Forse si apre per l’Africa un momento decisivo. Il presidente degli Usa, Barak Obama, ha sangue africano nelle vene, e lo ha rivendicato, con un certo orgoglio, in più occasioni. Con grande coraggio Obama, l’11 luglio 2009, ad Accra, capitale del Ghana, si è rivolto agli africani dichiarando che non ci si può sempre nascondere dietro le colpe dell’Occidente se si vuole veramente fare qualcosa per cambiare la situazione: “è troppo facile, ha detto, addossare ad altri la colpa di questi problemi. L’Occidente non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbabwe nell’ultimo decennio o delle guerre in cui vengono arruolati bambini tra i combattenti. Ma io sono convinto che questo sia un nuovo momento di promesse”.
Molti problemi africani, ha aggiunto, derivano dalla corruzione dei governi locali, e dall’inveterata abitudine di guerre interminabili tra le tribù: “Voglio essere chiaro: per tanti, troppi africani i conflitti armati sono parte dell’esistenza. Questi conflitti sono una pietra al collo per l’Africa. Dobbiamo combattere la mancanza di umanità in mezzo a noi. Non è mai giustificabile prendere di mira innocenti in nome dell’ideologia. Costringere i bambini a uccidere in guerra è la sentenza di morte di una società. Condannare le donne a stupri incessanti e sistematici è un segno estremo di criminalità e di vigliaccheria. Dobbiamo dare testimonianza del valore di ogni bambino del Darfur e della dignità di ogni donna del Congo. Nessuna fede o cultura può giustificare le offese contro di essi” (http://gheddo.missionline.org/?m=200907).
Continue guerre tribali, governi locali corrotti, condizione della donna e dei bambini: forse Obama si stupirebbe di sapere che questi, ed altri problemi, vennero indicati tra le cause del sottosviluppo dell’Africa, quasi due secoli fa, da uno dei primi europei che ebbero una profonda conoscenza dell’Africa, il missionario italiano DANIELE COMBONI.
Il Comboni nasce a Limone, un ridente paesino sul lago di Garda, tra il Trentino e il bresciano, il 15 marzo 1831, quarto di otto figli, in una famiglia piuttosto povera. Non potendo i suoi genitori pagargli la scuola, secondo una consuetudine che durerà a lungo anche nel Novecento, studia come esterno nel seminario vescovile di Verona. Nel 1842 entra nell’Istituto fondato da don Nicola Mazza, in particolare per gli orfani e i poveri. Comboni incomincia a sognare la missione leggendo le storie dei martiri giapponesi scritte da Alfonso de Liguori. Per la precisione le vicende di nove missionari e 17 cristiani crocifissi a Nagasaki, nel 1597, a causa della loro fede. Una storia analoga, insomma, a quella recentemente narrata da Rino Cammilleri, con grande passione, nel suo “Il crocifisso del samurai” (Rizzoli).
L’ animo del giovane Daniele si fa affascinare da questi esempi assoluti di dedizione, di coraggio, di totale affidamento a Dio e si nutre di letture che incitano alla virtù ed alla magnanimità. Ma lo stimolo in lui nasce anche grazie al contatto con don Mazza, che vorrebbe estendere la sua opera a favore degli africani neri. Alcuni di loro, in effetti, studiano nel suo istituto, per poi tornare in Africa. Comboni inizia a sognare questa terra lontana, soprattutto il Sudan, o Nigrizia, come veniva chiamato allora, in mano all’Egitto musulmano di Mohammed Alì, che da una parte cerca di modernizzare il paese, dall’altra permette che il Sudan venga depredato sistematicamente allo scopo di procurare schiavi, per le guerre e per le grandi opere pubbliche. La gavetta il Comboni la fa nei dintorni di Verona, nel 1855, allorché il colera miete parecchie vittime e lui ottiene dai suoi superiori di potervisi dedicare.
A 26 anni Comboni parte per l’Africa per la prima volta. Questo continente è ancora, per gli europei, in gran parte un mistero. La spartizione coloniale non è ancora avvenuta e “la cultura nella quale ( Comboni, ndr) era stato educato –intransigente, antimoderna, tutta papalina, certamente antirisorgimentale- lo mette al riparo dalle seduzioni dell’imperialismo europeo” (Gianpaolo Romanato, L’Africa Nera tra Cristianesimo e Islam, Corbaccio, Milano, 2003, p.18) .
