Scavi in Piazzale delle Poste
Le «indagini» della Soprintendenza sulla dimensione urbanistica
Le stratigrafie del sottosuolo aggiungono nuovi elementi alla conoscenza del patrimonio archeologico di Verona.
La prima documentazione certa di una occupazione dell’attuale centro storico della città si riscontra nell’area a sinistra del fiume con testimonianze provenienti da Porta S. Giorgio e da via Carducci, entrambe databili da IX e VIII secolo a.C. cui si devono aggiungere materiali ceramici rinvenuti in via Redentore e in Regaste Redentore. Tali ritrovamenti indicano che l’occupazione della collina di S. Pietro, in posizione strategica per il dominio del passaggio del fiume, si inserisce in un ambiente culturale protoveneto, collegato cioè ai paleoveneti di cui sono state trovate tracce sia a Ponte Florio, sia sui pendii del castello di Montorio sia a S. Maria di Zevio.
La collina di S. Pietro, e le sue adiacenze, resterà fino alla costituzione del municipio la zona in cui si svilupperà la primitiva Verona, tuttavia le possibilità di ricostruzione dell’abitato preromano e poi dell’ oppidum sono minime, proprio a causa della dinamica dell’evoluzione urbanistica della collina stessa. (1)
Quando infatti alla metà del I° secolo a.C. la città venne progettata ex novo sulla destra del fiume, il disegno comportò la distruzione del vecchio centro in sinistra d’Adige e la sua sostituzione sulle pendici dell’altura con un grandioso complesso di edifici pubblici. La loro realizzazione richiese un radicale terrazzamento del profilo della collina. Costruirono il teatro, l’odeon (adibito a spettacoli musicali) e un santuario alla dea Iside, culto di origine egizia.
«Tutti i depositi protostorici non ci sono più. Noi li troviamo soltanto alla base della collina. Sicché oggi la possibilità di recuperare qualche dato sul centro indigeno è ridottissima ed è stata ulteriormente ridotta quando hanno costruito i muraglioni, a quell’epoca hanno distrutto le tracce del centro preromano».
Con il VII e VI a.C. a Verona si registra una totale assenza di dati e in questa fase si segnalano i ritrovamenti di un ambito culturale pienamente veneto nell’importante insediamento sui pendii inferiori del castello di Montorio. Il sito di Montorio dominava il percorso che da Vicenza si dirigeva verso il guado dell’Adige. Con l’inizio del IV secolo a.C. venne rioccupata la collina di S. Pietro e la zona circostante. L'insediamento dovette essere organizzato per lunghi spazi con strutture abitative seminterrate e in parte disposte su terrazze tagliate sulla collina. Quanto ai materiali a fianco di ceramica di tipo retico - alpino ed etrusco - padano si è trovata ceramica celtica.
Da S. Stefano in un contesto attribuito al III - II secolo a.C. proviene una ciotola a pasta grigia che reca entro il piede una iscrizione in caratteri leponzi: si tratta dell’alfabeto utilizzato dai Cenomani sia nelle iscrizioni su vasi sia nella monetazione: segnala la volontà di queste popolazioni di connotarsi come celti mediante l’uso di un alfabeto proprio anche in presenza nel Veronese di altri alfabeti come quello retico e quello veneto. Per la città questo è un diretto riscontro di quanto è tramandato da diverse fonti letterarie: Catullo, Ovidio e Tolomeo che la indicano appunto come un centro cenomane, Plinio il vecchio invece, che accoglie una diversa tradizione, ne ricorda l’appartenenza a Reti euganei. Questa duplice tradizione sulle origini di Verona trova spiegazione logica nella sua collocazione geografica all’incrocio di aree culturali diverse.
