mercoledì 29 luglio 2015

STORIA VENETA – 64: 1405 - LA CONSEGNA DELLE CHIAVI DI VERONA. ANCHE LA CITTA' SCALIGERA CEDE A VENEZIA



Dal testo di Francesco Zanotto


"Giunti al cospetto del Doge scesero facendo tre inchini; e dopo la celebrazione di una messa solenne, Jacopo De' Favri, dottore, uno degli inviati, in mezzo di due cavalieri, presentò la lettera credenziale del suo Comune, datata 5 luglio; recitando l'apparecchiata orazione. Quindi gli altri, per ordine, offrirono chi il sigillo della città, chi le chiavi delle tre porte principali, cioè di quella S. Giorgio , del Vescovo, e de' Calzari, allusive alli tre ordini de' cittadini, cioè dei cavalieri e dottori, de' mercatanti, e della plebe ... "


ANNO 1405


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Nel nuovo scontro per il possesso dell'entroterra veneto, Novello da Carrara occupa Verona, ma la città dopo lunghe devastazioni chiede la pace a Venezia ed entra dopo Vicenza a far parte dei domini della Serenissima.


LA SCHEDA STORICA -  64


 La fine del XIV e i primi anni del secolo successivo segnarono l'ascesa di una nuova stella nel già multiforme panorama politico italiano. La stella era quella dei Visconti di Milano. II dominio di questa famiglia si stava pericolosamente espandendo verso sud, incombendo su Firenze e Bologna, ma anche e contemporaneamente verso est.
Tuttavia, per Venezia, il pericolo immediato veniva ancora dalla vicina Padova. Nel 1384 a soli tre anni dalla pace di Torino, Francesco da Carrara ritrovava la forza e l'arroganza per tornare a tessere una nuova rete di alleanze anti-veneziana. In quell'anno aveva già acquistato dal duca d'Austria Treviso, Conegliano e Ceneda, ovvero quegli stessi territori che Venezia aveva da poco ceduto al signore austriaco per non vederli cadere proprio in mano ai padovani. Come se non bastasse, il da Carrara aveva acquistato per 70.000 ducati anche Feltre e Belluno.
Il sogno espansionistico dell'irrequieto signore carrarese doveva tuttavia infrangersi ben presto, questa volta, contro gli interessi e le ambizioni di Gian Galeazzo Visconti. Questi, preoccupato quanto Venezia, seppur per le proprie e particolari ragioni, del dilagare della potenza padovana, si alleò con il governo veneziano " ... per procurare il danno e la confusione del Signore Padovano ... " . E così il Visconti occupò prontamente tutte le terre entrate di recente nei domini padovani, cedendole invece al suo nuovo e recente alleato' Venezia. La stessa città di Padova venne occupata e inglobata nei possedimenti viscontei mentre Francesco da Carrara, l'infaticabile tessitore di alleanze anti-veneziane, avrebbe finito i suoi giorni in una prigione lombarda.
Venezia, a questo punto però, vedeva semplicemente sostituirsi alla potenza carrarese quella ancor più temibile dei Visconti.
Si aprì così un lungo periodo di convulse trattative tra i governi di Venezia e Bologna, di Venezia e Firenze e, da ultimo, anche con il nuovo signore di Padova, Novello da Carrara. Questi era riuscito a fuggire dalle carceri viscontee proprio grazie all'aiuto dei veneziani ed era riuscito a riprendersi la sua città grazie al denaro e agli uomini offerti generosamente dal governo ducale.
Nel frattempo era comunque venuto a morte il Visconti facendo apparire ora più debole il suo dominio ereditato dalla vedova. Di questo momento di debolezza, tuttavia, sembrava approfittarne ancora una volta Padova e il suo nuovo signore. Novello da Carrara infatti si alleò ben presto con il signore di Ferrara Niccolò Estense che, forte di questo appoggio, si riprese il Polesine che aveva da poco ceduto a Venezia quale rimborso di un grosso prestito. Nel contempo Novello da  Carrara entrava in Lombardia e tramava con Firenze contro i Visconti.
A Venezia, intanto, visti i nuovi sviluppi, si faceva sempre più strada la convinzione che, se la città voleva stare tranquilla, doveva al più presto intervenire nelle faccende di terraferma per creare una fascia di sicurezza direttamente controllata dai veneziani.
Era questa l'intima convinzione del nuovo doge Michele Steno, succeduto al Venier: una fascia che proteggesse la repubblica dalle mire espansionistiche delle più forti signorie venete e lombarde, affamate di sempre nuovi ed ulteriori territori. Convinzione che si fece tanto più necessità dopo la conquista del da Carrara di Verona. Da qui, il signore padovano stava minacciosamente puntando anche su Vicenza che, di fronte alla prospettiva di cadere in mano al da Carrara, preferì inaspettatamente consegnarsi alla Serenissima che naturalmente accettò di buon grado. Attaccare Vicenza, ora, significava attaccare un territorio veneziano.
E così, disdegnati gli inviti del senato veneziano di sgombrare al più presto, tra Padova e Venezia erano ancora venti di guerra quelli che soffiavano nel 1405.  Novello aveva già provveduto a fortificare i confini e a procurarsi alleanze quando anche Venezia fece la sua prima mossa avanzando da Vicenza verso Verona, la città che il da Carrara aveva strappato agli Scaligeri. Lo scontro fu inevitabile e, dopo devastanti scorrerie nel territorio veronese, la città chiese la pace ai veneziani.  
Jacopo da Carrara, figlio di Novello e responsabile per conto del padre della città, veniva nel frattempo catturato mentre il 23 o forse il 24 giugno del 1405 le truppe veneziane entravano a Verona. Gabriele Emo a nome della Repubblica riceveva i simboli della Signoria veronese. Il  possesso della città scaligera venne successivamente ed ufficialmente sancito a Venezia dove vennero spediti 22 rappresentanti veronesi.
Il 12 luglio i cavalieri si presentarono così a Michele Steno. Per l'occasione e data la bella stagione, era stato allestito un palco in Piazza S. Marco sul quale presero posto il doge e i membri del Maggior Consiglio. Reso omaggio al doge e all'alta assemblea, Jacopo de Faveri presentò a Michele Steno la lettera credenziale del suo Comune. Finita la lettura della missiva vennero offerti al doge dagli altri cavalieri veronesi i sigilli della loro città e le chiavi della tre principali porte: S. Giorgio, Porta Vescovo e dei Calzari, allusive ai tre ordini dei cavalieri, dei mercanti e della plebe. Era la resa e la sottomissione di un'intera città alla Serenissima Repubblica di S. Marco.
Nel giro di 25 anni, tanti ne erano trascorsi dalla conclusione della guerra di Chioggia, quando sembrava prossima la fine di Venezia, questa era diventata la prima ed unica potenza anche territoriale della regione. Dopo Treviso, il feltrino ed il bellunese, Venezia nel giro di due anni aveva inglobato nei suoi domini anche Vicenza e Verona senza quasi combattere.
L'esasperata volontà di espansione del da Carrara aveva provocato una situazione esattamente opposta a quella da lui sperata, una situazione che vedeva resistere a Venezia, anche se ancora per pochi mesi, la sola Padova. Per Novello da Carrara era un incubo che improvvisamente diventava realtà. Per Venezia era invece l'inizio di una delle sue più splendide avventure.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  3, SCRIPTA EDIZIONI