Partire significa correre verso l’ignoto, lasciare due genitori poveri che hanno perso tutti gli altri sette figli. Il cuore di Daniele è straziato, ma alla fine, risolti alcuni problemi economici dei genitori, riesce a partire. Il I viaggio dura dal 1857 al 1859. Dobbiamo immaginare “giornate intere sulla groppa di un cammello, notti sotto le stelle, oppure esposto alla pioggia, avvolto in una coperta e con la testa appoggiata a un sasso, con i fuochi sempre accesi per tenere lontane le fiere, cibo raccolto lungo la strada, acqua imputridita dal caldo e dal sole”.
Nella sua vita Comboni arriverà nel cuore del continente africano altre sette volte, in 24 anni. Affronterà rischi incredibili, perderà, uno ad uno tanti compagni, religiosi e laici, uccisi dalla fatica e dalle malattie. Il suo motto è “Nigrizia o morte”, il suo pensiero costante a quei neri che scrive ogni volta di amare con tutto il cuore e di cui si dichiara servo, pronto a lottare, per loro, “coi potentati, coi turchi, cogli atei, coi framassoni, coi barbari, cogli elementi, coi preti, coi frati, col mondo e con l’inferno”.
Tuttavia, aggiunge, la fiducia totale “è in Colui che morì per i Negri”.
Il 27 novembre 1857 da Korosko, nella Nubia, scrive al padre: “Ma voi bramerete sapere qualche cosa del nostro viaggio: or eccomi a soddisfarvi. Sormontate le formidabili cateratte d'Assuan il giorno 15 corr.te, entrammo lieti nella Nubia, che offre un aspetto assai differente da quel dell'Egitto. Le sponde del Nilo son quasi sempre fiancheggiate da immense montagne di granito, rare volte da boscaglie di datteri e palme; il cielo è bellissimo; gli abitanti sono del colore come le more più biancastre del nostro Istituto, di animo più bello dell'egiziano, e un po' meno fedele al tirannico governo del gran Pascià che fa governare la Nubia (vasto regno una volta e mezza e più di tutto l'impero austriaco benché minore in popolazione) per mezzo di appositi Mudir incaricati di raccogliere non già le imposte, ma tutti i prodotti del terreno nubiano, per mettere tutto nei fondachi del gran Cairo, lasciando nudo il popolo, che si ciba quasi sempre di datteri, e qualche volta d'un po' di durah. E' una cosa veramente compassionevole il vedere questi popoli avvolti nella miseria, e nelle più grandi privazioni; eppure ringraziare ogni giorno Maometto che vuole così”.
Il secondo viaggio in africa- che gli appare subito, come all’esploratore italiano Pellegrino Matteucci, “terra inospitale” e nello stesso tempo “sirena incantatrice”, va dal 1860 al 1861 e ha come fine quello di acquistare, a nome di don Mazza, giovani ex schiavi liberati, per portarli a Verona, istruirli e rimandarli in patria. Nel 1864, mentre prega nella basilica di San Pietro a Roma, Comboni concepisce un “piano per salvare l’Africa”, che contiene le linee guida della sua futura azione di apostolato e della fondazione dell’Istituto maschile (1867) e di quello femminile, nel 1871.
Le idee di Comboni sono molto chiare. E’ deciso a realizzarle, anche se spesso viene guardato come fosse matto: “Andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo ad ogni creatura, si ripete, anche in Africa…Io sarò con voi sino alla fine del mondo”. Il nucleo del progetto consiste dunque nell’idea che i mali dell’Africa sono anzitutto mali spirituali, e di conseguenza anche materiali. L’Africa sarà salvata e si svilupperà se conoscerà Cristo.
Comboni, come ricorda Richard Gray nell’introduzione allo studio di Gianpaolo Romanato, “ignorava la moderna esigenza di dialogo tra le religioni. Egli non fu assolutamente un figlio dell’Illuminismo”. Neppure sapeva qualcosa dell’ecumenismo post-Concilio. Dialogare con gli uomini, con tutti, coi poveri e coi potenti; amarli, tutti, in particolare gli africani, questo sì. Ma dialogo con le religioni assolutamente no.
