Dal testo di Francesco Zanotto
"Senonchè il furor popolare essendo un
mar in burrasca senza freno, tale tumulto era per minacciare la intera città, e
involger nella mina e nel lutto gl'innocenti cittadini. La patria era caduta,
nè rimaneva altro che salvarla da quegli orrori minacciati da una plebe irata e
senza legge. A ciò accorse la carità di un suo cittadino, il nobile Bernardino Renier, il quale, investito
subitamente del potere di domare il tumulto, coll'indomito suo coraggio e
accutezza di mente, raunati quanti più potè ufficiali e soldati, scorse le vie
della Merceria, ed avviatosi al ponte di Rialto, pensò d'impedire il transito
per quello a' tumultuanti ... "
ANNO 1787
Giuseppe Gatteri
Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.
Indebolita ed
impoverita politicamente, incapace di un reale e profondo rinnovamento sociale ed infine
vittima della sua stessa scelta "neutralista", la repubblica di Venezia alla fine del
Settecento cede il passo all'incalzare della storia che porta il nome ed il volto di Napoleone Bonaparte.
LA SCHEDA STORICA - 142
Un clima immobile ma foriero di sventura aleggiava
sulla repubblica ...
Ma qual era il clima,
quale l'atmosfera che si poteva respirare a Venezia in quegli stessi anni che
videro il trionfo della rivoluzione in Francia ed il crollo di una delle più
antiche monarchie d'Europa?
Ci furono dei presagi che potevano lasciare intuire
l'imminente fine, o tutto procedeva come sempre?
Venezia aveva assistito al suo lento, ma progressivo declino
di potenza europea e marittima. La repubblica da almeno tre secoli aveva perso
prestigio e possedimenti nel Levante, un processo inarrestabile e progressivo
che le strappò alla fine il monopolio
dei traffici in Oriente impegnandola invece in ricorrenti sforzi militari - e
di conseguenza finanziari - sempre più pesanti.
Dalla scoperta dell'America, poi, l'asse dei commerci si era
andato via via spostando verso l'Atlantico determinando l'affermazione di nuove
potenze marittime come l'Inghilterra,
l'Olanda e per un certo periodo la Spagna ed il Portogallo.
Lo stesso Adriatico poi, almeno dal Seicento, non era più
monopolio della repubblica.
Vi entravano e vi uscivano quando e come volevano le navi di
qualunque potenza europea nella più totale ignoranza delle lamentele, sempre
più deboli ed inconsistenti, dei governi ducali.
Venezia per secoli aveva giocato un ruolo importante quale
baluardo di difesa contro l'espansione turca. Alle sue navi, ai suoi uomini, ai
suoi comandanti molte, molte volte l'Europa aveva affidato le sue speranze e le
sue certezze di salvezza e raramente Venezia aveva mancato all'impegno.
Una scommessa riuscita ma il tempo cambia ...
Sulla sua forza marittima, sull'abilità e l'astuzia dei suoi
mercanti, la Serenissima era riuscita nei secoli a costruirsi e a consolidarsi quale nazione
venendo solo sfiorata da avvenimenti che invece travolgevano o modificavano
altre realtà storiche.
Venezia alla fine del Settecento poteva ritenersi il più
antico stato italiano.
Dieci secoli erano
infatti trascorsi dall'elezione del suo primo doge nell'ormai lontanissimo
settimo secolo e Venezia c'era ancora.
Aveva attraversato guerre di ogni genere, combattendo fin
dal suo sorgere contro Longobardi ed Arabi, Franchi ed Ungari per poi
affrontare, una volta affermatasi quale realtà storica, i nemici più insidiosi.
Dai turbolenti vicini di casa - padovani o veronesi -, alla
rivale repubblica di Genova fino a doversi scontrare con i più potenti stati
europei, Francia e Spagna, Papato e Impero.
Sullo sfondo, ma sempre presente almeno dal Quattrocento,
restava poi lo scontro con i turchi.
Eppure Venezia era lì, aveva attraversato tutto questo non
solo uscendone incolume, ma anzi costruendo la sua grandezza e la sua fortuna.
