di Francesco Lamendola
Il fatto che la riflessione sul senso, sul fine e sulla
dignità del lavoro umano sia così scarsa e lacunosa nel pensiero dei filosofi
moderni è la miglior testimonianza dell’obnubilamento che si è impossessato
della nostra civiltà e di quanto gli effimeri e pericolosi successi della
tecnica e l’aumento dei beni materiali (ma a vantaggio, ricordiamolo, solo di
una piccola parte dell’umanità) le abbiano fatto perdere di vista i valori che
contano e senza i quali non può esservi autentico progresso, ma solo crescita quantitativa,
disordinata e potenzialmente distruttiva.
Eppure, esistevano tutti gli elementi per rendersi conto di
quanto ci si stesse allontanando dalla giusta prospettiva; c’era di che
riflettere su come si stesse smarrendo il senso della dimensione umana, laddove
ci si limitava ad inseguire i miti ingannevoli di un progresso materiale fine a
se stesso, che rendeva – è vero – la vita più comoda sul piano materiale -
anche se, lo ripetiamo, per una parte soltanto del genere umano, e a detrimento
di tutte le altre specie viventi -, ma
che allontanava sempre di più l’uomo dal significato spirituale della sua
esistenza, lo alienava dal lavoro delle sue mani, lo imprigionava entro un
rigido meccanismo produttivo – e, da ultimo, speculativo – nel quale era destino
che finisse stritolato e fagocitato, ridotto a servitore cieco e obbediente di
leggi impersonali che lo avrebbero degradato a semplice strumento.
Questo pericolo avrebbe dovuto apparire chiaro allorché,
sulla scia dello sviluppo industriale del XX secolo, anche il mondo
dell’agricoltura è stato investito dalla ventata della modernizzazione e il
rapporto rispettoso, amorevole, quasi sacrale dell’uomo con la terra è stato
sostituito da un rapporto di predazione, di saccheggio, di sfruttamento cieco e
indiscriminato.
Giovanni Brotto, un parroco che è stato anche, per oltre
mezzo secolo (dal 1955 alla morte, avvenuta nel 2010), consigliere
ecclesiastico nella Coldiretti di Treviso, organismo che fin dal suo statuto si
ispira alla dottrina sociale della Chiesa, ha parlato del valore morale e
spirituale del lavoro agricolo in termini che si potrebbero estendere al lavoro
in quanto tale, purché si tratti di un lavoro a misura d’uomo e non di
sfruttamento o alienazione; e che potrebbero essere accettati e condivisi, in
gran parte, anche da chi non muove da una prospettiva specificamente cristiana,
ma crede nella dimensione spirituale della vita (da: G. Brotto, «Pensieri
sociali sulla vita e professione agricola», a cura della Federazione
Provinciale Coldiretti di Treviso, 1969, p. 21-24):
«L’attività agricola
esige: pazienza nelle difficoltà; costanza nella fatica;
solerzia nel trovare vie nuove; coraggio nell’affrontarle. Favorisce la
semplicità di vita: gesto, parola, tratto, spontaneità, limpidezza;
sviluppa i talenti della persona e la arricchisce moralmente. Ha un
contenuto di carità, di servizio sociale a favore della giustizia e della pace
nel mondo. La natura è occasione di ricreazione, di divertimento, di sviluppo,
di contemplazione. Pio XII: “La terra ha prodotto nei secoli una categoria di
persone sane di mente e di corpo”.
Le campagne, i “pagus”, si convertirono per ultime; ma
sono sempre le ultime a scristianizzarsi. La tradizione religiosa fu
sempre viva nel mondo rurale. Giovanni XXIII disse: L’attività agricola conserva l’integrità della vita religiosa,
costantemente e schiettamente vissuta.