Per Comboni occorre salvare l’Africa con Cristo, e con gli africani; occorre costruire scuole, ospedali, università, per loro e con loro, non in Europa, quanto nei loro paesi, rispettando il più possibile usi e costumi locali. Occorre, soprattutto, liberarli da alcuni mali che li mantengono nelle tenebre spirituali, “sotto il giogo di Satana”, e nel sottosviluppo: il Corano, e quelle credenze animiste che portano per esempio il re del Buganda a festeggiare alcune ricorrenze sgozzando decine di schiavi in riti propiziatori. La vita Comboni decide di darla per questo, per nulla di meno.
Accanto a sé vuole persone versatili, disposte a tutto, a divenire, come promette loro, “carne da macello”: “Il missionario e la suora dell’Africa centrale devono essere carne da macello, disposti ai sacrifici e al martirio, condizioni essenziali per consacrarsi alla conversione della Nigrizia”. Accanto a sé vuole, soprattutto, ragazze disposte a immolarsi con generosità estrema. E’ infatti convinto che saranno le donne le sue vere alleate. Scrive: “ le donne educheranno le giovinette africane in modo da formare: abili istitutrici…; abili maestre e donne di famiglia, le quali dovranno promuovere l’istruzione femminile in leggere, scrivere, far di conto, filare, cucire, tessere, assistere gli infermi…”.
Cambiare la “femminil società africana” per lui significa cambiare l’Africa, perché la “rigenerazione della grande famiglia africana”, come di quella europea, dipende da esse.
Uno dei grandi mali dell’Africa infatti, animista e islamica, è la condizione della donna, sottomessa, tra le altre cose, alla poligamia.
Il 29 marzo 1858 dalla tribù dei Kich, scrive a suo padre: “L'altro giorno venne a me un capitano della milizia egiziana per domandarmi consiglio per una malattia agli organi genitali: siccome si trattava di affare sifilitico, fra le altre cose gli prescrissi l'astinenza dall'uso con donne non solo, ma anche colla medesima sua moglie, altrimenti se n'andrebbe presto a trovar Maometto; al che mi rispose: Che volete ch'io ne faccia di tante donne? ne ho dieci in mia casa che sono mie mogli, e quindi ne ho abbastanza senza cercarne delle altre. La poligamia qui è in grande uso in tutti quelli che hanno da mantenersi…”.
E in un’altra occasione: in Africa la “donna non è persona, ma è cosa di commercio e di capriccio, non altrimenti che una pecora o capra, cara al padrone soltanto se porta utile e diletto”.
Poligamia e promiscuità sessuale, così diffuse in Africa, nota Comboni, portano alla nascita di tanti bambini che nessuno desidera, e che finiscono poi abbandonati e schiavi. In effetti, nota il già citato Gianpaolo Romanato, docente di storia all’Università di Padova, le testimonianze ci dicono che nella Khartoum di quegli anni bastano pochi soldi per comperarsi “una splendida abissina e tenersela come concubina in aggiunta alle schiave negre”.
Persino gli europei che vivono lì ne approfittano, generando “figli che spesso andavano a ingrossare le frotte dei ragazzini abbandonati di cui si interesserà la missione” o destinati alla schiavitù (p. 87). Di brave ragazze, per aiutare l’Africa, Comboni ne conquista diverse. Succede ad esempio che viene invitato a cena da un amico, inizia a parlare dell’Africa, delle sue necessità, dei propri viaggi, sino ad affascinare le figlie dell’ospite. Che iniziano a fare domande, a interessarsi, a volerlo seguire…
Una dopo l’altra, Teresa Grigolini, Marietta Caspi, Maria Giuseppa Scadola, Vittoria Paganini, Concetta Corsi e tante altre lasciano le loro famiglie per il continente lontano e bisognoso. Spesso sono scene strazianti: i genitori vedono partire le giovani figlie per un paese di cui non conoscono nulla, se non la lontananza e la pericolosità. Maria Caprini, per raccontare solo un aneddoto, viene osteggiata in tutti i modi dalla mamma, che non vuole lasciarla partire. Lei allora le dice: “ E se mi sposassi e mio marito mi portasse oltre oceano come fanno tanti emigranti, cosa avresti da dire? Allora, perché non permetti a Dio quello che permetteresti ad un uomo?”.