Arrivò così l'espansione sulla terraferma fino in territorio
lombardo - Brescia e Bergamo - e a sud con Rovigo e parte del Polesine.
A est era riuscita a portare i suoi confini dal Friuli
all'Istria via via fino alla Dalmazia e all'Albania giù, lungo la costa e le
sue isole.
Aveva dato un re ed una regina all'Ungheria e aveva portato
il suo stendardo a sventolare sulle più importanti isole del Mediterraneo
orientale, da Candia (Creta) a Corfù fino all'isola di Cipro e ancora non
bastava.
Venezia era riuscita infatti e prima dei turchi, a mettere
in ginocchio l'ultima eredità dell'impero romano, Costantinopoli,
conquistandola e saccheggiandone le favolose ricchezze (1204).
Dopo Costantinopoli fu la volta anche dell'altra grande
città-simbolo, culla della stessa civiltà e cultura europee, Atene.
Una grande eredità politica e culturale conquistata a
fatica in secoli di lotte cruente ... alla mercè dei giochi europei ...
Venezia era riuscita a conquistare tutto quello che poteva
conquistare una nazione con le sue forze e le sue risorse, umane e materiali
superando ogni sorta di insidie, interne o esterne che fossero.
Eppure alla fine
qualcosa sembrò non tornare e Venezia si preparava a pagare alla storia il suo
massimo ed estremo tributo. Una storia dalla quale, almeno nel suo ultimo
secolo di vita, la repubblica cercò fino all'ultimo di chiamarsi fuori,
chiudendosi in una pericolosa quanto ambigua neutralità.
E così mentre l'Europa tornava ad infiammarsi poco prima
della metà del secolo per le solite questioni dinastiche (questa volta era il
trono di Polonia a riportare sul piede di guerra la Francia e l'Austria),
Venezia faceva sapere a gran voce alle corti europee che mai il governo ducale
avrebbe trascinato in una nuova guerra la propria nazione.
Venezia si dichiarava neutrale, una neutralità che sarebbe
diventata anche la sua tomba.
Assente sui campi di battaglia, la Serenissima veniva di
conseguenza esclusa infatti anche dai tavoli delle grandi trattative dove
venivano di volta in volta tracciate, modificate ed indirizzate le linee della
storia europea.
Venezia era lì, certamente magnifica come sempre, ma oramai
immobile ed imbalsamata, ovvero nella condizione peggiore per venir trascinata
via dall'impeto degli eventi.
Eventi che presero ad evolversi con straordinaria rapidità
verso la fine del secolo quando la Francia rivoluzionaria e giacobina porterà
al patibolo il re Luigi XVI e la sua consorte la regina Antonietta quale
ultimo, violento epigono della Rivoluzione che con i suoi ideali di libertà,
fratellanza ed uguaglianza stava ancora infervorando gli animi dei giovani
europei.
L'occhio attento dello stato oligarchico e aristocratico veneto segue le vicende
europee ...
Anche rispetto a questa ondata la Serenissima si dimostrerà
campione di strategia. Rafforzati i controlli, la censura e abolita la libertà
di riunione politica, Venezia rispondeva così al suo interno alle prime
infiltrazioni libertarie provenienti dalla Francia rispetto alle quali aveva
tanto da temere quanto una qualunque vecchia monarchia europea.
Se Venezia infatti, a differenza di queste ultime era una
repubblica è anche vero che il suo sistema istituzionale era tra i più rigidi e
i più chiusi che esistessero e di carattere prettamente aristocratico elitario.
Lo stato di polizia poi che contraddistinse molti periodi
della storia veneziana con denunce, spionaggi, controlli e punizioni sotto
l'egida del terribile Consiglio dei Dieci, completava il quadro di uno stato
che di democratico aveva veramente ben poco.
Venezia per dieci secoli non aveva mai sostanzialmente
mutato la forma del suo governo, reprimendo anzi ogni tentativo di possibile
modifica, orientandosi sempre più verso una forma di governo prettamente
oligarchico.