La Bibbia si muove, quasi interamente, sullo sfondo di una
economia e artigiana. Sessanta “passi” del V. T. e 25 del N. T.
illustrano aspetti tecnici, sociali, liturgici, religioso-morali dell’attività
agricola. Il lavoro della terra è esecuzione di un comando di Dio. Realizza il
piano divino di estendere la redenzione anche alle cose che, con il lavoro,
vengono messe a disposizione e fatte servire alla utilità dell’uomo. È una
collaborazione alla crescita del mondo. La terra è richiamo alla bontà
delle cose. Esse sono un raggio della Bontà, Potenza, Sapienza divine. La
fatica del lavoro agricolo assolve a un compito purificatore. Ha valore di
merito. Si nobilita e libera mediante il progresso messo a servizio dell’uomo.
È un atto nobile, degno di rispetto, perché è attività di una persona
divinizzata, di un figlio di Dio. La terra, p richiamo mistico alla contemplazione, alla
preghiera.
Ha un valore sacramentale. Le cose vengono da Dio, sono per
noi; recano l’impronta di Cristo che nella umanità le ha consacrate. Sono segni
visibili di realtà invisibili, spirituali. Hanno un messaggio per noi: l’aratro
è immagine della croce; i solchi sono i cuori scavati dal dolore, il granaio è
il regno di Dio, l’acqua simboleggia la grazia, il fuoco l’amore, la luce la
verità, le tenebre il peccato, il sale la bontà, l’olivo la pace. Sotto le mani
di Cristo tutto si trasforma: l’acqua in vino a Cana, il vino in sangue nel
Cenacolo, il pane nel Corpo di Cristo. La terra solidarizza con l’uomo nel
premio o nel castigo, nella gioia o nel dolore. Con lui si esalta nella lode o
trema per siccità e disgrazia. È, il teatro della nostra vita e
santificazione. L’uomo lavora, ma è sempre “Dio il protagonista che dà
l’incremento”. Pio XII: “Alla luce della
fede, penetrando il senso religioso della creazione, si dà alla pietra una
basse solida e si restituisce alla vita rurale l’equilibrio cristiano che fece
a lungo la sua forza e stabilità”. Ecco perché nel mondo rurale la dimensione
religiosa è sempre molto viva. In sintesi, l’attività del coltivatore è una
professione completa perché sviluppa i valori materiali, tecnici, umani
(intellettuali, sociali, morali, spirituali). È quindi in grado di rispondere
alle esigenze della persona umana e di svilupparla. […] Non basta più un
giudizio di quantità sulle cose possedute o prodotte. L’agricoltura è attività
sulle cose vive e no, per trasformarle, moltiplicarle, distribuirle.
Perfeziona l’uomo che
quelle cose usa per vivere e crescere, perfeziona il lavoratore che su quelle
cose, complesse e delicate, esercita la sua intelligenza; perfeziona il
cittadino che, se riceve dagli altri, deve anche dare agli altri; perfeziona il
cristiano chiamato a fare la volontà divina dominando le cose, consacrandole,
purificandole, ridestinandole al bene di tutti, a contemplazione, a scala per
salire alle realtà invisibili…»
Ci sembrano concetti, ripetiamo, largamente condivisibili
anche da chi non muova da una specifica prospettiva di fede, ma abbia
sufficiente obiettività per riconoscere il valore formativo, spirituale e
morale del lavoro, di quello agricolo in modo particolare; solo l’accento posto
sul “dominio” da esercitare sopra le cose ci sembra una nota stonata (anche da
un punto di vista cristiano), perché non di dominio si dovrebbe parlare, ma di
uso legittimo e rispettoso di quanto la terra, madre amorevole, mette a
disposizione dei suoi figli.
Quando quelle parole venivano scritte, la sensibilità
ecologica, purtroppo, non si era ancora adeguatamente sviluppata ed era diffusa
l’idea, non solo nella cultura religiosa, ma anche – e soprattutto – in quella
laica, che l’uomo abbia il pieno diritto di disporre da padrone delle cose,
manipolandole a suo piacere; furono in pochissimi ad intuire che, da una tale
filosofia, non poteva derivare che un progressivo snaturamento del giusto
rapporto fra l’uomo e la terra, fra l’uomo e gli altri esseri viventi e, in
ultima analisi, anche dell’uomo nei confronti dei suoi simili e di se stesso,
in quanto anch’egli partecipe – almeno in parte – della realtà naturale.
