martedì 31 maggio 2011

Si digitalizza il tesoro della biblioteca di Santa Caterina (Sinai)

Manoscritti

Antichi manoscritti entrano a far parte dell’era digitale con l’aiuto del figlio di un beduino, custode dei cammelli.
Si chiama Hemeid Sobhy, il giovane di 23 anni, nativo di un villaggio beduino nel Sinai, che da sei mesi aiuta il monaco ortodosso americano padre Justin, responsabile di un ambizioso progetto consistente nel fotografare la collezione di 3,300 manoscritti in 11 lingue nell’antico monastero di Santa Caterina. Per età e importanza, questa collezione è seconda a livello mondiale solo a quella del Vaticano. La fotografia permetterà di mettere a disposizione degli studiosi di tutto il mondo tutto questo materiale.

Hemeid, laureato in ragioneria, economica, gestione e informatica, lavora ora in una tenda coperta di plastica trasparente, adattata ad ufficio. Per preservare l’ambiente dalla polvere è stata dotata di un sistema di filtraggio dell’aria. A sua disposizione ha un computer, una macchina fotografica digitale, due flash, un treppiedi e una custodia di metallo per conservare al sicuro i fragili manoscritti mentre si scattano le foto.

Padre Justin, nato in una famiglia battista che pubblicava libri religiosi, nei suoi studi alla University of Texas fu affascinato dalla storia bizantina e così decise di entrare a far parte della Chiesa Greca ortodossa. Divenuto membro di un monastero in Brookline, ebbe il compito di curare i progetti di pubblicazione. Oggi oltre alla responsabilità di custodire la collezione di Santa Caterina, padre Justin ha il compito di accompagnare i manoscritti nelle rare occasioni in cui escono dal monastero. Lui stesso è molto richiesto come relatore. Il progetto è stato avviato anche grazie a consistenti contributi offerti da alcuni enti: la Saint Catherine Foundation di Londra, nata per aiutare la biblioteca, ha donato 10,000 $, The Flora Family Foundation di Menlo Park, California, 150,000 $, l’editore italiano Mondadori ha contributo con 35,000 $.

La collezione comprende più di 1,8 milioni di pagine, senza includere la scoperta dei frammenti rinvenuti nel 1975 denominati New Finds. I manoscritti, molti dei quali sono ornati con foglie d’oro e colori da sembrare gioielli, risalgono anche al sesto secolo d.C. Contengono prevalentemente testi delle Scritture, della liturgia e sermoni. Non mancano preziose testimonianze di scritti di letteratura classica greca e di ricette mediche.

Il monastero greco ortodosso di Santa Caterina si trova in un luogo isolato ai piedi di una ripida montagna in territorio musulmano nel deserto del Sinai. Forse è proprio per questo che il monastero, con la sua collezione di manoscritti e icone bizantine, si è custodito nel corso dei secoli. Fu l’imperatore Giustiniano a far costruire il monastero nel sesto secolo e a inviarvi 200 famiglie da Alessandria e dalla costa settentrionale dell’Anatolia per garantirne il sostentamento. Oggi sono i loro discendenti, la tribù mussulmana di Jebeliya, a fornire il personale al monastero.

Padre Justin è dell’opinione che, riuscire a fotografare l’intera collezione, non rappresenta un "traguardo realistico", cioè corrispondente alle reali esigenze. In realtà, come avviene per qualsiasi altra collezione, il 90% degli utenti è interessato al 10% del materiale, e riuscire a fotografarne questa percentuale è un "traguardo ragionevole".
Adattamento: R.P.

Fonte: Suzanne Muchnic, Los Angeles Times (5-2-2007)
Fonte: da SBF Taccuino (Studio Biblico Francescano - Custodia Terra Santa  Gerusalemme) del 14 febbraio 2007

lunedì 30 maggio 2011

ETICA VEGETARINA: RAGIONI ETICO-FILOSOFICHE PER UNA PRATICA DI ALIMENTAZIONE E VITA VEGETARIANA


Nonostante l’esempio della grande tradizione filosofica antica, in gran parte vegetariana secondo il primo luminoso modello di Pitagora, la filosofia moderna è stata piuttosto reticente, e in genere conformista o indifferente, sul tema della rilevanza morale degli animali non umani e, in particolare, sulle ragioni del vegetarismo etico; si è lasciata infatti guidare, per lo più, dal feroce e acritico dualismo cartesiano.

Solo recentemente ha cominciato ad emergere la consapevolezza che anche a questi animali vadano riconosciuti “diritti”: innanzitutto, il diritto a condurre una vita degna di essere vissuta.

Tenendo presente la terribile realtà di quelle “catene di smontaggio” che sono gli allevamenti intensivi e i mattatoi, ma anche i dubbi e la repellenza suscitati dalla sperimentazione animale e dalla vivisezione, la questione animale si pone oggi nei termini di una grave emergenza etica.

Inoltre, l’enorme espansione degli allevamenti resa necessaria dalla dieta carnea forsennatamente praticata in tutto il mondo ricco sta producendo effetti disastrosi anche sull’ambiente: un vero e proprio “ecocidio”, come spiega Jeremy Rifkin, per cui questa pratica appare immorale e ingiusta non soltanto verso gli animali non umani, ma anche verso quelli umani, cioè anche in termini economici si rivela irrazionale.

Anche solo per questi motivi, il titolo della presente relazione andrebbe rovesciato, perché a dover fornire una giustificazione della propria forma di vita dovrebbe essere il carnivoro, e non il vegetariano.

Ma l’uomo, come si sa, è un legno storto, quindi assumiamo pure che l’onere della prova tocchi al vegetariano, cui si presentano subito due questioni.

La prima si riferisce al modo d’intendere questa pratica di vita: essa va intesa come atto supererogatorio, cioè come una scelta possibile accanto ad altre forme ugualmente accettabili benché diverse, o come azione doverosa?

E in questo secondo caso, andrebbe intesa come un dovere vincolante solo moralmente o in termini di normativa giuridica?

La seconda questione si riferisce invece al tipo di etica alla quale ci si dovrebbe riferire, perché l’uomo vive oggi nel pluralismo etico.

A seconda di come si risponde a queste due questioni, si hanno forme diverse di vegetarismo.

Iniziamo dicendo, innanzitutto, che l’alimentazione umana presenta due aspetti che la caratterizzano e differenziano: essa non risponde solo a un bisogno fisiologico-biologico, ma anche a una prospettiva culturale.

Anzi, è un fatto sempre più culturale: vi è nel cibo, anche, un contenuto simbolico sempre culturalmente condizionato, al punto che si può parlare di un vero e proprio linguaggio dell’alimentazione.

Per questo motivo, è falso dire che “l’uomo è ciò che mangia”, essendo vero il contrario: l’uomo decide di mangiare in relazione a ciò che è o ritiene (per lo più inconsciamente) di essere.

Si pensi al significato cultuale del cibo, presente in tutte le religioni, al valore del pasto in comune, del cibo festivo, del digiuno, dei tabù alimentari ecc.; in particolare, è degno di nota il fatto che per lo più il digiuno è stato inteso come astensione dalle carni.

Si può dire, quindi, che il vegetarismo è una forma o pratica di vita in cui si esprime una concezione della vita in senso intellettuale, emotivo e spirituale.

Così è stato, in effetti, per una lunga tradizione, orientale e occidentale, in cui peraltro la filosofia stessa era intesa non soltanto come indagine razionale ed elaborazione concettuale, ma anche appunto come pratica di vita.

In questa tradizione, il vegetarismo era inteso però come una pratica di vita il cui significato non era negativo, non si configurava cioè come atteggiamento di rinuncia, sacrificio, repressione, privazione, penitenza e punizione.

