Nonostante l’esempio della grande tradizione filosofica antica, in gran parte vegetariana secondo il primo luminoso modello di Pitagora, la filosofia moderna è stata piuttosto reticente, e in genere conformista o indifferente, sul tema della rilevanza morale degli animali non umani e, in particolare, sulle ragioni del vegetarismo etico; si è lasciata infatti guidare, per lo più, dal feroce e acritico dualismo cartesiano.
Solo recentemente ha cominciato ad emergere la consapevolezza che anche a questi animali vadano riconosciuti “diritti”: innanzitutto, il diritto a condurre una vita degna di essere vissuta.
Tenendo presente la terribile realtà di quelle “catene di smontaggio” che sono gli allevamenti intensivi e i mattatoi, ma anche i dubbi e la repellenza suscitati dalla sperimentazione animale e dalla vivisezione, la questione animale si pone oggi nei termini di una grave emergenza etica.
Inoltre, l’enorme espansione degli allevamenti resa necessaria dalla dieta carnea forsennatamente praticata in tutto il mondo ricco sta producendo effetti disastrosi anche sull’ambiente: un vero e proprio “ecocidio”, come spiega Jeremy Rifkin, per cui questa pratica appare immorale e ingiusta non soltanto verso gli animali non umani, ma anche verso quelli umani, cioè anche in termini economici si rivela irrazionale.
Anche solo per questi motivi, il titolo della presente relazione andrebbe rovesciato, perché a dover fornire una giustificazione della propria forma di vita dovrebbe essere il carnivoro, e non il vegetariano.
Ma l’uomo, come si sa, è un legno storto, quindi assumiamo pure che l’onere della prova tocchi al vegetariano, cui si presentano subito due questioni.
La prima si riferisce al modo d’intendere questa pratica di vita: essa va intesa come atto supererogatorio, cioè come una scelta possibile accanto ad altre forme ugualmente accettabili benché diverse, o come azione doverosa?
E in questo secondo caso, andrebbe intesa come un dovere vincolante solo moralmente o in termini di normativa giuridica?
La seconda questione si riferisce invece al tipo di etica alla quale ci si dovrebbe riferire, perché l’uomo vive oggi nel pluralismo etico.
A seconda di come si risponde a queste due questioni, si hanno forme diverse di vegetarismo.
Iniziamo dicendo, innanzitutto, che l’alimentazione umana presenta due aspetti che la caratterizzano e differenziano: essa non risponde solo a un bisogno fisiologico-biologico, ma anche a una prospettiva culturale.
Anzi, è un fatto sempre più culturale: vi è nel cibo, anche, un contenuto simbolico sempre culturalmente condizionato, al punto che si può parlare di un vero e proprio linguaggio dell’alimentazione.
Per questo motivo, è falso dire che “l’uomo è ciò che mangia”, essendo vero il contrario: l’uomo decide di mangiare in relazione a ciò che è o ritiene (per lo più inconsciamente) di essere.
Si pensi al significato cultuale del cibo, presente in tutte le religioni, al valore del pasto in comune, del cibo festivo, del digiuno, dei tabù alimentari ecc.; in particolare, è degno di nota il fatto che per lo più il digiuno è stato inteso come astensione dalle carni.
Si può dire, quindi, che il vegetarismo è una forma o pratica di vita in cui si esprime una concezione della vita in senso intellettuale, emotivo e spirituale.
Così è stato, in effetti, per una lunga tradizione, orientale e occidentale, in cui peraltro la filosofia stessa era intesa non soltanto come indagine razionale ed elaborazione concettuale, ma anche appunto come pratica di vita.
In questa tradizione, il vegetarismo era inteso però come una pratica di vita il cui significato non era negativo, non si configurava cioè come atteggiamento di rinuncia, sacrificio, repressione, privazione, penitenza e punizione.
Aveva, al contrario, un essenziale significato positivo: era inteso come una forma di metanoia e cioè di radicale cambiamento, volto a realizzare il nuovo inizio di una elevazione a un superiore livello spirituale.
Era inteso, al pari dell’allenamento di un atleta, come una disciplina volta a favorire l’esperienza spirituale, secondo un percorso di libertà e liberazione da condizionamenti esterni e interni.