Delle prime suore partite col Comboni alcune moriranno in Africa, altre verranno fatte schiave, altre costrette dal Mahdi a sposarsi, dopo essere state minacciate di morte e trattate con la durezza più estrema (Lorenzo Gaiga, Donne tra fedeltà e violenza, Emi, Bologna, 1995).
Vengono da varie parti del mondo, specialmente dall’Italia, parlano diverse lingue, e, come scrive Comboni, “non temono i viaggi difficili e pericolosi, dormono sotto un albero dove magari qualche ora prima vi era una iena o un leone, riposano sulla sabbia, di notte, a cielo aperto, o nell’angolo di una baracca; entrano nelle case degli infedeli, curano le loro piaghe e li invitano alla fede; entrano nei tribunali, scorrono i mercati per risparmiare un centesimo per la missione; altre si dedicano alla scuola, alla cultura morale delle fanciulle, si presentano davanti ai Pascià e con coraggio sostengono la causa degli infelici, si fanno rispettare dai turchi, dai soldati, dai barbari o selvaggi”.
Oltre alla condizione della donna, un altro male dell’Africa, è certamente il fatto che gli africani, dormono spesso all’aperto, o in caverne, o in case di paglia e di fango, inconsistenti, fragilissime, fetide, malsane, zeppe di ragni, serpenti e insetti nocivi: questo li espone più facilmente alle malattie, alle infezioni, al freddo e al caldo, “sì che la più gran parte della popolazione dell'Africa Centrale viene in tal guisa a rimaner priva di asilo ove ricoverarsi nell'epoca delle piogge, e rimane così esposta a tutte le intemperie, al freddo nella notte, al caldo nel giorno, di guisa che un gran numero di codesti infelici cadono ammalati, e contraggono fieri contagi, e mettono fine ad una misera vita con una morte ancor più misera e sventurata”. Inoltre gli africani del Sudan non conoscono l’uso della ruota, l’arte di coltivare, di mettere da parte il cibo nei momenti di abbondanza per fare fronte alle carestie; nelle città non vi sono né scuole, né ospedali, né fognature, e l’acqua putrida favorisce “colture di insetti e di rane, di odori nauseanti, focolaio di tutte le infezioni” (Romanato, p. 86).
Scrive Comboni nella sua relazione sull’Africa del 1878-79, al cardinale Luigi Di Canossa: “Non è così delle lande inospitali e delle remote contrade della Nigrizia, ove è pressoché sconosciuta l'industria umana, e la coltura e civiltà sono ancora bambine; anzi può dirsi con tutta verità, che quei paesi sono ancor primitivi, e molti di essi stanno più addietro in fatto di coltura e civiltà che non lo sieno stati i tempi dei nostri primi Padri Adamo ed Eva dopo la loro caduta...”.