Aveva, al contrario, un essenziale significato positivo: era inteso come una forma di metanoia e cioè di radicale cambiamento, volto a realizzare il nuovo inizio di una elevazione a un superiore livello spirituale.

Era inteso, al pari dell’allenamento di un atleta, come una disciplina volta a favorire l’esperienza spirituale, secondo un percorso di libertà e liberazione da condizionamenti esterni e interni.

Veniva dunque vissuto come una esperienza di autonomia, perché si trattava di un percorso scelto per se stesso, per il suo valore intrinseco, e non come reazione a sollecitazioni eteronome, a ragioni di “forza maggiore”.

Il vegetarismo era insomma una scelta attiva, e non reattiva, un punto di vista inteso come ciò a partire da cui valutare la realtà e non come risultato di un confronto con questa realtà, come reazione a uno stato delle cose ritenuto inaccettabile: secondo la celebre metafora usata da Nietzsche, si potrebbe dire che la scelta vegetariana era espressione di una “morale dei signori”.

In questo senso è giusto definire il vegetarismo una forma di non violenza, in senso attivo, e non di non-violenza, cioè in senso reattivo.

Oggi, al contrario, la scelta vegetariana sembra spesso più simile a quella delle correnti rigoriste che pure esistevano in quella tradizione, secondo cui prevale nettamente l’aspetto negativo, sotto forma di rinuncia normativa e coercitiva: diventa simile alla “morale del gregge” o “degli schiavi”, se frutto di un movimento reattivo e non attivo.

Poiché dunque una concezione della vita si fonda sulla libertà, non può venire imposta: può essere l’oggetto di un dovere morale autonomo, e non di un obbligo normativo eteronomo, di una imposizione per legge.

Si riferisce a un dover essere che non implica necessariamente un dover fare, ma per il principio di libertà e non per il debole argomento che viene solitamente avanzato, ossia perché l’uomo, se vuole vivere, deve nutrirsi di altri esseri viventi, vegetali o animali.

In termini religiosi, il dovere morale di non cibarsi di animali andrebbe inteso come un “consiglio evangelico”, valido cioè per chi aspiri alla perfezione, ma in realtà si tratta di applicare in modo rigoroso il passaggio inevitabile dall’essere al dover essere.

Nella realtà, infatti, l’alimentazione carnea implica (di fatto e non di diritto, ma le cose, appunto, stanno così) la perpetuazione di condizioni di vita e di morte, per le vittime animali, del tutto incompatibili con i principi morali che si dovrebbero adottare verso tutti i viventi, quindi la scelta vegetariana, oggi, non può essere più soltanto una semplice via di perfezione spirituale (come anticamente presso il pitagorismo, il jainismo, il neoplatonismo, il primitivo monachesimo cristiano, ecc.), ma un dovere che s’impone se si vuole evitare una sofferenza moralmente intollerabile, cioè incompatibile col principio di giustizia.

Questo ci porta alla seconda questione: posto che si tratti di un obbligo moralmente vincolante, si tratta di vedere quale tipo di etica sia il più adeguato, perché oggi noi viviamo in un contesto di pluralismo anche dal punto di vista delle teorie morali.

Si può infatti ricorrere, per esempio e in relazione al tema che ci interessa, a un paradigma etico fondato sull’utilitarismo, sul giusnaturalismo, sul concetto di benevolenza e compassione, ma il modello più adeguato, a mio avviso, è quello che si fonda sul principio di responsabilità e di rispetto.

Soltanto su questa base, infatti, è possibile confutare, in modo convincente, gli aspetti più degenerativi dei due atteggiamenti decisivi che stanno alla base dello sfruttamento animale, cioè l’antropocentrismo e lo specismo, secondo cui l’animale non umano ha rilevanza morale solo in rapporto a interessi, bisogni e desideri dell’animale umano, ha cioè solo un valore strumentale.

Nella sua forma più benevola, questo atteggiamento consente d’intendere gli animali non umani come “destinatari di doveri” da parte dell’uomo, e non come “titolari” di veri e propri “diritti”.

Oppure, come titolari di diritti indiretti (cioè in funzione degli interessi umani) e non diretti, che appartengono soltanto agli esseri aventi valore intrinseco, in sé, inerente.

 Qui, la lezione di Kant è stata decisiva: soltanto la persona umana è un “fine” in sé, titolare di veri “diritti” e degna di “rispetto”.

In effetti, l’animale può essere soltanto un “paziente” e non un “agente” morale perché, a differenza dell’uomo, non si può considerare né moralmente né giuridicamente “responsabile” di ciò che fa.

Si tratta però di non contrapporre le due nozioni come se si escludessero a vicenda, mentre possono benissimo e anzi devono stare insieme: l’attuale spietata strumentalizzazione dell’animale può cessare solo se si perviene a considerarlo, contemporaneamente, titolare di diritti (alcuni: non possiamo attribuirgli, per esempio, il diritto di votare) in quanto “soggetto di una vita”, secondo la felice definizione di Tom Regan, e destinatario di doveri da parte dell’uomo.

Sono titolari, appunto, come pazienti e non come agenti morali.

Si tratta, in altri termini, di coltivare un antropocentrismo etico e non ontologico, in cui la superiorità dell’uomo sia determinata dalla sua capacità di responsabilità e rispetto, e non dal suo mero essere, da una sua presunta natura.

In realtà, se proprio si vuole usare il termine “natura”, l’uomo sembra piuttosto un animale inferiore, essendo caratterizzato, come afferma Nietzsche in un celebre aforisma di “Al di là dl bene e del male”, da una carenza fondamentale: si può definire infatti come “l’animale non stabilizzato” che si determina in virtù della sua cultura e quindi, sempre, in modo provvisorio.

Ma l’uomo è anche l’animale più potente, che può correggere le tentazioni dispotiche della ragione calcolante solo ricorrendo alla regola d’oro, che impone di non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a se stessi.

La questione di fondo, perciò, consiste nello stabilire quale forma di antropocentrismo s’intende adottare, come guida di una pratica di vita logicamente coerente ed eticamente giusta.

La nozione di “giustizia interspecifica”, infatti, diventa decisiva, cioè va assunta come guida e filo conduttore sia nel porre le domande rilevanti sia nel trovare le conseguenti risposte più convincenti, alla luce del principio responsabilità che caratterizza propriamente l’umano.

Con la formula prima citata, si potrebbe dire che si tratta di rovesciare il detto comune secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”: in realtà, “l’uomo decide di mangiare in relazione a ciò che, di volta in volta, diviene”.

E poiché ciò accade, per lo più, inconsciamente, si tratta di elevare alla consapevolezza critica la risoluzione per una pratica di vita che decide la forma d’essere di altri viventi e senzienti: le ragioni per una pratica di vita vegetarista sono etiche, prima e più che nutrizionistiche, poiché l’etica del rispetto precede e fonda un eventuale codice dietetico.

Si tratta di coltivare un più ampio e adeguato umanesimo e non, certo, quel presunto anti-umanesimo che assurdamente viene spesso attribuito alle pratiche di vita che sono mosse dal rispetto per i viventi.

In sintesi, possiamo dire che l’etica più adeguata a rendere ragione della scelta vegetariana è l’etica fondata sul principio responsabilità, sviluppata nell’omonima e famosa opera di Hans Jonas.

In base a questo principio, si possono tuttavia elaborare tre modelli sensibilmente diversi tra loro.

La doverosità morale della scelta vegetariana, infatti, si può reggere su tre motivazioni:

1. non si deve mangiare carne perché questo implica necessariamente, per l’animale, una serie di sofferenze che si possono mitigare ma non eliminare del tutto, e l’animale ha il diritto di non soffrire;

2. non si deve mangiare carne indipendentemente da questo motivo, cioè anche se si potesse eliminare del tutto la sofferenza dell’animale, perché si dovrebbe pur sempre ucciderlo, ma questo non è giusto, perché l’animale ha diritto alla vita;

3. l’assuefazione alla violenza esercitata sugli animali provoca una propensione anche alla violenza contro gli uomini, perciò non si deve mangiare carne perché questo alimenta una cultura della violenza; il vegetarismo è un aspetto essenziale della non violenza.