venerdì 24 luglio 2015

STORIA VENETA - 63: 1383 - VENIERO NEGA LA GRAZIA Al FIGLIO. INCARCERATO PER INGIURIE SI AMMALO' GRAVEMENTE



Dal testo di Francesco Zanotto


"L'ira, il dispetto e la vergogna, in cui era caduto Luigi, gli procurarono gravissimo malore, e tanto che venne in disperazione della vita. Pregò quindi d'esser tratto dal carcere, fino a che si fosse ristabilito; pregarono i congiunti, perché non accadesse che il figliuolo del principe venisse a mancare nel luogo di pena: ma inutili furono i preghi,  vane le suppliche, chè il Doge costantissimo fu nel volere che non venissero infrante le leggi; perlocchè dovette morire in carcere Luigi, e la sua morte fu pietosamente lacrimata dai cittadini d'ogni ordine, lasciando a' posteri un terribile sì, ma utilissimo esempio di singolare giustizia ... "


ANNO 1383


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


E' sicuramente un episodio minore della storia veneziana ma il più simbolico per il conflitto dei sentimenti: l'attaccamento allo Stato e alla famiglia. Il  doge tenne duro e applicò con esemplare durezza la legge che non voleva favoritismi nei confronti  del figlio reo di ingiurie ...


