martedì 8 novembre 2011

Lettera al Presidente della Repubblica Napolitano: preferirei avere il diritto ad una pena di morte


Al Presidente della Repubblica
Onorevole Giorgio Napolitano

Noi ergastolani della Casa di Reclusione di Carinola (CE) ci rivolgiamo a Lei per rappresentarLe la condizione in cui siamo costretti a scontare le nostre pene da quando siamo stati privai di ogni beneficio penitenziario e della stessa liberazione condizionale.

Nei fatti, nei nostri confronti, l’articolo 27 della Costituzione repubblicano è stato sostituito con l’articolo 22 del codice della dittatura fascista: “La pena dell’ergastolo è perpetua”. Una sostituzione che ha riportato le carceri al loro linguaggio punitivo, la cui situazione è stata definita da Marco Pannella: “una riproposizione morale e istituzionale della Shoah”. E mai definizione fu più appropriata per descrivere la nostra attuale condizione, perché noi vediamo morire ogni giorno una parte di noi stessi, senza che per noi possa nascere una nuova possibilità.

Questa condizione fa sentire ognuno di noi come quei cadaveri dimenticati all’interno degli appartamenti, che alla lunga ammorbano di miasmi irrespirabili l’intero condominio, perché la mancanza di speranza di possibilità nuovo colpisce noi, ma ammorba anche la società del sentimento della pena vista come una vendetta.

Un sentimento che non è solo contrario al Diritto, ma è anche una negazione dello stesso. Una negazione che ci costringe a vivere privi di speranza, anche dopo che il nostro passato,  nelle nostre intimità, non potrebbe più fare parte del nostro futuro.

Questa condizione produce dentro di noi sofferenze destinate a durare un’intera vita, mentre quelle procurate dalla pena di morte durano solo il tempo dell’esecuzione. Ed è perché siamo coscienti di questo che, molti di noi, tra una fine spaventosa e uno spavento senza fine, come una pena che non finirà MAI, preferirebbero avere concesso il diritto ad una pena di morte, come facoltà cosciente, se non altro per liberare i propri affetti dal grave peso della propria condizione.

Signor Presidente, non serve dire a parole che la pena di morte nel nostro paese non esiste. Per noi c’è, ed uccise. Lentamente, ma ci uccide. Anche se non applicata in sentenza, viene applicata ogni giorno sostituendo il patibolo con l’ergastolo ostativo.  Viene applicata con certezza, una certezza contraria ai valori tanto sbandierati, ma poco praticati, della nostra Costituzione. Valori negati del tutto nei nostri confronti, da quella sorta di neorazzismo che ha fatto affermare l’idea che la Giustizia, il Diritto e la stessa Costituzione, quando riguardano noi, sono qualcosa di ben altro di ciò che appartiene alla nostra cultura. Dal momento che sul FINE PENA MAI, alle condizioni in cui lo scontiamo noi, si potrebbero usare tutti gli argomenti che si usano per l’eutanasia.

Un neorazzismo che ha prodotto nei nostri confronti differenziazioni di pene effettive da scontare, che nemmeno nelle più tetre dittature sarebbero tollerate.

Basti dire, infatti, che oggi per lo stesso reato – omicidio – e la stessa condanna scritta in sentenza – ergastolo – noi siamo esclusi da ogni beneficio e dalla stessa liberazione condizionale, che era stata introdotta prima dei benefici.  Mentre chi non sottostà alle esclusioni previste dall’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario, dopo dieci anni di pena scontata, se lo merita, può cominciare a godere delle misure alternative al carcere, e dopo 26 finire di scontare l’ergastolo. Una differenziazione che non ha niente a che fare con la lotta al crimine, né con la sicurezza attuale dei cittadini; valori che non si garantiscono negando la speranza  a chi avrebbe sbagliato in epoche lontane, e avrebbe dato prova di avere riflettuto sul male fatto agli altri, ai propri affetti, e a se stesso.

Quando ce lo meritiamo, non serve negarci ogni speranza. Servirebbe, invece una nuova via che possa portarci a farci carico del futuro che è  nelle nostre speranze, assumendocene precise responsabilità. Solo così ognuno di noi avremmo modo di “PENSARE E PESARE” sul proprio futuro. “Un pensiero e un peso” che ci farebbe sentire “Patria” la legge, che ci darebbe la possibilità di avere donata ancora un po’ di vita, anche in base ai nostri propositi futuri. Non sarebbe astratto e nemmeno folle pensare di farci partecipare al futuro che è nelle nostre speranze, attraverso anche la verifica di nostri propositi e non in base alle attuali burocrazie demenziali che non forniscono mai elementi reali su di noi. Una verifica che ci darebbe la possibilità di ridiventare amici della comunità cui apparteniamo e non continuare ad esserne un peso.

Ma per poter ridiventare amici e collaboratori della comunità servirebbe una prospettiva della pena che non sia vista solo come castigo, ma come un Diritto, il Diritto di potere mettere a frutto ciò che ognuno di noi sente di essere diventato dopo decenni di sofferenze e privazioni affettive. Dopo il rifiuto di quelle regole di vita che ci avevano impedito di stare in contatto con le nostre vere identità, speriamo di poter sottostare a un diritto equo e uguale per tutti, che ci consenta di sperare nel futuro.

Senza questa speranza perdiamo definitivamente ogni ragione per desiderare di continuare a vivere.

Tanto volevamo rappresentarLe, auspicando che ci giunga da Lei una parola di speranza.

Gli ergastolani della Casa di Reclusione di Carinola
15 dicembre 2010
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Fonte: Le urla dal silenzio

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