Veniva dunque vissuto come una esperienza di autonomia, perché si trattava di un percorso scelto per se stesso, per il suo valore intrinseco, e non come reazione a sollecitazioni eteronome, a ragioni di “forza maggiore”.
Il vegetarismo era insomma una scelta attiva, e non reattiva, un punto di vista inteso come ciò a partire da cui valutare la realtà e non come risultato di un confronto con questa realtà, come reazione a uno stato delle cose ritenuto inaccettabile: secondo la celebre metafora usata da Nietzsche, si potrebbe dire che la scelta vegetariana era espressione di una “morale dei signori”.
In questo senso è giusto definire il vegetarismo una forma di non violenza, in senso attivo, e non di non-violenza, cioè in senso reattivo.
Oggi, al contrario, la scelta vegetariana sembra spesso più simile a quella delle correnti rigoriste che pure esistevano in quella tradizione, secondo cui prevale nettamente l’aspetto negativo, sotto forma di rinuncia normativa e coercitiva: diventa simile alla “morale del gregge” o “degli schiavi”, se frutto di un movimento reattivo e non attivo.
Poiché dunque una concezione della vita si fonda sulla libertà, non può venire imposta: può essere l’oggetto di un dovere morale autonomo, e non di un obbligo normativo eteronomo, di una imposizione per legge.
Si riferisce a un dover essere che non implica necessariamente un dover fare, ma per il principio di libertà e non per il debole argomento che viene solitamente avanzato, ossia perché l’uomo, se vuole vivere, deve nutrirsi di altri esseri viventi, vegetali o animali.
In termini religiosi, il dovere morale di non cibarsi di animali andrebbe inteso come un “consiglio evangelico”, valido cioè per chi aspiri alla perfezione, ma in realtà si tratta di applicare in modo rigoroso il passaggio inevitabile dall’essere al dover essere.
Nella realtà, infatti, l’alimentazione carnea implica (di fatto e non di diritto, ma le cose, appunto, stanno così) la perpetuazione di condizioni di vita e di morte, per le vittime animali, del tutto incompatibili con i principi morali che si dovrebbero adottare verso tutti i viventi, quindi la scelta vegetariana, oggi, non può essere più soltanto una semplice via di perfezione spirituale (come anticamente presso il pitagorismo, il jainismo, il neoplatonismo, il primitivo monachesimo cristiano, ecc.), ma un dovere che s’impone se si vuole evitare una sofferenza moralmente intollerabile, cioè incompatibile col principio di giustizia.
Questo ci porta alla seconda questione: posto che si tratti di un obbligo moralmente vincolante, si tratta di vedere quale tipo di etica sia il più adeguato, perché oggi noi viviamo in un contesto di pluralismo anche dal punto di vista delle teorie morali.
Si può infatti ricorrere, per esempio e in relazione al tema che ci interessa, a un paradigma etico fondato sull’utilitarismo, sul giusnaturalismo, sul concetto di benevolenza e compassione, ma il modello più adeguato, a mio avviso, è quello che si fonda sul principio di responsabilità e di rispetto.
Soltanto su questa base, infatti, è possibile confutare, in modo convincente, gli aspetti più degenerativi dei due atteggiamenti decisivi che stanno alla base dello sfruttamento animale, cioè l’antropocentrismo e lo specismo, secondo cui l’animale non umano ha rilevanza morale solo in rapporto a interessi, bisogni e desideri dell’animale umano, ha cioè solo un valore strumentale.
Nella sua forma più benevola, questo atteggiamento consente d’intendere gli animali non umani come “destinatari di doveri” da parte dell’uomo, e non come “titolari” di veri e propri “diritti”.
Oppure, come titolari di diritti indiretti (cioè in funzione degli interessi umani) e non diretti, che appartengono soltanto agli esseri aventi valore intrinseco, in sé, inerente.
Qui, la lezione di Kant è stata decisiva: soltanto la persona umana è un “fine” in sé, titolare di veri “diritti” e degna di “rispetto”.
In effetti, l’animale può essere soltanto un “paziente” e non un “agente” morale perché, a differenza dell’uomo, non si può considerare né moralmente né giuridicamente “responsabile” di ciò che fa.