Si tratta, come si vede, di un’etica della responsabilità e del rispetto cui si possono dare motivazioni diverse, perché diverso è l’apprezzamento della rilevanza morale dell’animale: nel primo caso tale rilevanza si fonda sulla capacità di soffrire, nel secondo sul valore in sé della vita, nel terzo
sull’interesse umano a diminuire il tasso generale di violenza.

Come conclusione, possiamo allora tentare di rispondere alla inevitabile e decisiva domanda circa l’aspetto pratico: a seguito di queste considerazioni, che cosa fare?

E, in particolare, che cosa dovrebbe fare un medico?
 La risposta non è certo facile, anche perché l’uomo è, come dice Kant, un legno storto che non si può raddrizzare perfettamente, e anche se riconosce la bontà degli argomenti portati a favore di una pratica di vita vegetariana, è pronto a non seguire la propria ragione:
video meliora proboque sed deteriora sequor,
secondo l’antico motto sempre attuale.

 Naturalmente, non è pensabile che il medico vesta i panni del filosofo morale, però può almeno sollecitare il paziente a riflettere sul significato della sua pratica di vita alimentare, può sollevare cioè la questione di una corretta etica alimentare, ossia la questione di un’alimentazione eticamente responsabile.

Può dire, infatti, che se un tempo la vita era forse pensabile come avventura, oggi va disciplinata secondo il principio responsabilità.

Quindi, anche le scelte alimentari vanno risolte non come questioni di “tradizione” condivisa o di “gusto” soggettivo, ma come oggetto di una riflessione etica guidata dai principi di responsabilità e di giustizia interspecifica. In questo modo, certo, non si possono esibire facili certezze e, anzi, si sollevano dubbi e perplessità, ma sollevare domande in questo caso è più importante che fornire univoche e acritiche risposte.

Cosa rispondere, per esempio, al paziente che pone la domanda forse più rilevante: cosa fare per alimentarsi nel modo più “naturale”, cioè nel modo più confacente alla natura dell’uomo?

La classica idea di “seguire la natura” sembra chiara e ovvia, ma non lo è per nulla.

Infatti, a parte il fatto che il dovere di seguire la natura andrebbe dimostrato, in realtà l’uomo è l’unico animale privo di natura, o la cui natura consiste nella sua cultura: in esso, come dice Sartre, “l’esistenza precede l’essenza”.

Ciò vuol dire che l’uomo costruisce incessantemente la sua natura, e tale costruzione costituisce, appunto, la sua dimensione etica.

E oggi, come si diceva, l’etica più adeguata è quella che si fonda sul principio responsabilità.

Tornando, da questa prospettiva, al tema del “che fare”, possiamo dire che il medico dovrebbe tener presenti, oltre naturalmente le norme della sua deontologia, alcuni principi fondamentali che possono giustificare non soltanto la legittimità culturale, ma anche la superiorità etica della pratica di vita vegetariana.

Questi princìpi sorgono come risposte alla domanda fondamentale: che cosa fa veramente un individuo, esplicitamente e consapevolmente oppure implicitamente e inconsciamente, quando mangia animali?

Da ciò risulta chiaro che il vegetarismo viene inteso come un dovere morale/spirituale e non come obbligo normativo; anche se oggi vi sono motivi esterni molto forti per imporre anche sanzioni (gli orrori degli allevamenti e dei mattatoi industriali), deve prevalere la motivazione interna, libera e autonoma.

Per brevità, ma anche per sottolineare il loro carattere aperto e non dogmatico, è opportuno esporre questi princìpi in forma aforistica:

- Non si può fondare la propria vita sulla morte di altri esseri viventi, se è possibile evitarla senza danni per la propria salute.

- Poiché ogni essere vivente è un soggetto di vita dotato di valore inerente, un interesse non fondamentale dell’uomo non può esigere, per la propria soddisfazione, il sacrificio di un interesse fondamentale, come quello alla vita, di un animale.

- Una pratica di vita vegetariana contribuisce in modo decisivo alla drastica diminuzione delle sofferenze che gli animali sono ingiustamente costretti a subire.

- Nelle proprie scelte si deve tener presente che tutti gli animali, umani e non umani, sono soggetti di una vita che hanno valore in sé, quindi non si possono trattare come “risorse rinnovabili”.

- Ogni soggetto di una vita ha il diritto a non venire torturato, quindi non si deve contribuire alla “produzione” di carne che oggi, data la sua forma industriale, è luogo di atroci torture, tanto più moralmente intollerabili quanto più sono legali.

- La “produzione industriale” di carne è anche un assurdo economico, per i costi che implica sul piano della salute e dell’inquinamento: gli allevamenti di bestiame sottraggono spazio ai terreni per l’alimentazione umana e inquinano molto più delle automobili.

- Quando si uccide un uomo si uccide un individuo determinato, che ha nome e cognome.

Quando si uccide un animale, invece, si crede di uccidere soltanto un essere di genere neutro privo di nome proprio, mera esemplificazione di una specie.

In realtà, si uccide sempre un individuo che ha un proprio mondo e una propria storia: come, per esempio, si uccide Pietro e non un generico “uomo”, così si uccide Valentina e non “una” mucca.

E allora si deve tener presente che non si mangia solo “della carne”, cioè una cosa, ma anche “un corpo” e cioè la parte di un individuo.

- Praticare una dieta carnivora implica sempre l’approvazione di una violenza.  Chi lo fa dovrebbe essere disposto a uccidere lui stesso la vittima di cui si alimenta, e dovrebbe anche essere disposto a mangiare, dopo averlo ucciso con le sue proprie mani, il proprio animale d’affezione: il proprio cane, gatto, canarino… La vita della mucca uccisa da altri non vale meno della vita del mio cane. Si tratta di evitare la schizofrenia etica: proteggere cani e gatti ma uccidere mucche, galline e maiali.

- La schizofrenia etica è dovuta anche all’analfabetismo emotivo: la ragione approva gli argomenti razionali del vegetarismo, ma si continua a uccidere e mangiare corpi di animali perché non si sente ciò che è distante e non si considerano gli argomenti emotivi  (compassione, simpatia, repulsione…).

- Pare che l’angoscia, la disperazione e l’ira impotente che provano gli animali condotti al macello riempiano il loro corpo di tossine, che vengono poi assimilate da chi si ciba del loro corpo.  Il regime alimentare carneo è un regime tossico e diffonde tossicità.

- Attualmente, il corpo dell’animale di cui ci si ciba proviene da un sistema di allevamento e di uccisione (la orrenda e spietata “filiera” del feroce e ottuso linguaggio tecnico della ragione calcolante) molto peggiore del passato, perché lo considera come cosa, merce, oggetto, ingranaggio di una macchina produttiva: senza la minima traccia di mediazioni simboliche e riparazioni rituali, con le quali un tempo le società arcaiche potevano mitigare ma non cancellare il senso di colpa.

- Oggi, chi mangia carne si ciba di corpi al servizio del mercato globale: corpi reificati, privatizzati, neutri, macchinizzati, mercificati, brevettati, bestializzati: ingranaggi di una macchina produttiva che distrugge l’anima e toglie, a chi già per natura non ha voce, “mondo” e “storia”.  Chi mangia corpi, nella finzione che siano carne, perpetua il “ciclo maledetto” della separazione radicale tra umanità e animalità.

- Gli animali non sono pura “natura”, perché hanno “mondo” e “storia”. Per questo motivo sono stati sempre considerati, in un passato non lontano ma già dimenticato, importanti operatori simbolici.  Oggi non più, ma possiamo e dobbiamo riconoscerli almeno come soggetti di una vita. E la vita esige rispetto.