Di fronte alla natura, alle pestilenze, alle malattie, alle carestie, inoltre, la superstizione e il fatalismo rendono questi popoli incapaci di cercare rimedi, di affrontare attivamente le difficoltà: “Finalmente l'errore funesto e perniciosissimo del fatalismo della setta dell'islamismo, l'ignoranza estrema e l'abitual condizione infelicissima dei poveri negri gementi sotto il ferreo giogo della più crudele ed orribile schiavitù, aggrava eccessivamente la misera condizione degli affamati dell'Africa Centrale su quelli delle Indie, della Cina, e delle altre missioni della terra. Il fatalismo islamitico, e l'estrema ignoranza dei poveri negri abbrutiti sotto il peso della schiavitù, è una delle precipue cagioni, per cui l'affamato stesso non bada punto alla sua sciagura, alle sue miserie, alla sua fame, alla sua sete, alle sue privazioni, alle sue malattie, ed ai pericoli della sua vita; e meno ancora vi fa attenzione la società dei suoi fratelli africani dominati dalla superstizione del fatalismo, in mezzo ai quali vive. Il maomettano affamato, che non possiede o non trova più di che satollarsi e campare la vita (e molto più il negro schiavo così istruito dal suo padrone), convinto come egli è dalla fiera legge del fata-lismo, secondo la quale egli deve subire il suo destino voluto da Dio, cioè, che egli deve assolutamente morire, avendolo Iddio a ciò destinato, egli, senza punto scuotersi o sconcertarsi, né fare strepito alcuno, né muover lamento, rassegnato pienamente alla sua sorte si sta tranquillo e sereno, senza pigliarsi cura di nulla, e senza fare ogni sforzo e adoperarsi per apporvi rimedio, ed allontanare da sé quella tremenda sciagura; e sovente, sempre in preda al suo fatalismo, si colloca sulla porta, od a fianco della sua abitazione, o dietro ad una capanna, o sotto un' albero; ed ivi impassibile ed a sangue freddo aspetta imperturbato la morte, esclamando col suo profeta: Allah kerim, cioè: Dio è degno di onore! Pel medesimo principio e dello stesso motivo, la sua famiglia, i suoi fratelli, la sua patria davanti ad una sciagura che reputano stabilita e destinata da Dio in forza dello stesso fatalismo, non si commuove, né fa strepito alcuno, né s'adopera gran fatto di rimuover lontano un tale infortunio; e perciò avviene non di rado che in una stessa città, in un medesimo villaggio succedono gravi infortuni senza che il pubblico se ne avvegga, o se ne dia per inteso, o si sforzi di allontanarli od apporvi rimedio”.
La superstizione africana- che nasce dal fatto che l’uomo africano non si sente distinto dalla natura, come nel cristianesimo, e quindi “le è sottoposto, la teme e ne è terrorizzato” (Hegel)- non impedisce soltanto la nascita della scienza e della tecnica, con cui quel ricco suolo potrebbe essere addomesticato dall’uomo, e reso fecondo, ma anche della medicina.
Comboni lamenta di non trovare in tutta l’Africa un “medico che conosca i primi elementi di medicina e di chirurgia”. Solo superstizioni, scongiuri, feticci, pozioni magiche e stregoni. Quando fa il “medico” della regione a santa Croce racconta che i neri che riescono a guarire tornano a ringraziarlo con una cerimonia che consiste nel lanciare sputi in ogni direzione accanto a lui e sulle sue mani guaritrici, “magiche”. Quanto ai governi: “nell'Africa Centrale i governi locali non si curarono punto delle sciagure e calamità dei popoli soggetti. Tutto il loro pensiero in generale è di smungere il sangue dei sudditi, e di cavar colle gabelle e colle imposte quanto più vien lor fatto, anche con ogni genere di violenza”.
Infine, la terza grande piaga dell’Africa, spiega Comboni quando si reca nella curia romana o quando va a chiedere aiuto ai sovrani europei, ed in particolare a Francesco Giuseppe d’Austria, il più sensibile alle sue richieste, è la schiavitù.
La situazione è in verità terribile: il governo egiziano sfrutta crudelmente i neri; i mercanti europei senza scrupoli collaborano al massacro delle popolazioni locali per arricchirsi di avorio e di denaro; gli africani stessi, continuamente in lotta tra loro, divisi da un incredibile particolarismo, si fanno guerra e si assoggettano tra loro, schiavizzando a loro volta le tribù sconfitte, dando così il loro contributo all’iniquo commercio di carne umana e alimentando la richiesta egiziana! A quest’epoca le potenze europee, si sono in parte impegnate a contrastare la schiavitù, con una dichiarazione condivisa al congresso di Vienna.
Ma i suoi veri avversari sono missionari protestanti come Livingstone e Stanley, e missionari cattolici come madre Javouhey, Libermann, Marion de Bresillac, Massaia, l’arcivescovo Lavigerie, fondatore della Società dei missionari d’Africa, e, con l’ausilio di Leone XIII, della Societè Antiesclavagiste, don Nicola Oliveri, don Nicola Mazza, padre Ludovico da Casoria… e molti altri. Anche l’Egitto, ufficialmente, contrasta la tratta degli schiavi, ma poi, di nascosto, la protegge o la ignora. Comboni vede il suo Sudan decimato dalla tratta, gestita appunto in gran parte dai mercanti arabi che “strappano violentemente dalle famiglie ragazzi, fanciulle e giovani madri, uccidendo quasi sempre i padri e quelli che tentano di difendersi”.