Si tratta però di non contrapporre le due nozioni come se si escludessero a vicenda, mentre possono benissimo e anzi devono stare insieme: l’attuale spietata strumentalizzazione dell’animale può cessare solo se si perviene a considerarlo, contemporaneamente, titolare di diritti (alcuni: non possiamo attribuirgli, per esempio, il diritto di votare) in quanto “soggetto di una vita”, secondo la felice definizione di Tom Regan, e destinatario di doveri da parte dell’uomo.
Sono titolari, appunto, come pazienti e non come agenti morali.
Si tratta, in altri termini, di coltivare un antropocentrismo etico e non ontologico, in cui la superiorità dell’uomo sia determinata dalla sua capacità di responsabilità e rispetto, e non dal suo mero essere, da una sua presunta natura.
In realtà, se proprio si vuole usare il termine “natura”, l’uomo sembra piuttosto un animale inferiore, essendo caratterizzato, come afferma Nietzsche in un celebre aforisma di “Al di là dl bene e del male”, da una carenza fondamentale: si può definire infatti come “l’animale non stabilizzato” che si determina in virtù della sua cultura e quindi, sempre, in modo provvisorio.
Ma l’uomo è anche l’animale più potente, che può correggere le tentazioni dispotiche della ragione calcolante solo ricorrendo alla regola d’oro, che impone di non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a se stessi.
La questione di fondo, perciò, consiste nello stabilire quale forma di antropocentrismo s’intende adottare, come guida di una pratica di vita logicamente coerente ed eticamente giusta.
La nozione di “giustizia interspecifica”, infatti, diventa decisiva, cioè va assunta come guida e filo conduttore sia nel porre le domande rilevanti sia nel trovare le conseguenti risposte più convincenti, alla luce del principio responsabilità che caratterizza propriamente l’umano.
Con la formula prima citata, si potrebbe dire che si tratta di rovesciare il detto comune secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”: in realtà, “l’uomo decide di mangiare in relazione a ciò che, di volta in volta, diviene”.
E poiché ciò accade, per lo più, inconsciamente, si tratta di elevare alla consapevolezza critica la risoluzione per una pratica di vita che decide la forma d’essere di altri viventi e senzienti: le ragioni per una pratica di vita vegetarista sono etiche, prima e più che nutrizionistiche, poiché l’etica del rispetto precede e fonda un eventuale codice dietetico.
Si tratta di coltivare un più ampio e adeguato umanesimo e non, certo, quel presunto anti-umanesimo che assurdamente viene spesso attribuito alle pratiche di vita che sono mosse dal rispetto per i viventi.
In sintesi, possiamo dire che l’etica più adeguata a rendere ragione della scelta vegetariana è l’etica fondata sul principio responsabilità, sviluppata nell’omonima e famosa opera di Hans Jonas.
In base a questo principio, si possono tuttavia elaborare tre modelli sensibilmente diversi tra loro.
La doverosità morale della scelta vegetariana, infatti, si può reggere su tre motivazioni:
1. non si deve mangiare carne perché questo implica necessariamente, per l’animale, una serie di sofferenze che si possono mitigare ma non eliminare del tutto, e l’animale ha il diritto di non soffrire;
2. non si deve mangiare carne indipendentemente da questo motivo, cioè anche se si potesse eliminare del tutto la sofferenza dell’animale, perché si dovrebbe pur sempre ucciderlo, ma questo non è giusto, perché l’animale ha diritto alla vita;
3. l’assuefazione alla violenza esercitata sugli animali provoca una propensione anche alla violenza contro gli uomini, perciò non si deve mangiare carne perché questo alimenta una cultura della violenza; il vegetarismo è un aspetto essenziale della non violenza.
Si tratta, come si vede, di un’etica della responsabilità e del rispetto cui si possono dare motivazioni diverse, perché diverso è l’apprezzamento della rilevanza morale dell’animale: nel primo caso tale rilevanza si fonda sulla capacità di soffrire, nel secondo sul valore in sé della vita, nel terzo
sull’interesse umano a diminuire il tasso generale di violenza.
Come conclusione, possiamo allora tentare di rispondere alla inevitabile e decisiva domanda circa l’aspetto pratico: a seguito di queste considerazioni, che cosa fare?
E, in particolare, che cosa dovrebbe fare un medico?