- Non si tratta di togliere i confini tra uomini e animali, ma di spingere lo sguardo etico al di là dell’umano senza cancellare questi confini.

- Per una dietetica ecologica, si dovrebbe non solo assumere il cibo che assicuri il massimo di nutrimento con il minimo di alimenti (l’optimum, non il maximum), ma anche “eliminare”, come dice Peter Singer, “lo specismo dalle nostre abitudini alimentari”.

- Si deve riflettere sul significato di “mucca pazza”: la ragione tecnica/strumentale/calcolante in funzione soltanto economica messa in crisi e contraddetta dai suoi stessi effetti.

- Posto che vi siano differenze tra l’animale uomo e gli animali non umani, la superiorità del primo non gli dà il diritto di uccidere i secondi se non lo minacciano, ma piuttosto il dovere di rispettare la loro vita, perché la superiorità intellettuale non può implicare la irresponsabilità morale.  Poiché l’animale ha un interesse a vivere, l’uomo ha il dovere di proteggere questo interesse.

- La dieta carnea è solo una consuetudine storica, non una necessità naturale; è quindi legittimo supporre, e non solo augurare, che nei prossimi secoli, come dice Rifkin, “i nostri pronipoti saranno sconcertati e perplessi nell’apprendere che i loro antenati consumavano carne di altri esseri viventi” e lo considereranno “un barbaro passato”.




Bibliografia


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Fonte:  da srs di Italo Sciuto

domenica 29 maggio 2011

CAVALLI SCALZI: LA FERRATURA È UN MALE

I Mustang, i leggendari cavalli scalzi degli Indiani d'America

Un po' di storia

Da quando venne addomesticato, circa 6000 anni fa, il cavallo è stato adoperato dall'uomo, per la maggior parte di questo tempo, senza ferri.
Markus Junkehnann, nel terzo volume della sua opera "Die Reiter Roms" (I Cavalieri di Roma) scrive: Le miglia di miglia percorse dalle cavallerie degli Sciti, dei Persiani, dei Macedoni e dei Cartaginesi durante le loro campagne militari (basti pensare alle battaglie di Alessandro Magno) dimostrano che la cavalleria, anche senza ferri, è capace di grandi imprese.

L'antichità greco-romana ignora l'uso del ferro inchiodato al piede. L'ipposandalo, tenuto al piede da lacci, ha funzione protettiva nei casi di lesioni agli zoccoli ed è da considerarsi come uno strumento della veterinaria di uso limitato a scopi terapeutici. Non permetteva al cavallo altra andatura se non il passo.

Le dimensioni dell'arena del Circo sulla quale i cavalli correvano era di circa 650x220 metri. La "spina", che la divideva in senso longitudinale, separando le due piste, era lunga 233 metri. Le iniziali dieci corse, che venivano disputate ad ogni riunione, divennero 24 con Caligola e passarono da 30 a 48 sotto i Flavi. Ogni corsa comprendeva sette giri. Ciò significa che nel migliore dei casi i cavalli percorrevano una distanza di 3.200 metri. Questa, peraltro, è una ipotesi di perfezione impossibile da attuarsi. In realtà un buon auriga riusciva a percorrere una distanza che si avvicinava ai 4.500 metri. Un auriga meno bravo, costretto sempre all'esterno della pista, percorreva anche 6.000 metri.

Le più importanti corse in piano moderne si svolgono su distanze che variano dai 2000 metri del Kentucky Derby ai 3.200 metri della Melbourne Cup. Siamo ben lontani, quindi, dalle distanze sulle quali erano costretti a correre i cavalli in epoca romana. Le corse moderne, inoltre, si svolgono su un fondo migliore.

E' chiaro che per partecipare a queste corse i cavalli allora, come oggi, dovevano essere preparati e allenati. Venivano sottoposti, perciò, a un notevole uso e logorio.

Pelagonio (IV secolo d.C.), nella sua Ars Veterinaria, dedica diversi capitoli alle cure delle varie patologie e lesioni dei cavalli, specialmente di quelli adoperati nelle corse. Parla di spalla, di gambe, di schiena, di strappi muscolari, di garretti e di tendiniti. Di problemi dei piedi non dice nulla, a meno che, come nel capitolo XV°, non parli delle cure necessarie a un piede (zoccolo) che è stato lesionato da una ruota.

Ciò dimostra che il problema dei piedi di per sé non era un problema.

E' chiaro che un piede forte e resistente è caratteristica fondamentale di un buon cavallo, sia esso destinato alle corse che alla guerra o al trasporto.
Senofonte suggerisce il metodo per mantenere solidi i piedi dei cavalli e così fa anche Columella, ma né loro né altri scrittori come Catone o Varrone, che trattano del cavallo, sembrano essere preoccupati dalla fragilità come caratteristica del piede.

La grandissima popolarità della quale godevano in tutto l'impero le corse nel Circo giustifica la quantità di ippodromi non solo costruiti a Roma, che da sola ne contava cinque, ma ad Antiochia, ad Alessandria, a Cesarea, a Bisanzio, in Nord Africa, in Spagna e in Portogallo. Il solo Nord Africa contava più di due dozzine di circhi. In Spagna e in Portogallo ce n'erano 21.

Una iscrizione della metà del secondo secolo d.C. (ILS, 5287) riassume la carriera dell'auriga Diocle, che, nell'arco di 24 anni, accumulò 1.462 vittorie su 4.257 corse. Dei vari cavalli che adoperò nove ne fece vincitori di cento corse ciascuno e uno di duecento. Un suo contemporaneo, Aulus Teres, ha elencato 42 cavalli vincitori sulle mura dell'Adrianeo (Castel Sant'Angelo). Ci dice pure che ha portato due cavalli, Callidromos e Hilarus, rispettivamente a 100 e a 1000 vittorie.

Pelagonio scrive che i migliori cavalli partecipavano ancora alle corse a 20 anni di età (Ars Vet. I).

Oltre a questo uso "sportivo" del cavallo, c'era, naturalmente , l'utilizzo ben maggiore che se ne faceva in guerra e nel lavoro dei campi. Le gesta della cavalleria romana o persiana o sassanide, numidica ecc. dovrebbero essere note, almeno per sentito dire, anche a chi è meno colto. E' inutile soffermarcisi in questo momento.
E' utile, invece, ricordare il Cursus Publicus , cioè il servizio di corrieri istituito da Augusto, che si svolgeva su una rete stradale estesasi a 85.000 chilometri al tempo di Diocleziano. A distanze stabilite erano collocate le "poste" per il cambio dei cavalli. Erano di due tipi: le mansiones, distanziate tra loro da 32 a 48 chilometri, che offrivano cavalli freschi e pernottamento e le mutationes, distanziate tra loro da 12 a 20 chilometri, che servivano solo per il cambio dei cavalli.

La nostra arroganza occidentale ci fa spesso dimenticare le altre grandi civiltà che fanno parte della storia dell'uomo, come quella della Cina, che ha fatto anch'essa grandissimo uso del cavallo nella sua evoluzione storica. E' alla Cina, infatti, che si devono tre delle più importanti invenzioni di carattere equestre: la staffa, il pettorale e il collare.
Il sistema di bardatura cinese fu il primo a utilizzare la forza del cavallo senza ostacolarne la respirazione, grazie al collare rigido che poggiava sulle spalle dell'animale e permise lo sviluppo di veicoli a stanghe trainati da cavalli di gran lunga più progrediti ed efficienti di quelli occidentali. Ci vollero, infatti, molti secoli prima che il sistema di bardatura a pettorale e collare rigido arrivasse in Europa. L'invenzione della staffa fu altrettanto importante: per la prima volta il cavaliere aveva un appoggio sicuro per combattere. Dai ritrovamenti archeologici risulta che le prime staffe erano in uso in Cina intorno al 322 d.C. In occidente la staffa non è in uso prima del VII° secolo. La civiltà cinese, come quella del mondo occidentale antico, non sente la necessità di "inventare" la ferratura.