Questa sua eccezionale solidità istituzionale la preservò
certamente da sconvolgenti e radicali turbamenti nel corso della sua lunga
storia, diventando però alla fine una delle cause della sua stessa sconfitta .
Incapace di rinnovarsi e di esprimere qualcosa di nuovo e di
diverso, la classe politica veneziana di fine secolo aveva ormai ben poco da
esprimere e da rappresentare se non sè stessa. Fu anche questa incapacità a
relegare ai margini della storia la repubblica veneta fino alla sua scomparsa.
Ed espressione di questa sostanziale incapacità fu anche
l'ultimo doge eletto dal Senato veneziano nel 1789 quando ormai tutto aveva
preso ad evolversi rapidamente.
lI suo nome era Lodovico Manin.
Non era un veneziano, o meglio non faceva parte della più
antica aristocrazia lagunare essendo la sua famiglia di origine friulana
trapiantatasi a Venezia nel 1297. Qui la famiglia Manin fece la sua fortuna
tanto da potersi permettere l'esborso di 100.000 ducati nel 1651 per poter
essere iscritta nel Libro d'Oro del patriziato veneziano.
Dunque, agli occhi degli esponenti della più antica
aristocrazia veneziana, il Manin doveva sembrare un nobile dell'ultima ora, non
certo di sangue comunque, ma per soldi, oltre a non essere di origine
propriamente veneziana.
A proposito di origine, uno dei concorrenti nell'elezione
ducale, Pietro Gradenigo, una volta eletto il Manin, pare esplodesse in una
beffarda quanto premonitrice esclamazione: "Con un doge friulano, la Repubblica è morta!"
Non era andato troppo lontano il Gradenigo, ma la cosa si
sarebbe verificata non certo perchè il Manin fosse friulano, quanto per tutta
una serie di circostanze storiche rispetto alle quali tuttavia, il doge e il
governo veneziani assunsero per la verità un atteggiamento a dir poco
discutibile.
Venezia infatti continuava a dichiarare la sua neutralità
alle potenze europee che stavano cercando di unirsi in un unico fronte per
tentare di arginare il fenomeno rivoluzionario francese.
Una neutralità a qualunque costo la rende inaffidabile
a tutti ...
Neutralità a qualunque costo sembrava essere la linea
assunta dal doge di fronte ad eventi che forse avrebbero richiesto invece
un'alta e ben diversa capacità decisionale. Neutralità che rasentò
l'incredibile quando, ghigliottinato il re francese, la Serenissima si guardò
bene dal rompere i rapporti diplomatici con il nuovo governo rivoluzionario al
punto che al rappresentante francese venne permesso di esporre nel suo palazzo
la bandiera repubblicana.
E tutto questo mentre il resto d'Europa scongiurava Venezia
di entrare nel fronte antirivoluzionario.
Come se non bastasse il governo ducale espulse dal suo
territorio nel 1795 il fratello del re defunto, il conte di Provenza Luigi, che
sperava di aver trovato rifugio presso la "neutrale" Venezia.
Ma la neutralità della Serenissima in quegli anni si
dimostrò più che altro un fragile tentativo di resistere agli eventi cercando
di non pestare i piedi a nessuno nella speranza così di restarne fuori. Non era
nuova questa politica per Venezia.
Molte, molte volte la repubblica era riuscita a sopravvivere
proprio grazie ad una oculata ed astuta politica diplomatica. Raramente Venezia
aveva cercato o provocato la guerra ritrovandosi più spesso invece coinvolta e
costretta a difendere la sua stessa sopravvivenza.
Ma se questa politica
aveva permesso alla Serenissima di superare le crisi e spesso di vincere, ora
dimostrava tutta la sua sterilità e pericolosità.
La penisola si stava infatti trasformando nuovamente nel
campo di battaglia di due super potenze. L'Austria imperiale, infatti, dal 1796
era ufficialmente in guerra con la Francia post-rivoluzionaria le cui truppe
erano comandate da un giovane ed irruento comandante corso, Napoleone
Bonaparte, che a seguito di una serie impressionante di vittorie riuscì per la
metà di maggio a conquistare praticamente tutta la Lombardia entrando a Milano
il 15 di quello stesso mese.