La risposta non è certo facile, anche perché l’uomo è, come dice Kant, un legno storto che non si può raddrizzare perfettamente, e anche se riconosce la bontà degli argomenti portati a favore di una pratica di vita vegetariana, è pronto a non seguire la propria ragione:
video meliora proboque sed deteriora sequor,
secondo l’antico motto sempre attuale.
Naturalmente, non è pensabile che il medico vesta i panni del filosofo morale, però può almeno sollecitare il paziente a riflettere sul significato della sua pratica di vita alimentare, può sollevare cioè la questione di una corretta etica alimentare, ossia la questione di un’alimentazione eticamente responsabile.
Può dire, infatti, che se un tempo la vita era forse pensabile come avventura, oggi va disciplinata secondo il principio responsabilità.
Quindi, anche le scelte alimentari vanno risolte non come questioni di “tradizione” condivisa o di “gusto” soggettivo, ma come oggetto di una riflessione etica guidata dai principi di responsabilità e di giustizia interspecifica. In questo modo, certo, non si possono esibire facili certezze e, anzi, si sollevano dubbi e perplessità, ma sollevare domande in questo caso è più importante che fornire univoche e acritiche risposte.
Cosa rispondere, per esempio, al paziente che pone la domanda forse più rilevante: cosa fare per alimentarsi nel modo più “naturale”, cioè nel modo più confacente alla natura dell’uomo?
La classica idea di “seguire la natura” sembra chiara e ovvia, ma non lo è per nulla.
Infatti, a parte il fatto che il dovere di seguire la natura andrebbe dimostrato, in realtà l’uomo è l’unico animale privo di natura, o la cui natura consiste nella sua cultura: in esso, come dice Sartre, “l’esistenza precede l’essenza”.
Ciò vuol dire che l’uomo costruisce incessantemente la sua natura, e tale costruzione costituisce, appunto, la sua dimensione etica.
E oggi, come si diceva, l’etica più adeguata è quella che si fonda sul principio responsabilità.
Tornando, da questa prospettiva, al tema del “che fare”, possiamo dire che il medico dovrebbe tener presenti, oltre naturalmente le norme della sua deontologia, alcuni principi fondamentali che possono giustificare non soltanto la legittimità culturale, ma anche la superiorità etica della pratica di vita vegetariana.
Questi princìpi sorgono come risposte alla domanda fondamentale: che cosa fa veramente un individuo, esplicitamente e consapevolmente oppure implicitamente e inconsciamente, quando mangia animali?
Da ciò risulta chiaro che il vegetarismo viene inteso come un dovere morale/spirituale e non come obbligo normativo; anche se oggi vi sono motivi esterni molto forti per imporre anche sanzioni (gli orrori degli allevamenti e dei mattatoi industriali), deve prevalere la motivazione interna, libera e autonoma.
Per brevità, ma anche per sottolineare il loro carattere aperto e non dogmatico, è opportuno esporre questi princìpi in forma aforistica:
- Non si può fondare la propria vita sulla morte di altri esseri viventi, se è possibile evitarla senza danni per la propria salute.
- Poiché ogni essere vivente è un soggetto di vita dotato di valore inerente, un interesse non fondamentale dell’uomo non può esigere, per la propria soddisfazione, il sacrificio di un interesse fondamentale, come quello alla vita, di un animale.
- Una pratica di vita vegetariana contribuisce in modo decisivo alla drastica diminuzione delle sofferenze che gli animali sono ingiustamente costretti a subire.
- Nelle proprie scelte si deve tener presente che tutti gli animali, umani e non umani, sono soggetti di una vita che hanno valore in sé, quindi non si possono trattare come “risorse rinnovabili”.
- Ogni soggetto di una vita ha il diritto a non venire torturato, quindi non si deve contribuire alla “produzione” di carne che oggi, data la sua forma industriale, è luogo di atroci torture, tanto più moralmente intollerabili quanto più sono legali.
- La “produzione industriale” di carne è anche un assurdo economico, per i costi che implica sul piano della salute e dell’inquinamento: gli allevamenti di bestiame sottraggono spazio ai terreni per l’alimentazione umana e inquinano molto più delle automobili.
- Quando si uccide un uomo si uccide un individuo determinato, che ha nome e cognome.