Sembra quasi di udire il rimbombo della terra percossa dagli zoccoli sferrati di milioni e milioni di cavalli che per migliaia di anni hanno trasportato l'uomo in guerra, in caccia, in gare, in giochi, e quant'altro.
Se l'utilizzo del cavallo fosse stato così condizionato da un piede soggetto a facile logorio, come oggi una mentalità ignorante e conservatrice vorrebbe far credere, è veramente strano che il mondo antico non abbia cercato la soluzione di un così grave problema.
La verità è che il problema non c'era e il piede del cavallo non presentava altro cruccio oltre a quello di una normale, periodica cura e manutenzione.

Quando nell'Alto Medioevo il ferro chiodato fu introdotto, la sua adozione avvenne con estrema lentezza, il che dimostra che non fu visto come l'invenzione da tutti attesa o la panacea dei problemi dei piedi dei cavalli.
Venne dapprima applicato ai piedi dei cavalli dei "cavalieri" e solo a quelli che "il signore" adoperava in guerra.
L'utilità del ferro, si fa per dire,  stava nel fatto che i chiodi, che lo reggevano al piede del cavallo da battaglia, venivano fatti sporgere  in fuori, nella parte anteriore dello zoccolo, come dei rostri, creando così ulteriori danni al nemico investito.
Ne conseguì un sistematico deterioramento del piede in tutta l'Europa feudale.

Un'altra teoria sostiene che la scoperta della cavalleria come grande forza d'urto grazie all'uso della staffa, che permetteva appoggio e stabilità in sella, fu causa di una grande richiesta di cavalli.
La grande produzione fu fatta a scapito della selezione e si dovettero usare cavalli con difetti morfologici, che probabilmente l'antichità avrebbe scartato, ai quali i fabbri medievali cercarono di porre rimedio.
Non c'è alcuna prova, inoltre, che vi siano stati allevamenti selettivi per il mercato "cavalleresco" prima del 1341.

Sta di fatto che i cavalli dei nobili furono i primi ad essere ferrati e non è difficile capire come, nel tempo, questa usanza, per scimmiottamento, sia diventata una moda, che nessuno si è preso la briga di contestare fino al diciannovesimo secolo.
Nel 1829, infatti, il dottor Bracy Clark, considerato come una delle maggiori autorità di tutti i tempi nel campo della cura del piede del cavallo (vedi ciò che scrive di lui il dottor Doug Butler, una colonna della scienza veterinaria moderna, nella sua opera Principles of Horseshoing) scrisse:

Per oltre mille anni l'attuale pratica di ferrare i cavalli è stata seguita senza che la gente si rendesse conto che in essa potesse esservi qualcosa di sbagliato e di dannoso, anche se correttamente eseguita. Sebbene incidenti e inequivocabili manifestazioni di sofferenza l'accompagnassero di continuo e fossero ben visibili agli occhi di chiunque, nessuno volle correre il rischio di riflettere su un argomento che appariva così astruso. Se qualcuno si azzardava a farlo si esponeva a dissenso e insolenze. I danni che da essa derivano sono sempre stati ignorati o negati e si è cercato di vincerli in ogni modo tranne che in quello giusto e naturale: quello, cioè, di rimuovere la causa. La quale causa è stata ugualmente incompresa sia dai più semplici che dai più istruiti. (Clark, Bracy: Podophtora. Demonstration of a Pernicious Defect in the Principle of the Common shoe. Royal Veterinary College Library, London, 1829, p.2)


Effetti della ferratura sul meccanismo del piede

In Germania la ricerca scientifica ha accertato che il ferro inchiodato al piede del cavallo, tra i tanti mali che provoca, limita il meccanismo del piede a tal punto da essere causa di un vero e proprio danno.

Quando il meccanismo del piede è in condizioni naturali e non ristrettive tutto il piede si allarga dalla punta ai talloni, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, che limita tale espansione ai talloni e alla forchetta.
Preuschoff, dell'Università di Bochum, in Germania, ha fatto una dimostrazione sperimentale mostrando le deformazioni alle quali è soggetta l'intera capsula del piede ogni volta che la parte concava dello zoccolo si appiattisce. Per questo motivo la dottoressa Strasser e altri ricercatori tedeschi, parimenti all'americano Jaime Jackson, descrivono il piede del cavallo come un cono "modificato" le cui pareti e la cui base (la suola) si flettono sia verso l'esterno che verso l'interno. In altre parole, il meccanismo del piede ha un procedimento tridimensionale. Detto in maniera più semplice: il piede del cavallo, in situazione naturale, si allarga tutto ogni volta che viene poggiato a terra e si restringe quando è tenuto sollevato.

Come il ferro ostacola il meccanismo del piede.

Il ferro viene inchiodato al piede quando questo è sollevato da terra, cioè quando questo è in fase "contratta". Quando viene messo l'ultimo chiodo, generalmente vicino al punto più largo del piede, cioè al quarto, e spesso anche più indietro, la parete dello zoccolo rimane bloccata nella sua fase di contrazione dal chiodo che la fissa al ferro. I chiodi, perciò, impediscono al piede la sua naturale espansione.

Molti maniscalchi contesteranno queste affermazioni asserendo che il logoramento sui rami del ferro prova che l'espansione del piede è in funzione.
Vengono, però, smentiti dalla dottoressa Strasser, che, in un convegno tenutosi a Vienna presso la Clinica Veterinaria Universitaria per l'Ortopedia del Piede, esibendo immagini di piedi ferrati ingrandite al computer, ha detto:
Le tracce di logoramento che si trovano sulla parte posteriore dei ferri (che erroneamente inducono a credere che solo la parte posteriore della muraglia, quella dopo l'ultimo chiodo, si muove sotto la spinta del peso) non è una prova di come si muove il piede naturalmente, ma piuttosto che il piede ferrato non si muove in modo normale. (Strasser, Lifetime of Soundness, p.91).

Ciò è condiviso da Jaime Jackson, il quale aggiunge che il logorio del ferro è dovuto principalmente ai due agenti che su di lui influiscono: la forza della pressione del peso del cavallo e la resistenza del terreno sottostante, che lo premono da sopra e da sotto con l'effetto sandwich, come se fosse, cioè, l'imbottitura di un panino.

Non sono solo i chiodi, però, i colpevoli dei danni che subisce il meccanismo del piede. Ne sono responsabili anche le barbette del ferro, le traverse e altri "corredi" vari. In sintesi, l'effetto della ferratura sul meccanismo del piede è quello di ostacolarlo.

Molti cavalli, regolarmente e periodicamente ferrati, vanno avanti per degli anni prima che una serie di dolori rendano visibile la loro sofferenza. Tali dolori, in genere, vengono attribuiti all'età.

La presenza del ferro impedisce un consumo naturale dell'unghia e conseguentemente lo zoccolo non può diventare spesso e duro come la natura vorrebbe.
La suola, alla quale il ferro impedisce il contatto con il terreno, perde la naturale sensibilità che acquisterebbe da tale contatto e, quindi, il cavallo perde la sensazione percettiva del terreno sul quale si muove. La suola, inoltre, perde o non acquisisce affatto, la callosità che la protegge dalle pressioni. Anche ferrata, diventa vulnerabile alle sobbattiture.

Ostacolando il funzionamento del meccanismo del piede e impedendo un normale contatto di questo con il terreno, il ferro indebolisce l'unghia e apre la strada alle infezioni e alle deformazioni del piede. Ne impedisce, inoltre, l'azione ammortizzatrice (il che è causa di lesioni alla struttura ossea e alle giunture dell'arto) e la normale circolazione sanguigna. Indebolisce la struttura naturale dello zoccolo e le sue difese naturali contro malattie e lesioni.