A partire dalla seconda metà del III secolo a.C. nella pianura a sud delle alture di Verona e di Montorio a una distanza di venti chilometri da esse, si sviluppa una serie di necropoli galliche di ambito culturale centro-padano analogo a quello dei vicini sepolcreti del territorio bresciano. Si tratta delle varie aree funerarie di Valeggio, Vigasio, Povegliano, Santa Maria di Zevio, Isola Rizza. Il livello delle sepolture è modesto tranne qualche tomba privilegiata come alcune dell’Ortaia di Madonna dell’Uva Secca di Povegliano databile intorno al 100 a.C. e quella di Lazisetta di S. Maria di Zevio degli ultimi decenni dal II secolo a.C. che fornisce la testimonianza di tomba a carro, l’unica per l’Italia settentrionale, straordinaria per l’ambiente celtico traspadano ma non ignota in altri ambienti celtici d’Europa.
Tali aggregati della pianura dovettero far capo ad un oppidum. Non ci sono dati determinanti per dire se si trattò di Verona o di Montorio, che dopo l’iniziale fase paleoveneta si sviluppò con caratteristiche analoghe a quelle di Verona e degli altri villaggi d’altura. Ma è ovvio che con l’apertura nel 148 a.C. della via Postumia, la strada consolare che collegava Genova ad Aquileia, certo indirizzata su Verona per precise ragioni strategiche per il controllo della val d’Adige, l’insediamento veronese doveva assumere una rilevanza assai superiore a quella di Montorio. Esisteva una comunità celtica anche a Verona? I dati rimangono sempre pochi anche se in sinistra d’Adige c’è qualche contesto di ambito celtico quantitativamente consistente.
Ad essi va ora aggiunto il recente ritrovamento avvenuto nel 2002 in via Carducci di quattro tombe databili al II secolo a.C., testimonianza di una necropoli certo abbastanza estesa, su cui successivamente si sviluppò un’area funeraria romana di età imperiale. Le sepolture, tre inumate, due bambini e un adulto, ed una di cremato, erano poste in fosse terranee, il biritualismo conferma l’appartenenza al gruppo cenomane.
«Questo è stato un ritrovamento molto importante: è difficilissimo che in un grande centro abitato si trovino ancora tombe di questo tipo. Credo che ci siano due esempi a Brescia. Per Verona è verosimile che la naturale preminenza, dovuta ad una posizione geograficamente felice, si traducesse anche in termini di supremazia politico-economica su tutto il circondario, la documentazione disponibile non permette di cogliere per quest’epoca (II sec. a.C.) né tracce di una organizzazione urbana nè indizi di una espansione dell’abitato che rimase confinato sulla sinistra del fiume.
In destra d’Adige sono rari e poco consistenti i ritrovamenti genericamente attribuibili al III - I secolo a.C.: testimoniano solo di modeste presenze insediative in relazione con il tracciato della via Postumia che ricalcava peraltro una precedente pista preistorica.
Entro l’ansa non sono mai venuti in luce depositi preistorici della prima età del Ferro, d’altra parte è improbabile che vi potessero esistere stanziamenti stabili sconsigliati dalle condizioni idrogeologiche della zona spazzata da forti alluvioni fino alla costruzione dei bastioni municipali».
Per la piccola comunità atesina il passaggio della via Postumia che proprio alla sommità dell’ansa superava l’Adige, ebbe un ruolo determinante: essa venne inserita in una primaria direttrice di traffico militare e mercantile cisalpino e collegata con alcuni tra i principali centri coloniali e indigeni padani. Entrò così a far parte degli interessi romani. È però probabile che i Romani solo con l’invasione dei Cimbri nel 102 - 101 a.C. (che avevano preso tutta la val d’Adige) si rendessero conto della fondamentale importanza strategica di questo sito e quindi provvedessero a fortificarlo. «Ma è solo sullo scorcio iniziale del I secolo a.C. che si hanno delle testimonianze monumentali: in via Redentore 9 sono conservati quelli che si possono considerare i primi segni del processo di strutturazione urbanistica: si tratta di un grande bastione con un muro di controscarpa, resto di quelle che dovevano essere le prime mura. Non si conosce l’andamento di questa prima cinta ma è presumibile che essa risalisse la collina, attestandosi sulla sponda del fiume, a nord presso S. Stefano, a sud nella zona di S. Faustino. La realizzazione di un simile dispositivo di difesa certamente frutto di committenza pubblica suggerisce la presenza di altre strutture indispensabili per svolgere attività politiche e amministrative e giurisdizionali connesse con il nuovo status ma queste come l’intero abitato pre-municipale restano ignote».