In particolare, furono in pochi a rendersi conto che lo
sviluppo industriale, concepito come una forma “naturale” di dominio sulle
cose, avrebbe portato non solo ai disordini, alle contraddizioni e alle
laceranti devastazioni, materiali e morali, di un “progresso” basato unicamente
sull’aumento della produzione di fabbrica, ma anche allo stravolgimento della
stessa agricoltura e della filosofia di vita del contadino. Furono in
pochissimi a rendersi conto che, in un mondo ridotto a luogo di esclusiva
concorrenza economica e di competizione sociale esasperata, e quindi anche a
campo di battaglia dell’uomo contro la natura, il lavoro non sarebbe più stato
fonte di valori morali e spirituali, ma avrebbe condotto a un progressivo
inaridimento, a una progressiva alienazione, a una progressiva disumanizzazione
del lavoratore.
Eppure, i segni premonitori c’erano tutti. Non era poi così
difficile intuire che, una volta posta la massimizzazione del profitto al
centro dell’orizzonte del lavoratore, il contadino non si sarebbe fatto
scrupolo di trasformarsi in un nemico dichiarato della natura; che avrebbe
fatto ricorso a quantità sempre più massicce di prodotti chimici, avvelenando
la terra e i suoi prodotti, fino al punto da dover indossare un autentico
scafandro per poter vendemmiare senza intossicare gravemente il proprio
organismo; che avrebbe eliminato le siepi, dismesso le colture diversificate,
abbandonato i vigneti più malagevoli di collina, per concentrare tutte le sue
cure nella monocoltura intensiva, desacralizzando il rapporto con la terra e
riducendolo ad uno sfruttamento sistematico e brutale; che avrebbe trasformato
gli animali da fedeli collaboratori della sua fatica in schiavi da ingrassare,
da mungere e da far rendere sempre di più, imprigionandoli in stalle
“razionali” simili a luoghi di tortura, affidandoli alle macchine e riducendoli
essi stessi a delle macchine muggenti, belanti e chioccianti.
E quel che stava per accadere nell’agricoltura, non era che
lo specchio di quanto già si era verificato e continuava a verificarsi nel
mondo dell’industria, dell’artigianato, dei servizi, delle libere professioni.
Il lavoro si andava trasformando in un meccanismo puramente materiale, atto a
produrre dei profitti e a immettere sul mercato non cose utili e necessarie,
non cose belle e sane, fatte con amore e con virtù, ma cose sempre più inutili
e perfino dannose, sempre più ingombranti e disumane, le quali, un poco alla
volta, avrebbero trasformato il lavoratore in un automa senz’anima e degradato
il lavoro stesso a una fatica ingrata e molesta, a una faccenda sgradevole e
persino detestabile, a una prigione da maledire o a un non-senso da sopportare
senza ombra di gioia, di speranza, di bellezza, di spiritualità.
Fu errore colpevole il non averlo visto; ma fu errore di
tutti, a cominciare dagli uomini di cultura che, pure, avevano gli strumenti
per lanciare un grido d’allarme; per proseguire con i sindacalisti, che si
preoccuparono unicamente della giustizia sociale e disconobbero il valore
spirituale e la dignità fondamentale del lavoro in se stesso; per arrivare agli
economisti, agli amministratori pubblici e agli uomini politici, a null’altro
interessati che ai falsi miti del “progresso”, della “crescita”, dello
“sviluppo”, incapaci di avvedersi che, così facendo, contribuivano alla corsa
verso il precipizio.
E che non vi sia stato alcun serio ripensamento nemmeno in
seguito, quando i danni e le storture del modello adottato sono apparsi
evidenti e ci hanno portati in prossimità di una crisi ecologica planetaria e,
forse, irreversibile, lo dimostra il fatto che gli intellettuali (non osiamo
parlare di veri “uomini di cultura”, categoria forse estinta), i sindacalisti,
gli economisti, gli amministratori e i politici di oggi non hanno saputo fare
altro che proporre correzioni pressoché impercettibili alla direzione
catastrofica d’un tale sistema, parlando timidamente, e contraddittoriamente,
di “sviluppo sostenibile” e altre sciocchezze del genere: come se si potesse
conciliare il concetto di uno sviluppo materiale illimitato (e sottolineiamo i
due aggettivi, sempre sottesi, di “materiale” e “illimitato”) con l’idea della
sostenibilità, ossia di un modello economico, sociale e culturale che non
sia in guerra perpetua contro la natura, ma in armonia con essa, in
atteggiamento di rispetto verso di essa, capace di gratitudine e amore nei suoi
confronti.