Quando si uccide un animale, invece, si crede di uccidere soltanto un essere di genere neutro privo di nome proprio, mera esemplificazione di una specie.
In realtà, si uccide sempre un individuo che ha un proprio mondo e una propria storia: come, per esempio, si uccide Pietro e non un generico “uomo”, così si uccide Valentina e non “una” mucca.
E allora si deve tener presente che non si mangia solo “della carne”, cioè una cosa, ma anche “un corpo” e cioè la parte di un individuo.
- Praticare una dieta carnivora implica sempre l’approvazione di una violenza. Chi lo fa dovrebbe essere disposto a uccidere lui stesso la vittima di cui si alimenta, e dovrebbe anche essere disposto a mangiare, dopo averlo ucciso con le sue proprie mani, il proprio animale d’affezione: il proprio cane, gatto, canarino… La vita della mucca uccisa da altri non vale meno della vita del mio cane. Si tratta di evitare la schizofrenia etica: proteggere cani e gatti ma uccidere mucche, galline e maiali.
- La schizofrenia etica è dovuta anche all’analfabetismo emotivo: la ragione approva gli argomenti razionali del vegetarismo, ma si continua a uccidere e mangiare corpi di animali perché non si sente ciò che è distante e non si considerano gli argomenti emotivi (compassione, simpatia, repulsione…).
- Pare che l’angoscia, la disperazione e l’ira impotente che provano gli animali condotti al macello riempiano il loro corpo di tossine, che vengono poi assimilate da chi si ciba del loro corpo. Il regime alimentare carneo è un regime tossico e diffonde tossicità.
- Attualmente, il corpo dell’animale di cui ci si ciba proviene da un sistema di allevamento e di uccisione (la orrenda e spietata “filiera” del feroce e ottuso linguaggio tecnico della ragione calcolante) molto peggiore del passato, perché lo considera come cosa, merce, oggetto, ingranaggio di una macchina produttiva: senza la minima traccia di mediazioni simboliche e riparazioni rituali, con le quali un tempo le società arcaiche potevano mitigare ma non cancellare il senso di colpa.
- Oggi, chi mangia carne si ciba di corpi al servizio del mercato globale: corpi reificati, privatizzati, neutri, macchinizzati, mercificati, brevettati, bestializzati: ingranaggi di una macchina produttiva che distrugge l’anima e toglie, a chi già per natura non ha voce, “mondo” e “storia”. Chi mangia corpi, nella finzione che siano carne, perpetua il “ciclo maledetto” della separazione radicale tra umanità e animalità.
- Gli animali non sono pura “natura”, perché hanno “mondo” e “storia”. Per questo motivo sono stati sempre considerati, in un passato non lontano ma già dimenticato, importanti operatori simbolici. Oggi non più, ma possiamo e dobbiamo riconoscerli almeno come soggetti di una vita. E la vita esige rispetto.
- Non si tratta di togliere i confini tra uomini e animali, ma di spingere lo sguardo etico al di là dell’umano senza cancellare questi confini.
- Per una dietetica ecologica, si dovrebbe non solo assumere il cibo che assicuri il massimo di nutrimento con il minimo di alimenti (l’optimum, non il maximum), ma anche “eliminare”, come dice Peter Singer, “lo specismo dalle nostre abitudini alimentari”.
- Si deve riflettere sul significato di “mucca pazza”: la ragione tecnica/strumentale/calcolante in funzione soltanto economica messa in crisi e contraddetta dai suoi stessi effetti.
- Posto che vi siano differenze tra l’animale uomo e gli animali non umani, la superiorità del primo non gli dà il diritto di uccidere i secondi se non lo minacciano, ma piuttosto il dovere di rispettare la loro vita, perché la superiorità intellettuale non può implicare la irresponsabilità morale. Poiché l’animale ha un interesse a vivere, l’uomo ha il dovere di proteggere questo interesse.
- La dieta carnea è solo una consuetudine storica, non una necessità naturale; è quindi legittimo supporre, e non solo augurare, che nei prossimi secoli, come dice Rifkin, “i nostri pronipoti saranno sconcertati e perplessi nell’apprendere che i loro antenati consumavano carne di altri esseri viventi” e lo considereranno “un barbaro passato”.
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Fonte: da srs di Italo Sciuto