LA SCHEDA STORICA  - 63


Il 16 gennaio del 1382 moriva il vecchio doge Andrea Contarini l'eroe della guerra di Chioggia, il salvatore della patria. Aveva appena fatto in tempo a siglare la pace con Genova il doge veneziano che pochi mesi dopo lasciò libero il trono ducale per il suo successore Michele Morosini.
Il  nuovo doge, destinato a restare sul trono solo un breve periodo di tempo, era uno dei più noti e stimati uomini politici veneziani, rappresentante della Repubblica alle trattative di pace con Genova a Torino.
Il Morosini era innanzitutto, però, un uomo ricchissimo. Il suo patrimonio, già consistente prima della guerra divenne eccezionale proprio in occasione dello scontro tra Venezia e Genova quando nella città lagunare il prezzo delle case crollò in modo catastrofico. Alla notizia del probabile, imminente arrivo dei genovesi a Venezia, tutti cercavano disperatamente di vendere a prezzi stracciati mancando d'altro canto gli acquirenti. Fra questi c'era invece Michele Morosini che non fece altro che acquistare, acquistare e ancora acquistare le case di cui gli altri si disfacevano per quattro soldi salvo rivenderle, dopo la guerra, a prezzi più che quadruplicati data la crescente domanda dovuta alla ripresa della fiducia dopo le prime vittorie. A bloccare comunque la carriera ducale e l'accrescimento del proprio, personale patrimonio, arrivò impietosa per Michele Morosini la peste.
Al defunto doge venne dato quale successore un uomo completamente diverso per carattere e spessore: Antonio Venier. Alcune fonti sostengono che il nome del Venier venne preferito a quello di un altro eroe della guerra di Chioggia, Carlo Zeno. Tuttavia la personalità dell'ancor giovane comandante mal si addiceva, si pensò, agli spazi chiusi e agli intrighi di Palazzo Ducale. Il suo posto era sul mare dove certamente con miglior profitto avrebbe potuto continuare ugualmente a servire la repubblica come infatti accadde nei successivi 36 anni.
Scartata così la candidatura dello Zeno, al trono ducale il 28 ottobre 1382 nella sorpresa generale, tanto che egli ne venne a conoscenza e poté rientrare da Creta solo tre mesi dopo, venne portato Antonio Venier.
Il nuovo doge al momento dell'elezione era capitano di Candia (Creta) dove l'intera sua famiglia si era trasferita qualche anno prima. Agli inizi del conflitto con Genova, poi, il Venier si era rifiutato di cedere l'isola di Tenedo ai genovesi dando prova del suo carattere risoluto ed intransigente.
A questo uomo spettava il duro compito di risollevare la propria città e lo Stato da una delle più buie crisi economiche in cui si trovarono. In soli nove mesi, quelli più tragici del conflitto nel 1380, il governo veneziano aveva lanciato ben 10  prestiti forzosi in un momento in cui lo sforzo per l'impegno bellico impegnava tutti i cittadini di Venezia attraversando tutte le categorie e classi sociali. Ed infatti l'onere delle spese militari non gravò solo sulle famiglie ad alto reddito chiamate obbligatoriamente al sacrificio economico, ma incise ancor più profondamente e negativamente su una miriade di piccoli e medi commercianti ed artigiani. Chi non ce la faceva a pagare e ad acquistare le nuove cartelle dei prestiti per un valore del cento per cento, si vedeva infatti confiscare e vendere le proprietà.
La guerra di Chioggia per molte famiglie veneziane significò così la rovina, la crisi o comunque la perdita di una sicurezza economica. Fu un periodo di grandi rivolgimenti, anche sociali, quello della guerra con Genova, dove a bilanciare le famiglie che precipitavano nella miseria, c'erano quelle che invece dalla guerra trassero immensi profitti economici e politici - la speculazione di Michele Morosini non era stata certo un caso isolato.
Malgrado la disperata situazione economica e sociale interna, il nuovo doge poteva tuttavia contare sulla fedeltà delle colonie, specialmente Creta, rimaste infatti fedeli a Venezia malgrado la guerra e su di una struttura politica che nella sostanza non venne minimamente scalfita o compromessa dalla pericolosa e tragica esperienza bellica. Nessun governo di nessuno Stato italiano di allora si presentava con una simile solidità come quello veneziano. Una solidità di cui si faceva garante e degno interprete lo stesso doge.
Un fatto in particolare restò nella memoria di Venezia relativo proprio al carattere risoluto e incorruttibile di questo suo doge dalle poche parole.
Antonio Venier aveva un figlio, Alvise, che aveva come amante la moglie di un nobile veneziano. A seguito di una furibonda lite con la donna, il giovane con un amico, tal Marco Loredano, non trovò di meglio che appendere nottetempo alla porta della casa della donna, un paio di corna accompagnate da scritte ingiuriose contro l'amante, sua sorella e sua nipote.
Il marito, Giovanni dalle Boccole, scoperta l'indomani mattina la spiacevole sorpresa, si recò dal doge per avere soddisfazione. Il doge giustamente, demandò il tutto all'organo giudicante competente che condannò Alvise Venier e il suo compagno a due mesi di carcere e a 100 ducati d'oro di multa.
Dopo poche settimane di carcere, tuttavia, il figlio del doge - quest'ultimo aveva accettato la sentenza senza batter ciglio -, si ammalò gravemente. A quel punto tutta la famiglia di Antonio Venier si precipitò dallo stesso a chiedere pietà per il giovane sventurato. Il doge fu irremovibile. Suo figlio aveva sbagliato ed offeso e giustamente era stato punito.
Il fatto che fosse figlio del doge non modificava assolutamente questa realtà. E così, dopo pochi giorni di agonia, Alvise Venier moriva rinchiuso nei cosiddetti Pozzi di Palazzo Ducale.
Il padre pianse naturalmente la morte del figlio come gran parte della cittadinanza. Lo spietato rigore, infatti, non fu tanto da padre a figlio, quanto da supremo capo e tutore dello Stato a cittadino.
Un severo, altissimo e dolorosissimo esempio lanciato probabilmente da Antonio Venier ad un'intera società, spesso dilaniata da quotidiani atti di violenza e di ingiustizia. E proprio per non perdere la sua fama di uomo giusto - così si legge sulla lapide sepolcrale -, Antonio Venier alla fine scelse la soluzione certamente più dura, ma inevitabile ed esemplare.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI




mercoledì 15 luglio 2015

STORIA VENETA - 62: 1381 - SI LIBERANO I PRIGIONIERI GENOVESI. LA GUERRA E' FINITA E SI RITORNA IN PATRIA



Dal testo di Francesco Zanotto


"Altri storici narrano ancora, che allorquando fu conchiusa la pace, il che fu l'anno appresso, e che furono liberati di conseguenza i prigioni stessi che sopravvissero, le Veneziane matrone, fatta raccolta di denaro fra loro, somministrarono ad essi di che vestirsi, e di che poter largamente condursi in patria. Il quale ultimo fatto abbiamo scelto a soggetto della unita incisione, affinché si conosca quanto la virtù della pietà fosse viva nei veneti petti in quel secolo, nel quale pochi o nulli esempii si hanno presso ciascun popolo, anche italiano, di tanto delicato sentimento ... "


ANNO 1381


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Con la fine delle operazioni militari si liberano le centinaia di prigionieri genovesi che languivano nelle prigioni, superstiti di un esercito superbo e coraggioso che aveva accarezzato per un giorno l'idea di sottomettere Venezia. Ma gli uomini restituiti sono larve umane aiutati solo dalle donne veneziane mosse a pietà ...


LA SCHEDA STORICA  - 62


Dopo la morte di Vittor Pisàni a Manfredonia il 13 agosto del 1380, la guerra tra Genova e Venezia sarebbe continuata ancora per alcuni mesi.
Certo, dopo la straordinaria riconquista di Chioggia da parte dei veneziani, il conflitto aveva preso tutt'altra piega. Genova era stata inaspettatamente sconfitta dopo aver avuto fra le mani la possibilità di attaccare e sicuramente conquistare Venezia. La sensazione di essersi fatti scappare una vittoria tanto facile quanto clamorosa, doveva aver reso ancor più umiliante e frustrante la sconfitta con la resa incondizionata al nemico.
E così i genovesi arrivarono sì a Venezia, ma non certo per mettere le briglie ai cavalli bronzei di S. Marco! Caricati su ciò che restava delle loro galee, i 4.500 genovesi potevano infatti ammirare la favolosa magnificenza di Venezia come prigionieri esibiti quali trofei lungo il Canal Grande. Ad attenderli, terminata l'umiliante sfilata, c'erano le carceri veneziane dove alla fine vennero infatti rinchiusi. Fu in occasione di quella circostanza che si verificò, a detta di molti storici per lo più veneziani, un fatto riguardevole e degno di nota.
Ancora una volta le protagoniste furono le donne veneziane che vedendo sfilare i malconci ed abbattuti prigionieri genovesi - i sei mesi di duro assedio dovevano aver segnato drammaticamente i corpi di quegli uomini -, accorsero ad aiutarli e ad assisterli durante tutta la prigionia malgrado la dura guerra che li aveva visti contrapporsi ferocemente alla loro patria. Una guerra che dopo la presa di Chioggia si trascinava sempre più stancamente fra le due repubbliche ormai stremate, in una serie di isolati ed insignificanti scontri.