Sì, la natura tutta aspira alla redenzione, come afferma San
Paolo in un celebre passo delle sue epistole; ma tale redenzione non si attua
per mezzo di uno sfruttamento illimitato da parte dell’uomo, bensì mediante una
pacifica, saggia e filiale collaborazione tra l’uomo e la terra, tra l’uomo e
l’aria, tra l’uomo e l’acqua, tra l’uomo e le altre creature viventi. Non si
tratta di convertirsi ad un naturalismo, perché non si vuol fare della natura
una realtà assoluta, auto-sussistente ed autonoma; ma di una forma di
spiritualismo che sappia vedere come l’uomo, che è parte della natura, anche se
parte evoluta e cosciente di essa, non possa né debba esercitare uno
sfruttamento selvaggio ed ingrato nei suoi confronti, ma debba porsi verso di
essa in un atteggiamento di meraviglia, di gratitudine, di ammirazione,
riconoscendo che essa gli è madre, anche se non è l’Essere dal quale ogni ente
deriva e nel quale ogni ente trova il proprio scopo e la propria ansia di
redenzione.
Perché l’uomo, a sua volta, non è una creatura
auto-sussistente ed orgogliosamente autonoma: è creatura e non signore, né delle
cose, né di se stesso; il suo atteggiamento verso il mondo non deve ridursi
alla mera e presuntuosa “curiositas” (singolare il fatto che «Curiosity» sia il
nome della sonda spaziale inviata recentemente sul pianeta Marte), ma deve
ispirarsi alla “virtus”, fatta di senso del limite, di senso del mistero, di
compassione e di amore verso tutte le cose, quelle che possono essergli utili e
anche quelle che, in apparenza, non gli servono o gli sono addirittura ostili.
Perché tutto ciò che esiste ha un significato; e, se è vero che l’uomo ha il
diritto di difendersi dalle minacce che gli vengono dalla natura (virus,
batteri, tumori), non per questo deve assumere le vesti del vendicatore o dello
sterminatore: la sua azione deve essere proporzionata, lungimirante,
consapevole. Non è ammissibile che egli, per combattere le zanzare, sconvolga
l’intero ecosistema di vaste regioni terrestri; né che egli, per sperimentare
nuovi farmaci, vivisezioni e torturi migliaia e milioni di altre creature
viventi – quando, poi, le malattie che intende debellare sono proprio il
risultato del suo modo arrogante e radicalmente sbagliato di porsi nei
confronti della natura.
Ma quel che sta accadendo oggi, era già inscritto nei
presupposti filosofici della modernità, fin dal suo sorgere: fin da quando la
terra è stata vista solo come fonte di guadagno e come occasione di
sfruttamento implacabile delle sue risorse, e fin da quando il lavoratore della
terra è stato deriso dal cittadino, dal mercante, dal “borghese”: ridotto a
zimbello di scrittori e intellettuali, a figura comica del teatro e della
letteratura; inoltre, fin da quando l’uomo ha voltato le spalle alla sua
condizione creaturale e ha preteso di ergersi a signore assoluto di un mondo
desacralizzato, divenuto soltanto un deposito da saccheggiare e una discarica
ove gettare i prodotti di rifiuto del suo “progresso”.
Non sappiamo se vi siano ancora i margini per rimediare a
tale sbaglio colossale, per invertire la direzione di marcia, per ricostruire
una giusta prospettiva spirituale, che restituisca valore, bellezza e dignità
alla natura ed al lavoro umano. Sappiamo però che è uno sforzo che va fatto: ne
va non soltanto della nostra sopravvivenza, ma anche della nostra anima.
Fonte: visto su Arianna Editrice del 15
luglio 2013