Liberare il piede del cavallo dallo stampo metallico nel quale questa usanza medievale lo ha rinchiuso e conseguentemente dalla "logica" del maniscalco è facile: basta togliere i ferri.

Attenzione, però. Il lavoro di pareggio del piede sferrato e la cura periodica è un compito che richiede tecnica e deve essere fatto da qualcuno che vi sia preparato. Se il piede destinato a restare sferrato viene pareggiato secondo i principi della moderna mascalcia, si rischia di causare un disastro. Non c'è nulla in comune tra la mascalcia e la cura naturale del piede.

Bisogna, inoltre, avere coraggio. La decisione di togliere i ferri, infatti, espone alla critica e addirittura alla derisione di un conservatorismo becero e ignorante, del quale non si deve tener conto, che imperversa nelle scuderie e tra i "sèdicenti" uomini di cavalli.

Mi piace ricordare che un convinto sostenitore del cavallo sferrato fu Carlo Defendente Pogliaga, uno dei grandi dell'equitazione italiana. Spesso, incontrandomi sul campo di qualche competizione, mi faceva sollevare il piede del mio cavallo e, radunata un po' di gente intorno, diceva:"Guardate il piede di questo cavallo senza ferro. Andate poi a vedere i piedi dei vostri cavalli ferrati e rendetevi conto della differenza."

Sono trent'anni, ormai, che tengo i miei cavalli senza ferri. Li ho adoperati in tutte le discipline dell'equitazione e non ho mai avuto problemi. Quasi tutti sono nati da me e non hanno mai portato i ferri; ma ce n'è qualcuno che ho "salvato" o dalle corse o da altre situazioni, che mi è arrivato con i ferri, naturalmente con piedi disastrati, al quale li ho tolti e così ha potuto riacquistare un piede sano, naturale e proporzionato. Ecco alcune dimostrazioni di miei cavalli che sono senza ferri, lavorano ogni giorno in maneggio, trascorrono solo la notte nel box e il resto del tempo sono tenuti al prato. Vanno anche in passeggiata percorrendo terreni di ogni tipo e lunghi tratti sull'asfalto. Ciò nonostante l'unghia non si consuma sufficientemente e il pareggio è necessario in media ogni 15-20 giorni.


Fonte: srs di di Carlo Faillace

sabato 28 maggio 2011

CIAMPI, L’EROE DEL CAMBIO PATACCA


Uno poteva pensare: finalmente ci siamo tolti un peso dallo stomaco. Niente affatto, il mal di pancia è sempre in agguato e ci costa lunghe sedute al bagno. E fra i personaggi che maggiormente ci danno questi disturbi, c’è certamente l’esimio ex capo dello Stato, Ciampi.
L’ex governatore di Bankitalia più che per il suo passaggio al Colle è ricordato per essere l’artefice, assieme a Prodi, dell’entrata nell’euro.
Da allora i sogni della maggioranza della classe lavoratrice e di tante generazioni di giovani sono finiti sotto una valanga che si chiama mercato unico e sfruttamento.

Grazie agli artefici di quel cambio nefasto di un euro equivalente alle vecchie 2000 lire le nostre famiglie debbono fare i salti mortali per arrivare alla fine del mese.
E c’è ancora qualcuno che ci parla bene di Ciampi e di Prodi, per non parlare di quell’altro essere spregevole che si chiama Oscar Luigi Scalfaro.

Prima con circa 2 milioni di stipendio era quasi un benestante, adesso con 1000 euro sei un pezzente, senza quasi. E ancora c’è qualcuno che ci parla bene di Ciampi e Prodi…
A proposito ne parliamo perché questo trombone si è fatto di nuovo sentire in merito alla disputa sui ministeri all’interno della maggioranza. “Spostare i ministeri -dice l’esimio- significherebbe dare un colpo all’Unità d’Italia. E per Roma sarebbe una botta tremenda, un disastro”.

Ora, avvalorare la tesi che spostando un ministero si mina l’unità del Paese è davvero troppo. La nostra contrarietà nasce solo dal fatto che passi del genere portano solo una crescita di costi aggiuntivi che le casse dello Stato nazionale, almeno in questo frangenti di grave crisi economica, non si possono permettere. Senza contare il fatto che poi portano ad un aumento del pendolarismo ed anche a nuove forme di licenziamento politicamente corretto dei dipendenti pubblici. Oltretutto questo federalismo poco ci piace perché non fa altro che indebolire ulteriormente il peso dell’Italia nello scacchiere internazionale.

La predica dell’esimio scivola nella solita retorica del Paese che soffre per l’assenza di veri governanti privi di valori di riferimento e che vivono alla giornata, senza principi e senza ideali. Oltreché privi di “un’etica privata e pubblica”. Non è che ce lo debba dire Ciampi. Son cose che notiamo da tempo. Ma questo grazie a quelli come l’ex Bankitalia che fanno il gioco delle multinazionali e della grande finanza che specula e fa grandi profitti grazie al mercato unico. C’è il fallimento di Berlusconi ma c’è anche quello alternativo di D’Alema e Prodi e dei loro amichetti Ciampi, Scalfaro e Draghi.
Ma ci rendiamo conto che il modello Zapatero è crollato?; ma ci rendiamo conto che il modello Blair è finito da un pezzo?; ma ci rendiamo conto che il modello Obama sta imbarcando acqua?    

Però questa idea di Bossi sullo spostamento di alcuni dicasteri al nord come al sud non ci sembra una scelta azzeccata. Servirebbe solo ad aggravare i problemi del Paese.
Basta con queste insulse proposte che non fanno altro che indebolire il peso del nostro Paese.
 E basta ad osannare questi padri dell’euro che hanno messo in ginocchio la Grecia e stanno piegando il Portogallo, la Spagna e l’Italia. 

Che ognuno torni alla propria moneta, privando questi pescecani della finanza e delle multinazionali del loro naturale liquido: il mercato unico.

Fonte: srs di di  Michele Mendolicchio, da  Rinascita del  25 maggio 2011-05-27


venerdì 27 maggio 2011

NAZISMO E DIRITTI DEGLI ANIMALI: LEGGI NAZIONALSOCIALISTE SUGLI ANIMALI E SULLA NATURA - GERMANIA 1933



Il 24 novembre 1933 il cancelliere Adolf Hitler firmò la "Legge sulla protezione degli animali", Tierschutgesetz.
Il testo ufficiale fu pubblicato nel Reichgesetzblatt, Gazzetta Ufficiale del Reich, n. 132 del 25 novembre 1933, alle pagine 987-989.


Legge sulla protezione degli animali
(24 novembre 1933)
Il governo ha deciso la seguente legge, che qui viene resa nota:

Sezione I
Crudeltà contro gli animali

§ 1

(1) E' proibito tormentare o maltrattare rudemente un animale senza necessità.
(2) Si tormenta un animale quando gli si causano ripetutamente o continuamente sensibili sofferenze o dolori.

Il tormento non è necessario quando non serve ad un proposito razionale giustificabile.

Si maltratta un animale quando gli si causa sensibile dolore; il maltrattamento è rude quando è connesso con uno insensibile stato della mente.