Una guerra infinita


Carlo Zeno, rimasto solo al comando generale della flotta veneziana, continuava imperterrito le sue operazioni militari contro le navi genovesi dall'Adriatico fino giù nel Peloponneso e da qui fino allo stesso golfo di Genova senza tuttavia ottenere particolari o considerevoli vittorie.
Dopo quasi due anni di guerra, effettivamente, tanto Genova quanto Venezia avevano un estremo bisogno di pace per potersi dedicare nuovamente alle normali attività e risollevare le rispettive città dal baratro economico e finanziario in cui la lunga guerra le aveva inevitabilmente sospinte. E così l'intermediazione fra le due repubbliche rivali del principe Amedeo di Savoia, detto il Conte Verde, venne prontamente accettata dai due governi.
La pace venne presto conclusa a Torino nel 1381 e vi parteciparono non solo i rappresentanti di Genova e Venezia, ma anche quelli di tutti gli altri Stati che in qualche modo nel conflitto vi erano entrati: l'Ungheria, Padova, Aquileia. Le condizioni sancite dal trattato, tuttavia, non si dimostrarono affatto particolarmente favorevoli per Venezia. La Serenissima, del resto, malgrado la vittoria di Chioggia era con Genova una della due parti in causa che aveva mantenuto vivo il conflitto, seppur per difesa.
Il  governo veneziano con una decisione assai astuta cercò di prevenire gli avvenimenti mettendo le mani avanti cedendo Treviso ed il suo territorio al duca Leopoldo d'Austria e questo per non correre il rischio in occasione delle trattative di pace di vedere quei territori affidati all'odiatissimo Francesco da Carrara.
In  fondo, in quel momento, i dominii sulla terraferma erano per i veneziani più un peso che un vantaggio. Venezia infatti, tornava a guardare con maggior interesse al mare da dove in fondo era venuto ancora una volta il pericolo maggiore. E così il governo veneziano preferì spendersi per recuperare tutti i punti strategici della laguna, anche se si vide costretto a cedere la Dalmazia e l'isola di Tenedo, la remota causa della guerra con Genova, che venne ceduta ad Amedeo di Savoia. La Dalmazia invece, veniva assegnata inaspettatamente al re d'Ungheria.
Quest'ultimo, con il duca d'Austria, si stava rivelando il vero vincitore della situazione, per lo meno dal punto di vista delle acquisizioni territoriali, dal momento che entrambi ottenevano i territori per i quali avevano accettato di combattere contro Venezia.
Quanto a Genova e a Venezia, per l'appunto, il trattato di Torino non conferiva loro un bel niente, confermandole sostanzialmente nella medesima situazione in cui si trovavano prima della guerra e forse, almeno per Venezia, con qualcosa di meno. Come se non bastasse si stabilì che le due repubbliche avrebbero continuato l'attività commerciale nel Mediterraneo fianco a fianco.


La decadenza di Genova


Tutto dunque, doveva rientrare. Conclusa così la pace anche i prigionieri genovesi potevano finalmente fare ritorno a casa. A tornare erano uomini stanchi e provati dalla durezza del carcere, appena alleggerita dalla generosa assistenza delle donne veneziane che provvidero ora, al momento del rilascio, a fornire ai genovesi il denaro indispensabile per comprarsi dei vestiti e per potersi pagare il viaggio di ritorno. La guerra era veramente finita.
Per Venezia si apriva, malgrado le sfavorevoli condizioni del trattato di pace, un periodo di rapida e straordinaria ripresa economica che nel giro di pochi anni si sarebbe tradotto in conquiste territoriali in quel momento ancora inimmaginabili.
Per Genova, al contrario, la guerra di Chioggia rappresentò l'ultima possibilità per affermarsi come unica potenza marittima italiana al posto dell'eterna rivale. E così, per la repubblica ligure, che non riuscì a risollevarsi dalla pesante crisi economica provocata dalla guerra, iniziava un lento, triste declino che l'avrebbe portata ad essere facile preda di diverse bandiere, da quella francese a quella dei Visconti.
Genova, dopo due secoli, aveva veramente cessato di rappresentare per Venezia un pericoloso, temibile avversario.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI



martedì 14 luglio 2015

STORIA VENETA – 61: 1380 - IL TRIONFO DEL DOGE E DI VENEZIA. RISTABILITI I RAPPORTI DI FORZA CON GENOVA



Dal testo di Francesco Zanotto


"Lasciato Saracino Dandolo al comando della piazza riavuta, pensò il Senato di dare al ritorno del doge un aspetto trionfale.  Quindi ordinava venisse il Bucentoro ad accoglierlo, armato di cento remi tolti a' legni nemici; si portassero dodici nobili a salutarlo come padre della patria. Contarini partiva da Chioggia sulla sua galea il dì  primo luglio, ed a Malamocco incontrava un naviglio leggero colà spedito dal Senato per accoglierlo e condurlo fino all'isola di S. Clemente.  Presso a quest'isola s'abbatteva nel Bucentoro salito da' padri; s'abbatteva in numero immenso di barche d'ogni maniera cariche di lieti cittadini, e coronate di verdi frondi ... '"