Il Patrimonio archeologico
Il patrimonio archeologico di Verona non consiste in grandi sculture o in grandi affreschi. È una eccezione l'affresco raffigurante Mercurio ritrovato a 3 metri di profondità nello scavo per garage interrati in via Cantore 18 nel 1993. Anche i materiali di artigianato artistico o di uso quotidiano ritrovati nelle necropoli solo in rarissimi casi hanno caratteristiche di qualità e raffinatezza. «Il patrimonio archeologico di Verona è senza dubbio costituito dalla dimensione urbanistica e da quella architettonica che sono passate se non indenni, almeno ben conservate, attraverso un’attività edilizia di duemila anni. La vera eredità romana di Verona che tuttora connota e condiziona anche pesantemente la città sono i percorsi di penetrazione entro il perimetro delle mura magistrali, e tutto attorno nelle immediate adiacenze, che sono ancora quelli di età romana: corso Porta Palio - corso Cavour - via Redentore - via Giardino Giusti - via S. Nazaro, eccettuata la direttrice di viale del Lavoro e corso Porta Nuova. Alla sopravvivenza della trama viaria e di alcune delle principali emergenze monumentali si aggiunge una conservazione notevole dei depositi urbani del sottosuolo. Le stratificazioni seppure negli ultimi anni in veloce sparizione a causa delle continue costruzioni di garages hanno un grado di conservazione rapportabile a quello di non molti altri centri urbani».
Giuliana Cavalieri Manasse ha definito così la particolarità di Verona nel corso di una conferenza tenuta all’Università di Verona organizzata dal Centro scaligero Studi danteschi.
Importanti sono stati negli ultimi anni gli studi delle stratigrafie del sottosuolo della città. In certe zone si ritrovano, se si sono ben conservate, le stratigrafie con dati importanti, anche per quattro, cinque metri in alcuni casi anche sette metri.
Un esempio: nello scavo di via Cantore 18 ci si è abbassati fino ad una profondità di sette metri. Che cosa si vede nella sezione stratigrafica se guardiamo dall’alto verso il basso? In alto degli enormi innalzamenti del suolo rapportabili all’età medioevale; poi un livello nero ed un livello di età longobarda, segue un altro livello di macerie e lì si può individuare il Basso Medioevo. Si può notare ben evidente lo strato dell’incendio di età longobarda ricordato da Paolo Diacono nel 589-590 d.C. circa, quando la città è andata praticamente a fuoco. Subito sotto il livello dell’incendio si vedono i resti di età romana: sopra le strutture romane si vede il crollo dei tegoli rossi, e l’abbandono degli edifici distrutti dall’incendio.
Questo tipo di stratigrafie ha permesso lo sviluppo di ricerche anche su periodi quali l’altomedioevo in genere poco noti e che invece a Verona conosciamo assai bene. Alla conoscenza della dimensione urbanistica, architettonica e stratigrafica della città ha dato un contributo notevolissimo l’attività della Soprintendenza Archeologica negli ultimi trent’anni. Le notizie più interessanti degli scavi degli ultimi tre quattro anni, dopo i lavori archeologici legati al rifacimento dei sottoservizi sia di via Mazzini sia di corso Cavour, riguardano la Verona preromana.
Fonte: Srs di Gabriela Lombardo da L’Arena di Verona di Domenica 26 ottobre 2003; Cronaca pagina 14
(1) (anche per Montorio si è detto la stessa cosa, risultata poi errata)
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