Da quel momento in
poi per Bonaparte si apriva un cammino tutto in discesa. Mantova,
Peschiera, e poi Verona vennero successivamente conquistate e con esse Brescia
e Bergamo. Napoleone aveva messo piede in territorio veneziano.
E il Senato veneziano cosa faceva nel frattempo?
Venezia si sentiva stringere a poco a poco in una morsa. Da
una parte il dilagare inarrestabile di un esercito straniero al quale la
Serenissima poteva forse opporre solo 5000 uomini, d'altra parte l'impero
austriaco che stava perdendo ugualmente terreno di fronte alle armate francesi
e che contava ancora sulla "neutralità" compiacente di Venezia.
Per tutta risposta il Senato elesse un provveditore generale
in terraferma con sede a Verona, Nicolò Foscarini, il quale dovette tuttavia
ritirarsi quando Bonaparte entrò nella città scaligera.
Per quanto riguardava la flotta non si trovava alcuna valida
politica di riarmo.
Il Senato,
paradossalmente, sembrava sabotare ogni iniziativa che avrebbe potuto far
guadagnare tempo. Le richieste di ordini e di istruzioni da parte del Foscarini
venivano volontariamente glissate mentre per la flotta vennero archiviati i
piani di riarmo e revocato l'ordine di richiamo per alcune navi di stanza a
Corfù.
E il doge?
Lodovico Manin si dimostrò in quegli estremi momenti in
tutta la sua fragilità di uomo e di capo supremo di uno Stato.
Già nel 1796 aveva espresso, pare, la volontà di abbandonare
il dogato per ritirarsi in un convento mentre in quelle che sarebbero state le
ultime sedute del Consiglio il doge si presentava sempre più smunto in volto e
piangente, stando almeno ad alcune testimonianze oculari del tempo.
Se il doge piangeva, Napoleone intanto tesseva la sua tela.
Il Veneto si stava rivelando un campo piuttosto difficile -
a Verona e in molti contadi si stavano accendendo moti anti-francesi - cosa che
convinse il giovane comandante francese a scendere a patti con gli austriaci ai
quali la cessazione delle ostilità non poteva che risultare vantaggiosa.
A Eckenwald le due parti si incontrarono il 18 aprile del
1797 stabilendo la spartizione dei territori veneziani, in gran parte destinati
all'Austria in cambio della rinuncia alla Lombardia e al Belgio.
A Campoformio, sei mesi dopo, il trattato sarebbe stato
ratificato. Era la fine della repubblica.
Il 29 di quello
stesso mese si riuniva per l'ultima volta il Senato mentre il giorno dopo il
doge convocò un'assemblea, del tutto arbitraria e anticostituzionale, composta
dai rappresentanti dei massimi organi istituzionali dello stato veneziano.
I 42 membri di questa eccezionale assemblea si presentarono
alla prima seduta vestiti completamente di nero, colore del resto in perfetta sintonia
con il clima del momento, assemblea passata alla storia con il nome di Consulta
Nera.
Questo fu l'unico organo che da quel momento fino alla fine
esercitò a Venezia il potere.
I convenuti, doge compreso, decisero tuttavia di convocare
in seduta straordinaria il Maggior Consiglio per il mattino seguente quando il
doge avrebbe esposto i punti dell'ultimatum di Napoleone alla città.
Domani, tuttavia era già troppo tardi.
Mentre a Venezia si discuteva e si rimandavano le decisioni,
l'esercito francese infatti era avanzato fino alle porte della città stessa con
tanto di uomini, cavalli ed artiglieria pesante.
La notizia sconvolse l'Assemblea suscitando le reazioni più
disparate, dal panico alle lacrime al desiderio di fuga.
Il doge Manin misurava intanto camminando su e giù la grande
sala riuscendo alla fine a dire solamente delle banalissime quanto
significative parole: "Questa notte
non siamo sicuri nianche nel nostro letto".