Sezione II
Misure per la protezione degli animali

§ 2
E' proibito:
1. trascurare un animale di cui si è proprietari, trattarlo o dargli una sistemazione che gli provochi sensibile dolore o sensibile danno;
2. utilizzare non necessariamente un animale per ciò che chiaramente eccede le sue capacità o gli provoca sensibile dolore, o che, a causa delle sue condizioni, non è in grado di fare;
3. utilizzare un animale per mostre, film, spettacoli, o altri pubblici eventi, in tutti i casi in cui questi eventi provochino all'animale sensibile dolore o sensibile danno alla salute;
4. utilizzare un animale debole, ammalato, sovraffaticato o vecchio, per il quale l'ulteriore vita sia un tormento, per ogni altro proposito che non sia quello di causargli o procurargli una morte rapida e senza dolore;
5. abbandonare un animale domestico per liberarsi di lui;
6. sviluppare o provare il potere dei cani sui gatti, sulle volpi e sugli altri animali;
7. tagliare le orecchie o la coda di un cane più vecchio di due settimane, questo è permesso se è fatto con anestesia;
8. tagliare la coda di un cavallo, questo è permesso se è per rimediare a un difetto o malattia della coda ed è fatto da un veterinario e sotto anestesia;
9. eseguire una operazione dolorosa su di un animale in modo non professionale o senza anestesia, se l'anestesia in casi particolari è impossibile l'operazione deve essere eseguita in accordo con le regole veterinarie;
10. uccidere un animale in un allevamento di pellicce a meno che non si usi l'anestesia ed in ogni caso senza dolore;
11. alimentare forzatamente il pollame;
12. strappare o tagliare le cosce delle rane vive.

§ 3
L'importazione di cavalli con le code accorciate è proibita. Il Ministro dell'Interno può fare eccezioni se speciali circostanze lo richiedano.

§ 4
L'uso temporaneo di animali ungulati per il trasporto nelle miniere è consentito solo con il permesso delle autorità responsabili.


Sezione III
Esperimenti sugli animali vivi

§ 5
E' proibito operare o trattare animali vivi in modo che possa essere provocato sensibile dolore o danno a scopo sperimentale, a meno che non sia diversamente stabilito dai paragrafi da 6 a 8.

§ 6
(1) Il Ministro dell'Interno può, su proposta del responsabile governativo o delle locali autorità, conferire permessi a laboratori e istituti scientifici di condurre esperimenti su animali vivi, quando il direttore dell'esperimento ha sufficiente conoscenza professionale e affidabilità, sono disponibili adeguate strutture per eseguire gli esperimenti sugli animali, ed esistono garanzie per la cura e il sostentamento degli animali durante l'esperimento.
(2) Il Ministro dell'Interno può delegare la concessione del permesso ad altri alti ufficiali del governo.
(3) Il permesso può essere revocato senza compenso in qualsiasi momento.

§ 7
Nel condurre gli esperimenti sugli animali (§ 5), devono essere osservate le seguenti condizioni:
1. Gli esperimenti possono essere effettuati solo sotto la completa autorità del direttore scientifico o del rappresentante che è stato incaricato dal direttore scientifico.
2. Gli esperimenti possono essere effettuati solo da chi ha ricevuto precedentemente una formazione scientifica o sotto la direzione di una tale persona, ed ogni dolore deve essere evitato per quanto compatibile con l'obiettivo dell'esperimento.
3. Gli esperimenti di ricerca possono essere effettuati solo quando si aspetta un risultato specifico che non sia stato confermato precedentemente dalla scienza o se gli esperimenti possono aiutare a rispondere a problemi ancora non risolti.
4. Gli esperimenti possono essere condotti solo sotto anestesia, a meno che il direttore scientifico non escluda categoricamente l'anestesia o se il dolore connesso con l'operazione sia superato dal danno alle condizioni dell'animale come risultato dell'anestesia.
Non più di una difficile operazione o doloroso ma non sanguinoso esperimento può essere fatto su di un animale non anestetizzato.
Gli animali che soffrono sensibile dolore dopo il completamento di un difficile esperimento, specialmente a seguito di una operazione, devono essere immediatamente messi a morte, dopo il giudizio del direttore scientifico, compatibilmente con l'obiettivo dell'esperimento.
5. Gli esperimenti sui cavalli, i cani, i gatti, le scimmie possono essere effettuati solo quando l'obiettivo non possa essere raggiunto su altri animali.
6. Non possono essere utilizzati più animali di quanto necessario per risolvere la questione esaminata.
7. Gli esperimenti animali a scopo pedagogico sono permessi solo quando altri strumenti come disegni, modelli, tassonomie e film non siano sufficienti.
8. Devono essere effettuate registrazioni sulla specie di animali usati, il proposito, la procedura e il risultato dell'esperimento.

§ 8
Esperimenti sugli animali a scopi giudiziari come le vaccinazioni e l'estrazione di sangue da animali vivi allo scopo di diagnosticare malattie di persone o di animali, o per ottenere siero o vaccini secondo le procedure che sono già state testate o sono riconosciute dallo Stato, non sono soggetti alle disposizioni dei paragrafi da 5 a 7. Questi animali, tuttavia, devono essere uccisi senza dolore se soffrono sensibile dolore e se è compatibile con gli obiettivi dell'esperimento.


Sezione IV
Provvedimenti per le pene

§ 9
(1) Chiunque non necessariamente tormenti o maltratti rudemente un animale sarà punito con la prigione fino a due anni, con una ammenda o con entrambe le pene.
(2) Chiunque, a parte il caso di cui in (1), conduca un esperimento su animali vivi (§ 5) senza il richiesto permesso, sarà punito con la prigione fino a sei mesi, con un'ammenda o con entrambe le pene.
(3) Una ammenda fino a cinquecentomila marchi o l'imprigionamento, a parte la punizione comminata in (1) e (2), sarà la pena per chiunque intenzionalmente o con negligenza:
1. viola le proibizioni da § 2 a § 4;
2. agisce contro quanto previsto a § 7;
3. viola le linee guida emanate dal Ministero dell'Interno o dal governo provinciale secondo quanto stabilito in § 14;
4. trascura di prevenire che i bambini o altre persone che sono sotto il suo controllo o appartengono alla sua casa violino i provvedimenti di questa legge.

§ 10
(1) In aggiunta alle pene di cui a § 9 per una violazione intenzionale della legge, un animale appartenente al condannato può essere confiscato o ucciso. Invece della confisca si può ordinare che l'animale sia accolto e nutrito fino a nove mesi a spese del reo.
(2) Se nessuna persona può essere identificata o condannata, la confisca o l'uccisione dell'animale può essere effettuata in ogni caso quando gli altri prerequisiti sono presenti.

§ 11
(1) Se qualcuno è ripetutamente colpevole di violazione intenzionale delle norme che sono punibili secondo il § 9 le locali autorità responsabili possono proibire che la persona tenga certi animali o sia coinvolto nel loro commercio per uno specificato periodo di tempo o permanentemente.
(2) Dopo un anno dall'imposizione della pena le autorità locali responsabili possono revocare il provvedimento.
(3) Un animale soggetto a sensibile negligenza nell'alimentazione, cura e mantenimento può essere sottratto al proprietario dalle autorità locali responsabili e risistemato altrove finché sia garantito che l'animale sarà curato in modo superiore ad ogni biasimo. Il costo di questa sistemazione sarà pagato dal reo.

§ 12
Se in un processo giudiziale appare incerto se un atto viola le proibizioni di cui a § 1, (1) o (2), dovrà essere convocato quanto prima nel processo un veterinario e, per quanto concerne un'azienda agricola, sarà sentito un ufficiale dell'agricoltura del governo.


Sezione V
Conclusione

§ 13
L'anestesia, come è intesa in questa legge, significa tutte le procedure che portano ad assenza generalizzata di dolore o eliminano un dolore localizzato.

§ 14
Il Ministro dell'Interno può emettere decreti giudiziari e amministrativi per il completamento e il rafforzamento di questa legge. Se il Ministro dell'Interno non utilizza questo potere, i governi locali possono emettere i necessari decreti per l'attuazione della legge.