ANNO 1380 


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


La fine del pericolo mortale corso da Venezia restituì al popolo tutto il suo ottimismo e la sua vitalità. Occorreva fare festa e a chi se non alla massima autorità dello Stato, il doge Contarini , dimostratosi oltremodo coraggioso e capace ...


LA SCHEDA STORICA  - 61


La situazione, disperata per Venezia fino agli ultimi giorni del 1379 si ribaltò dunque completamente con l'arrivo del nuovo anno, il 1380.
L'astuzia e l'abilità dei comandanti veneziani Pisani e Zeno, la fermezza del doge Contarini e lo sforzo di tutta la comunità lagunare, concorsero a questo incredibile ribaltamento assieme all'inspiegabile reticenza di Pietro Doria che spinse i genovesi in una trappola mortale.
Anche l'arrivo atteso e sospirato dei rinforzi da Genova non riuscì a mutare l'esito finale dello scontro, anche se il rischio di una sconfitta militare rimase reale per Venezia fino all'ultimo momento di guerra.
Nella primavera del 1380 infatti, una flotta genovese al comando di Matteo Maruffo catturò le dodici navi veneziane comandate da Taddeo Giustiniani, colui che per volontà popolare non era riuscito a prendere il comando supremo delle navi veneziane affidato infine al Pisani.
Malgrado l'increscioso episodio, tuttavia, Giustiniani aveva chiesto ugualmente di imbarcarsi e di farsi assegnare il comando di una flotta che venne appunto catturata dai genovesi mentre stava facendo ritorno dalla Sicilia. Laggiù i veneziani avevano infatti recuperato un carico di grano dato che a Venezia e non solo a Chioggia assediata, la fame iniziava a farsi sentire per la mancanza di rifornimenti dovuta alla guerra.
Maruffo iniziò poi a disturbare anche Vittor Pisani e Carlo Zeno ormai pienamente ristabilito dalla ferita. I due comandanti veneziani che pattugliavano la laguna e mantenevano l'assedio a Chioggia, riuscirono però ad evitare lo scontro diretto col Maruffo dal quale sapevano benissimo sarebbero usciti sconfitti data la loro inferiorità numerica. Al tempo stesso trattenendo le navi genovesi al largo di Chioggia impedivano alle stesse di mettersi in contatto con il resto della flotta chiusa nel porto dal cordone delle navi veneziane.

La flotta genovese si ritira

Alla fine lo stesso Maruffo si rese conto dell'inutilità delle sue azioni di disturbo e si ritirò con la sua flotta in Dalmazia. Era la fine per i suoi compatrioti.
Il 24 giugno infatti i 4.000 genovesi assediati ormai da mesi a Chioggia e praticamente abbandonati, si arresero sfiniti dalla fame e dalle malattie senza condizioni e consegnando ai veneziani le ultime 19 galee. Il doge Andrea Contarini poteva finalmente entrare trionfalmente a Chioggia accompagnato da Carlo Zeno e Vittor Pisani.
Una volta nominato il nuovo Podestà, il vecchio doge poteva fare ritorno a Venezia dove la gioia nel frattempo era esplosa incontrollata dopo la notizia della riconquista di Chioggia.
Andrea Contarini aveva voluto seguire personalmente per sei lunghi mesi l'assedio della città non volendo abbandonare i suoi uomini e la sua flotta in uno dei momenti più drammatici, ma anche risolutivi per Venezia. In questo suo straordinario senso dello Stato, in questa sua ferma volontà di voler restare a tutti i costi a fianco dei suoi uomini pur potendo assisterli solo moralmente, il doge apparve ai veneziani il simbolo stesso della straordinaria vittoria. Non si poteva che accoglierlo coi dovuti onori.
Il 10 luglio Contarini lasciava dunque Chioggia per raggiungere dapprima Malamocco e poi l'isola di S. Clemente. Qui il doge venne fatto salire sul Bucintoro spedito dal Senato e guidato da 100 rematori.