E quella dovette essere una lunga, lunghissima notte per il
doge Lodovico Manin e per tutti i veneziani.
L'indomani infatti, Napoleone Bonaparte firmava la formale
dichiarazione di guerra alla Serenissima.
Tremila soldati francesi sarebbero entrati in città
prendendo in consegna l'Arsenale mentre il palazzo Ducale e la Zecca sarebbero
stati consegnati ad una Guardia Civica.
Il comando della flotta veneziana veniva assunto dai
francesi e dalla municipalità, l'organismo che avrebbe sostituito tutte le
vecchie istituzioni della repubblica.
A questo si aggiungeva la proclamazione di un'amnistia
generale per tutti i reati politici, l'ispezione da parte di rappresentanti del
popolo delle prigioni di stato (Piombi e Pozzi), l'erezione in piazza di San Marco dell’albero della libertà, l'elezione da parte del popolo
di suoi rappresentanti mentre tutti gli ambasciata veneziani venivano
richiamati e sostituiti.
Questo in sostanza la prospettiva che si dischiudeva agli
occhi del governo veneziano che convocò per la deliberazione in merito il Maggior Consiglio per il giorno 12 maggio, un
venerdì, l'ultimo venerdì della repubblica veneziana.
In realtà c'era ben poco da discutere. La città non aveva
più scampo nè scelta.
A sottolineare l'inutilità della seduta anche il fatto che
all'appello mancavano ben 63 senatori non venendo raggiunto quindi il numero
legale per le deliberazioni.
Poco male. I giochi in fondo erano già stati fatti.
Il doge Manin aprì comunque la seduta in un clima di
silenziosa pesantezza e tensione - tutti sapevano benissimo che quella sarebbe stata l'ultima
seduta -, mentre fuori nella piazza, il clima si stava riscaldando.
I veneziani erano accorsi sotto il palazzo ducale per
conoscere le loro sorti. Fra loro chi sperava nel ''liberatore'' francese, chi
invece temeva il nuovo ordine.
All'interno intanto il doge leggeva i passi del decreto
napoleonico consigliando che tutti i poteri, a quel punto, passassero ad un
governo democratico provvisorio.
Non aveva ancora iniziato a parlare il primo senatore, che
si udirono da fuori una raffica di colpi di fucile. A quel punto il panico
latente esplose incontrollato anche dentro la sala del Maggior Consiglio.
Ma non erano i francesi comunque ad aver sparato, non ancora
almeno, ma le fidate guarnigioni dalmate che salutavano con dei colpi a salve
la città che stavano per abbandonare.
E così si procedette alle votazioni, le ultime della
secolare storia del Consiglio Maggiore, che si esaurirono frettolosamente e nel
caos più totale. Alla fine passò naturalmente la mozione, 512 voti a favore, 20
contrari e 5 astenuti. Poi seguì un fuggi fuggi generale. Tutti avevano fretta
di abbandonare la nave che stava affondando. Nel salone deserto rimase alla
fine solo il doge, Lodovico Manin che dichiarava approvata la mozione.
La repubblica veneziana non esisteva più.
Fuori intanto si scatenavano le prime reazioni, violente ed
emotive. Chi gridava ''Viva la libertà" chi ''Viva San Marco".
Si arrivò allo scontro e dallo scontro a dei veri e propri
disordini. A sedare il tumulto un nobile, Bernardino Renier che dislocando
numerosi cannoni e uomini nella città riuscì alla fine a riportare l'ordine.
Nel palazzo, intanto, si consumava nella solitudine più
totale il dramma di un uomo che la storia scelse quale ultimo doge, il
centodiciottesimo della secolare storia della repubblica veneziana.
Lodovico Manin nel consegnare le insegne ducali al proprio
cameriere riassunse in poche, tristissime parole, l'essenza di quella fine: ''Tolè questa, non la dopero più".
Fonte: srs di
Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura
Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,
volume 5, SCRIPTA EDIZIONI
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