Poi li portano per venderli “sui mercati del mar Rosso e dell’Egitto”. Sono talora gli stessi alti funzionari del Cairo o di Alessandria, che fanno rapire le “belle abissine”, le dinkesi, “migliaia di grassi negri per farli eunuchi”. A fare schiavi i neri sono soprattutto gli arabi musulmani, ma anche le tribù nere praticano la schiavitù l’una nei confronti dell'altra, da sempre. Contro questo traffico di carne umana Comboni si oppone come può, ne riscatta molti, altri li rapisce e li trattiene nella missione; ottiene la possibilità di concedere il diritto d’asilo agli schiavi che lo richiedono, nascondendosi dietro un documento di protezione rilasciatoli dal Sultano per intercessione di Francesco Giuseppe, e lancia le sue invettive contro quei cristiani che collaborano alla tratta con armi e denari, ricordando loro che “i Sommi Pontefici Paolo III Urbano VIII Benedetto XIV Pio VII e Gregorio XVI tra gli altri, condannarono questi delitti come ingiuriosi al Cristianesimo...”.
Ad un sacerdote trentino, da El-Obeid, capitale del Cordofan, 24 giugno 1873, Comboni racconta: “Tutti i pascià e negozianti di schiavi ci temono e cercano di sfuggire ai nostri sguardi. Io ho dichiarato ai pascià di Chartum e di Cordofan che quanti schiavi trovo in città o fuori legati ecc., tutti li faccio condurre alla missione e non li restituisco più; tutti poi quelli che si presentano alla missione per denunciare i maltrattamenti che ricevono dai loro padroni, constatata la verità, li trattengo e non li restituisco; solo mi limito a denunziare al divano, che il tale e il tale ecc. l'ho trattenuto in missione, e fino a che si fa il processo ed è approvato da me, o dal mio sostituto in mia assenza, l'imputato dee stare in missione. I detti pascià o governatori che sanno d'essere in dolo, perché il primo negoziante di schiavi è il governo, non mi ripeterono sillaba, e m'accordarono tutto. Già a quest'ora ne ho liberati più di 500. Le corna di Cristo, dicea D. Mazza, sono più dure che quelle del diavolo. Ma oh! l'orrore della schiavitù che trionfa in queste parti! Da El-Obeid e da Chartum, e dal territorio che li congiunge, passano ogni anno più di mezzo milione di schiavi, la maggior parte femmine, ma mescolate senza riguardo ai maschi di ogni età, ma la maggior parte dai 7 ai 18 anni, tutte nude affatto, e la maggior parte incatenate, che si rubano e si strappano violentemente dal seno delle loro famiglie nelle tribù e regni posti al sud o sud-ovest di Chartum e Cordofan, essi rubano, talvolta uccidendo i genitori, se sono vecchi, o rubando o portando via e figli e genitori, se giovani. Tutti passano da qui per essere condotti o nell'Egitto, o sul Mar Rosso, ed essere venduti! A quelle fra le femmine che sono avvenenti, si dà anche un trattamento discreto per la prostituzione o per gli Harem, e gli altri pel servizio…”.
E concludeva: “Vegga, signore, uno dei compiti della nostra missione. Nessun trattato, nessuna potenza potrà qui abolirvi la schiavitù, perché è permessa da Maometto, e i musulmani credono di essere in diritto di esercitare la schiavitù. Non si distruggerà che colla predicazione del Vangelo, e collo stabilire definitivamente il cattolicesimo in queste contrade”.