§15
Questa legge diviene obbligatoria il 1° febbraio 1934, ad eccezione di § 2, (8) e § 2, (11) per cui il Ministro dell'Interno deve verificare il tempo di attuazione sentito il parere del Ministro dell'Alimentazione e dell'Agricoltura.
Le norme § 1456 e § 360, (13) della legge 30 maggio 1908 rimangono invariate.

Berlino, 24 novembre 1933
Firmato:
Adolf Hitler
Cancelliere


PROIBIZIONE DELLA VIVISEZIONE IN PRUSSIA 
(DA: DIE WEISSE FAHNE 14, 1933, PAGINE 710-711)

Proibita in Prussia la vivisezione!

La Nuova Germania guida tutte le nazioni nell'area della protezione degli animali!
Il famoso nazionalsocialista Graf E. Reventkow ha pubblicato nel Reichswart, periodico ufficiale della "Unione dei patrioti europei", l'articolo "Protezione e diritti degli animali".
Il Socialismo Nazionale, egli scrive, ha per la prima volta in Germania cominciato a mostrare ai tedeschi l'importanza dei doveri verso gli animali.
Molti tedeschi sono stati cresciuti con l'idea che gli animali sono stati creati da Dio per l'uso e il beneficio dell'uomo.
La Chiesa ha ripreso questa idea dalla tradizione giudaica.
Noi abbiamo incontrato non pochi chierici che difendono questa posizione con assoluta fermezza e vigore, si potrebbe dire quasi brutalmente.
Di solito essi difendono la loro posizione con il fermo intento di approfondire ed allargare l'abisso tra l'uomo che ha l'anima e gli animali senza anima (come fanno a sapere questo?) ...
L'amico degli animali riconosce l'esistenza inesprimibile di una mutua comprensione tra gli uomini e gli animali e sa che dei sentimenti di solidarietà possono essere sviluppati.
Ci sono molti amici degli animali in Germania, e molti che non possono accettare la tortura degli animali al di là delle semplici ragioni umanitarie.
In generale, tuttavia, noi ci troviamo ancora in un deserto di insensibilità e di brutalità, fino al sadismo.
Molto ancora deve esser fatto e noi vogliamo occuparci prima di tutto della vivisezione, per la quale le parole "vergogna culturale" non sono sufficienti; infatti deve essere vista come una attività criminale.
Graf Reventkow presenta numerosi esempi dei crimini della vivisezione degli animali e afferma alla fine, citando le ferme posizioni antivivisezioniste di Adolf Hitler, che una volta per tutte abbia termine questo sfruttamento degli animali.
Noi tedeschi amici degli animali e antivivisezionisti abbiamo posto le nostre speranze nel cancelliere del Reich e nei suoi camerati, che, noi sappiamo, sono amici degli animali.
La nostra fiducia non è stata tradita! La Nuova Germania testimonia di essere portatrice di una nuova, più alta, più raffinata cultura: la vivisezione, la vergogna culturale dell'intero mondo civilizzato, contro cui i migliori in tutti gli Stati hanno combattuto invano per decadi, sarà bandita nella Nuova Germania!
Una legge del Reich per la protezione degli animali che include l'interdizione della vivisezione è imminente e giunge notizia, per la gioia di tutti gli amici degli animali, che il grande Stato tedesco della Prussia ha cancellato la vivisezione senza alcuna eccezione.
Un comunicato stampa di NSDAP informa che:
"Il presidente e ministro della Prussia Göring ha emesso una dichiarazione che stabilisce, a partire dal 16 agosto 1933, che la vivisezione degli animali di qualsiasi tipo è proibita in Prussia. Egli ha richiesto che i ministri competenti preparino una legge per cui la vivisezione sia punita con una pena grave (*). Finché la legge non andrà in vigore, le persone che, contrariamente a questa proibizione, ordinino, partecipino od eseguano vivisezioni sugli animali di qualsiasi tipo saranno deportati nei campi di concentramento".
Tra le nazioni civilizzate, la Germania è la prima che pone fine alla vergogna culturale della vivisezione! La Nuova Germania non solo libera l'uomo dalla maledizione del materialismo, del sadismo e del bolscevismo culturale, ma dà agli animali, finora crudelmente perseguitati, torturati e senza difesa, i loro diritti!
Gli amici degli animali e gli antivivisezionisti di tutti gli Stati accolgono con gioia questa iniziativa del governo Nazionale Socialista della Nuova Germania!
Ciò che il cancelliere del Reich Adolf Hitler e il presidente-ministro Göring hanno fatto e continueranno a fare per la protezione degli animali segnerà il cammino di tutte le nazioni civilizzate!
Ciò porterà alla Nuova Germania innumerevoli nuovi entusiasti amici in tutte le nazioni.
Milioni di amici degli animali e antivivisezionisti di tutte le nazioni civilizzate ringraziano con tutto il cuore i due capi per questa testimonianza esemplare di civiltà!
Budda, il grande spirito dell'Oriente, dice: "Colui che ama con il cuore gli animali, sarà protetto dal cielo".

Possa questa benedizione proteggere fino alla fine i capi della Nuova Germania, che hanno fatto grandi cose per gli animali.
Possa la mano benedicente del fato proteggere questi portatori del Nuovo Spirito, finché la loro missione, diretta dal cuore, sia compiuta!
R. O. Schmidt
(*) Nel frattempo abbiamo appreso che una simile interdizione è stata proclamata in Baviera. Le leggi formali sono imminenti, grazie alla energica iniziativa del cancelliere dei nostri popoli Adolf Hitler, per il quale tutti gli amici degli animali del mondo avranno per sempre gratitudine, amore e fedeltà.


Fonte: Maat

giovedì 26 maggio 2011

Preghiera del cane


Ho letto qualcosa sul giornale di oggi che il mio umano mi ha mostrato,
e voglio parlartene.

Trattami gentilmente,
mio adorato padrone,
perché nessun cuore
in tutto il mondo
è più riconoscente
per la gentilezza
del mio cuore
pieno d'amore.


Non umiliarmi bastonandomi,
perché sebbene
io leccherei la tua mano
durante i colpi,
la tua pazienza e comprensione
mi insegneranno
più rapidamente
le cose che vuoi.


Parlami spesso, .
perché la tua voce
è la musica più dolce del mondo,
come tu puoi capire
dal mio selvaggio scodinzolare,
quando le mie orecchie in attesa
sentono i tuoi passi.


Quando fa freddo e piove,
per favore tienimi in casa,
perché  io
ora sono un animale addomesticato,
non più abituato alle intemperie.


Ed io non chiedo maggior gloria
che il privilegio
di sedere ai tuoi piedi
accanto al focolare.


Anche se non avessi una casa,
io ti seguirei
attraverso il ghiaccio e la neve
piuttosto che riposare
sul più soffice guanciale,
nella più calda casa del mondo,
perché tu sei il mio Dio
ed io il tuo devoto adoratore.

Lasciami la ciotola piena
di acqua fresca,
perché,
 anche se io non ti rimprovererei
se è asciutta,
io non posso dirti
quando soffro lo sete.

Dammi cibo sano,
così posso stare bene,
per giocare chiassosamente
e ubbidire ai tuoi comandi,
camminare al tuo fianco,
ed essere pronto e capace
di proteggerti con lo mia vita
se lo tua fosse in pericolo.

E,  adorato padrone,
se il Grande Padrone volesse
privarmi  della salute o della vista,
non mandarmi via da te.

Piuttosto tienimi gentilmente
tra le tue braccia
in modo che le tue mani esperte
mi concedano
il pietoso favore
dell'eterno riposo
e io ti lascerò
sapendo col mio ultimo respiro
che la mia sorte
è stata sempre sicurissima
nelle tue mani.


Fonte: da un manifesto per la Festa patronale,
 benedizione degli animali,  
domenica  21  settembre  2008,   
Parrocchia Santa  Maria Addolorata ( Verona)