Dopo il terrore la gioia e il fasto

 Al suo ingresso a Venezia, lungo il Canal Grande, gli si presentò uno spettacolo stupefacente. Barche, galee, imbarcazioni di ogni forma e misura coprivano letteralmente il Canale mentre alle finestre migliaia di persone festanti lo salutavano.
Arrivato sulla Riva degli Schiavoni un mare di folla lo stava aspettando impaziente e gioiosa. Il  Bucintoro solcava lentamente le acque del Canale carico di trofei, scudi e vessilli tolti al nemico. Fra tutti spiccava lo scudo del capitano generale di Genova con lo stemma della Repubblica, il segno della vittoria resa ancor più tangibile dalle navi nemiche che disarmate venivano con le loro ciurme umiliate e sfinite, trainate in trionfo lungo tutto il Canal Grande fino al Molo. Contarini sbarcò infine a Rialto accolto da una folla esultante che lo chiamava salvatore della patria. E per Venezia si trattava infatti più che di una vittoria, di una vera e propria liberazione. Liberazione da un incubo che, se concretizzato, avrebbe visto Venezia ridotta ad una semplice colonia di Genova.
In pochi mesi, invece, la situazione da disperata si era completamente ribaltata allontanando da Venezia lo spettro del giogo genovese anche se la guerra non era però ancora del tutto finita. Matteo Maruffo, infatti, scorrazzava ancora nell'Adriatico e Vittor Pisani era più che mai deciso a non dargli tregua. Dopo infruttuosi inseguimenti il Pisani riuscì finalmente ad intercettare una dozzina di navi genovesi allargo delle coste pugliesi con le quali arrivò infine allo scontro. Tuttavia, malgrado le circostanze fossero favorevoli ai veneziani, quella battaglia si rivelò ben presto l'ultima, estrema prova del Pisani che ferito, o più probabilmente colpito da febbri malariche, trovò poco dopo la morte.
Era il 13 agosto del 1380 quando si spegneva a Manfredonia uno dei più valorosi comandanti veneziani che un pò per fortuna, un pò per destino, ma in parte anche per coraggio ed abilità, era riuscito a salvare Venezia da un tragico destino di dominazione straniera.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI



lunedì 13 luglio 2015

STORIA VENETA - 60: 1380 - FERITO CARLO ZENO SALVATORE DI VENEZIA. CON LE SUE NAVI AVEVA ROTTO IL BLOCCO GENOVESE



Dal testo di Francesco Zanotto


"Imbarcatosi il doge Andrea Contarini per difendere la minacciata sua patria contro i Genovesi, che già tenevano Chioggia, ed unitosi a Vittore Pisani, contennero tosto i nemici che osavano assai spesso uscire baldanzosi dal forte di Brondolo.  Se nonché  le diuturne fatiche indussero stanchezza ... (. .. ) Erano in tali agitazioni terribili i Veneziani, quando sul romper dell'alba del primo giorno dell'anno 1380, scopersero nell'alto mare venir verso Chioggia alquante vele, e tosto spedirono venti legni leggieri a riconoscerle, ritornando essi con la fausta novella, essere quella la sospirata flotta di Carlo Zeno ... "


ANNO 1380



Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Atteso da vari mesi l'ammiraglio Zeno proprio all'ultimo momento fece una bella sorpresa alla Repubblica: le sue vele portarono la speranza invano cercata per tanto tempo a causa dell'assedio dei genovesi…  ma anche per lui valsero i rischi della guerra …  


LA SCHEDA STORICA  - 60


La rimonta veneziana era appena iniziata quando il 1° gennaio del 1380 accadde un fatto decisivo quanto insperato che ribaltò una volta per tutte le sorti ormai apparentemente segnate di Venezia.
Le pattuglie genovesi poste a scrutare il mare videro quel giorno all'orizzonte spuntare un numero crescente di vele. Non erano però i rinforzi che si aspettavano da Genova, bensì le 18 navi veneziane comandate da Carlo Zeno, uno dei più audaci ammiragli della marina veneziana.
Da sei mesi il Senato lo cercava inutilmente nel Mediterraneo orientale. Da sei mesi la città sperava invano nel suo arrivo.
Si era fatto dunque aspettare Carlo Zeno, questo patrizio di antica famiglia veneziana destinato dai genitori al sacerdozio. Allora, per questo motivo, era stato mandato anche a Roma affinché si facesse strada negli Uffici della Curia. Non era quella, però, né l'atmosfera né la carriera che il giovane Zeno sognava e così se ne tornò presto in Veneto con una ricca rendita ecclesiastica che venne ben presto dissipata in una vita sregolata e goliardica da studente nella città di Padova.
Perduto ogni beneficio lo Zeno campò per cinque anni facendo il soldato di ventura per essere spedito, una volta tornato in famiglia, a Patrasso. Lì si era distinto per il suo carattere irascibile e violento, tanto che venne più volte ferito e creduto alla fine anche morto. Rientrato invece a Venezia, doveva tuttavia restarvi per poco tempo dato che il re di Cipro lo volle quale ambasciatore di fiducia nei rapporti con l'Occidente. Un ennesimo duello, poi, gli aveva fatto perdere definitivamente la rendita ecclesiastica e con essa lo Zeno lasciò anche la veste talare per sposarsi.
Recatosi a Costantinopoli dove si dedicò con scarsa convinzione alla mercatura, Carlo Zeno dovette assistere alla detronizzazione dell'imperatore greco Giovanni V Paleologo che tenterà successivamente di liberare. Il generoso tentativo doveva tuttavia infrangersi contro le incertezze e le reticenze del vecchio imperatore.


