelvecchio da Evgenij Chaldej   leggendario fotoreporter dell’Armata Rossa


Scriveva con la luce. Anche di notte, senza flash, riusciva a tirar fuori dalla sua Leica una foto degna di essere pubblicata su Life.  Se è vero che non contano gli anni ma i chilometri, la sua Leica M3 merita un posto d’onore nel museo di Wetzlar: un milione di scatti in trent’anni di servizio, tanti quanti Tiziano ne ha passati all’Arena documentando storie minime e grandi eventi. Quel tesoro lo conserva la signora Gabriella, nelle bobine, contrassegnate da giorno, mese e anno, che farebbero gola a ogni archivio di una città degna di essere tale.

C’è chi da piccolo sogna di fare l’astronomo e chi l’astronauta. Tiziano voleva una «macchinetta» tutta per sé. La comprò facendo musina, dietro il bancone del bar Brasiletto, in via Nuova, dieci lire per ogni caffè che ne costava novanta: il resto di una moneta da cento lire. La comprò in via Cappello, da Oppi, e l’accarezzò fino a casa. In tasca, teneva due rotolini di Ferrania, uno in bianco e nero e l’altro a colori.

Il suo negozio-laboratorio lo aprì in via Roveggia, in Zai.  Fototessere, gite al mare, scolaresche in bella fila, nella carta Camoscio che vellutava i toni del grigio. I servizi ai matrimoni, una Rolleiflex 6x6 a tracolla e poi una Hasselblad.   «Mia mamma me l’aveva detto che se fossi andato a lavorare per un quotidiano mi sarei rovinato!» mugugnava quando non gli andava di andare là dove gli era stato chiesto. Ma era inesorabile, capace di stare appostato per ore in attesa dello scatto giusto. Poco importa se poi, quell’«imperdibile» finiva su due colonne taglio basso, al più accendeva una Multifilter e arrossiva.

All’Arena arrivò in punta di piedi, senza sgomitare, anche se era già il migliore, ma guai a dirglielo. Un giorno andiamo sulla scena del delitto, uno di quelli per cui arrivano giornalisti e fotografi da tutta l’Italia e anche da fuori.  Purtroppo è capitato abbastanza spesso da confondere i ricordi, tra un parricida per i soldi e i nazistoidi di buona famiglia. Eravamo immersi nel male, anche quel giorno come troppi altri, ecco perché resta nitido l’attimo di sorriso. Una targa inglese ci supera, un motociclista. Si volta un attimo e inchioda. Indica la Mini Cooper 1300 e la Leica al collo dell’autista: «Ma you are Tiziano Malagutti!» Era già un mito tra i suoi colleghi e noi al giornale non lo sapevamo, magari costringevamo su una colonna le sue fotografie che meritavano una mostra.
Una si fa in tempo a organizzarla, volendo offrire un’idea alla città: scadono i 25 anni dallo scudetto dell’Hellas, di cui Malagutti fu il testimone. Compresa la celebre immagine di Elkjaer che segna senza scarpa e indica il piede scalzo alla venerazione dello stadio Bentegodi.

Dal suo vocabolario aveva cancellato la parola «io», non solo per bilanciare l’abuso che se ne fa in redazione, ma per educazione, eleganza, stile. Non lo abbiamo mai sentito alzare la voce, anche quando aveva ragione da vendere, né ridacchiare per qualche disgrazia capitata al prossimo. La pietas gli tratteneva la mano e spostava l’obiettivo su un’altra inquadratura quando il rispetto per i vivi e per i morti gli appariva irrinunciabile. Vinceva la pigrizia dei maestri solo dopo il corteggiamento del cronista. Bisognava parlargli di quanto bella sarebbe stata la pagina con una sua foto su cinque, anzi sei colonne. Quando così non era, il suo lavoro non decollava dall’ineccepibile professionalità, ma riservava ad altre occasioni il lampo di genio. Allora gli si illuminava il viso. Tutta la prosa può non bastare a dire quel che sta dentro una sola strofa. Come scoccare l’ultima freccia della faretra. Non sbagliava mai e quel rettangolo di carta sviluppato al buio, con le mani nell’acido, svelava quello che il giornalista non aveva visto o aveva dimenticato o sottovalutato.

L’unica sera in cui riuscì a portare al cinema la sua Gabriella scoppiò un incendio doloso alle case popolari. Tiziano fu chiamato e piombò in Mini sulla scena del rogo, moglie al fianco. Tornò dopo mezz’ora alla macchina, stringendo la Leica al petto, inseguito da un gruppo di arrabbiati. Succede spesso ai cronisti, ma la signora Malagutti non poteva sopportarlo. Uscì dalla Mini e affrontò gli infuriati: «Come vi permettete di insultare un galantuomo? Fa il suo lavoro ed è qui per il giornale che domani leggerete anche voi». Poi, stampate le foto, alle ore più impossibili in casa Malagutti c’era la cena pronta anche per noi cronisti, che ce ne andavamo ogni volta invidiando a Tiziano quella donna.
 Ha lavorato tutti i giorni che mettono insieme trent’anni, senza saltarne uno. Molti neonati, venuti al mondo dopo la mezzanotte di San Silvestro sono ora giovanotti e signorine. Sappiano e se ne vantino di quel clic che non li ha distolti dal sonno o dal seno, perché è di Tiziano Malagutti.
(DOMANI primo marzo, nel decimo anniversario dalla scomparsa di Tiziano Malagutti, fotografo dell’Arena, messe in suo suffragio verranno celebrate a San Zeno (cappella nel chiostro) alle 8 e alle 18,30.)

Fonte: srs di Giuseppe Anti e Donatello Bellomo,   da L’Arena di Verona di Domenica 28 Febbraio  2010;  CULTURA,  pagina 65

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