A cinquant’anni Comboni è un uomo che si è speso senza misura: conosce varie lingue, ha viaggiato attraverso le foreste e i deserti, ha vinto numerose malattie, ha bussato alle corti europee, ha trovato il favore del papa Pio IX, di don Bosco e di tante altre personalità della Chiesa; si è conquistato l’appoggio e la stima di capi di stato musulmani e, lui austriacante, di italiani garibaldini e anticlericali come Romolo Gessi e Luigi Pennazzi; ha visto morire tanti compagni; ha subito calunnie e umiliazioni anche a causa di alcuni suoi confratelli…
Nella sua evangelizzazione ha costruito scuole ed ospedali, insegnando a scrivere, a praticare i mestieri grazie all’esempio di falegnami, muratori, sarti, calzolai, fabbri, contadini, spesso venuti direttamente dall’Italia; inoltre ha cercato di “introdurre il modello familiare cattolico”, il rispetto della donna e dei figli, la fedeltà coniugale…tutto in visto di quello che lui considera il “progresso cristiano”, che deve portare, senza fretta e senza accelerazioni o imposizioni, al battesimo. Ora, pochi anni prima della conferenza di Berlino del 1884, festeggia il suo compleanno a Khartoum con dignitari turchi ed egiziani, consoli d’Austria e di Francia. Ma è consumato dalle fatiche e dalle malattie. Di lì a poco, il 10 ottobre 1881, anche il suo fisico eccezionale cede definitivamente e Comboni muore. Ha dato la sua vita, come avrebbe voluto, per la “rigenerazione dell’Africa”.
L'AFRICA OGGI
Oggi, ad oltre cent’anni dalla sua morte, laddove la sua opera non ha avuto successo, quali sono i problemi dell’Africa? Gli stessi di allora. Esogeni e, soprattutto, endogeni.
Lo sfruttamento occidentale delle ricchezze del suolo e della manodopera locale, ad opera di alcune multinazionali, vere eredi dei trafficanti di schiavi europei del passato; la poligamia; l’aids al posto della sifilide, anche a causa della promiscuità sessuale e della donna usata per il “capriccio”; la corruzione dei governi locali, sempre in guerra tra loro e poco attenti al bene comune dei loro popoli; le dittature e l’instabilità politica; la tratta degli schiavi: quella di alcuni stati islamici che continuano a praticarla a danno dei neri; quella delle tribù nere, i soninke, i pular, i wolof… a danno di altri neri; i bambini soldato, imbottiti di droga, della Sierra Leone; le nigeriane, nuove schiave costrette a prostituirsi là e in Occidente, tramite i riti vodù, dai loro connazionali; le migliaia e migliaia di bambine vergini che “vengono offerte al Tro, una delle divinità del sistema vodù, come compenso per colpe commesse dai familiari”, che finiscono come trastulli sessuali e schiave degli stregoni del vodù (Nigrizia, n.5, 1998); il traffico degli organi; la superstizione politeista e animista che impedisce lo svilupparsi di scienza, tecnica e medicina: ancora oggi l’Africa animista conosce il sacrificio umano; epilettici, autistici, handicappati, sono sovente considerati maledetti, e allontanati, abbandonati e uccisi; uomini come il presidente del Gambia Yahya Jammeh dichiarano di aver ricevuto dagli dei la cura per l’asma e l’aids (Alice Bellagamba, L’Africa e la stregoneria, Laterza); gli albini vengono spesso fatti a pezzi e i loro organi usati per filtri di vario tipo; interi villaggi vengono assaliti e distrutti, perché abitati dai “bambini stregoni”…
Le patologie fisiche e psichiche sono spesso messe in relazione alla presenza di spiriti malvagi: i “criminali impiccati, gli stregoni gli schiavi e i prigionieri di guerra che non hanno potuto avere funerali tradizionali” vagherebbero nella città dei vivi, tormentandoli “con malattie e possessioni”, sicché “ogni sorta di sventura e di disgrazia è attribuita” agli “oscuri poteri” delle maledizioni e dei malefici (Mauro Burzio, “Viaggio tra gli dei africani”, Mondadori, 2005) …
Forse, allora, la ricetta per l’Africa rimane quella di Comboni, che vide tutta la realtà, così com’era, senza inganni, senza facili ottimismi, e ciononostante l’Africa “la amò e la apprezzò non soltanto per la sua infinita miseria, che chiedeva soccorso, ma anche per se stessa, per i valori che racchiudeva, per l’umanità che svelava a chi fosse stato capace di andare al di là dell’apparenza” (Gianpaolo Romanato), e degli innegabili problemi di quel martoriato, eppure splendido, continente (Il Foglio)
Fonte: da Liberta e Persona del 09/12/2009
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