Carlo Zeno il corsaro


 Da allora Carlo Zeno diventò un vero e proprio corsaro. Le navi prese di mira erano per lo più, naturalmente, quelle genovesi. Diventato successivamente capitano di Negroponte ed infine comandante d'armata. Carlo Zeno in quest'ultima veste, spostandosi con una straordinaria velocità, attaccava ogni nave o flotta genovese che incrociava nel Mediterraneo fino ad arrivare a  devastare Portovenere per ricomparire improvvisamente nelle acque di Cipro.  Atteso in Libano lo Zeno comparve invece nell'Adriatico, avuta probabilmente notizia di come si stavano mettendo le cose per Venezia. Una personalità eccentrica, eccessiva, impetuosa, quella dello Zeno, alla quale si univa tuttavia, una straordinaria abilità tattica e militare ed una competenza e intuizione eccezionali.
Tutto questo portava ai veneziani Carlo Zeno il 1°  gennaio del 1380 assieme alle sue 18 navi e ad un gran desiderio di rivincita. Dopo un breve consiglio di guerra Vittor Pisani, Carlo Zeno e lo stesso doge, facevano vela con le 18 galee verso Brondolo, il punto più fragile del blocco. Il 21 gennaio riconquistavano intanto Loreo mentre a Brondolo moriva il comandante genovese Pietro Doria colpito dalle granaiole veneziane.
Il nuovo comandante, Napoleone Grimaldi, eletto sul luogo, tentò disperatamente di riorganizzare le sue fila e di aprire un varco nell'accerchiamento imposto dai veneziani a Chioggia, scavando un canale attraverso il lido di Sottomarina ad est del porro assediato. Tutto inutile. Il 19 febbraio i veneziani riuscivano a riconquistare Brondolo e la stessa Sottomarina. Venezia aveva così recuperato inaspettatamente, tutta la linea dei Lidi.


Tutte le vite di Zeno pirata amatissimo


Fu in una notte di quelle convulse settimane fra gennaio e febbraio, che lo stesso Carlo Zeno venne gravemente ferito in uno scontro coi genovesi. La stagione invernale non era cerro la più favorevole per lo svolgimento delle operazioni belliche. Già una tempesta aveva messo in gravi difficoltà la flotta dello Zeno.
Fu un'altra bufera a spingere una notte le navi veneziane verso Brondolo, allora ancora in mano ai genovesi. Le vedette lanciarono presto l'allarme udendo le grida dei marinai veneziani sulle navi ormai completamente prive di controllo. Carlo Zeno da abile ed esperto uomo di mare, non si perse d'animo e riuscì attraverso un gioco di funi a salvare le sue navi minacciate da un lato dalla bufera dall'altro dalle secche della vicina laguna.
Era tutto impegnato nelle operazioni di salvataggio, quando improvvisamente una freccia nemica gli si conficcò nel collo. Lo Zeno barcollò e poi cadde sul fondo della sua galea sotto gli occhi atterriti dei suoi marinai che subito gli prestarono soccorso. La ferita, molto profonda, si mostrò immediatamente in tutta la sua gravità tanto che si chiese di portarlo urgentemente a Venezia chiamando nel contempo il prete per l'eventuale estrema unzione.
Di fronte a questa prospettiva lo Zeno si oppose con tutte quelle poche forze che ormai gli erano rimaste, dicendo che non aveva nessuna intenzione di tornare a Venezia e che se proprio doveva morire preferiva che ciò accadesse sulla sua nave e con vicino i suoi fedelissimi uomini. Il  suo desiderio naturalmente, venne rispettato, ma il destino si dimostrò ancora una volta assai benevolo con l'audace comandante che sarebbe infatti riuscito a cavarsela potendo così assistere e contribuire egli stesso al trionfo insperato della Serenissima.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI