martedì 19 aprile 2011

Etiopia 1937: i crimini italiani dimenticati, da Addis Abeba a Debra Libanos


Lunedì ricorrerà, molto probabilmente nel silenzio e nell’amnesia generali, il 70° anniversario di una delle pagine più nere della storia coloniale italiana e di uno degli episodi più vergognosi, il massacro di civili etiopi che seguì come rappresaglia all’attentato al Vicerè d’Etiopia Rodolfo Graziani, avvenuto il  19 febbraio 1937.

Graziani, prima del suo incarico in Africa Orientale al fianco del Maresciallo Badoglio, aveva già condotto con ferocia la repressione contro i ribelli di Omar el-Mukhtar in Libia nel 1921, come narra anche un film americano del 1981 con Anthony Quinn e Oliver Reed, “Il leone del deserto”, censurato e mai distribuito nel nostro paese.

Durante la Seconda guerra italo-abissina, il generale si distinse per la spregiudicatezza con la quale irrorava di gas come l’iprite le popolazioni “ribelli”, con il pieno beneplacito di Mussolini, che in diversi telegrammi ai suoi generali autorizzava lui e Badoglio all’uso sistematico delle armi chimiche: “Dati sistemi nemico di cui a suo dispaccio n.630 autorizzo V.E. all’impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme”.

Sull’utilizzo dei gas da parte dell’esercito italiano in Etiopia vi fu una lunga diatriba molti anni fa tra Indro Montanelli e lo storico Angelo Del Boca. Montanelli negava che questi crimini fossero stati compiuti. Quando poi Del Boca, uno dei massimi esperti di colonialismo italiano, produsse documenti inoppugnabili che dimostravano la realtà dei fatti, Montanelli ebbe la signorilità di ammettere il suo errore.

Il 19 febbraio 1937 Graziani, per festeggiare la nascita a Napoli dell’erede al trono Vittorio Emanuele, il nostro principe dei casinò, convocò nel suo palazzo di Addis Abeba un bel po’ di notabili locali e qualche centinaio di poveri, ciechi e storpi ai quali annuncia che farà l’elemosina di due talleri d’argento. Mentre è in corso la sfilata dei reietti, alle 12,20 degli etiopi che si erano mescolati tra la folla lanciano alcune granate all’indirizzo del palco delle autorità. Pur non essendo le deflagrazioni di enorme potenza, il bilancio delle vittime sarà di sette morti e circa cinquanta feriti tra i quali, in modo non grave, lo stesso Graziani.

La rappresaglia, condotta dal federale Cortese ed eseguita per massima parte da civili italiani, la cosiddetta gente comune, fu spietata e colpì alla cieca nei tre giorni che seguirono. Per primi coloro che si trovavano all’interno del cortile dove era avvenuto l’attentato, non ebbero scampo. L’inviato speciale del Corriere della Sera Ciro Poggiali così scrisse: “Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada… Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente“.

Tra le testimonianze straniere della ferocia scatenata dagli italiani sulla popolazione locale quella dell’ambasciatore USA che per descrivere l’accaduto fece riferimento agli orrori del genocidio turco degli Armeni del 1917. Ma anche testimoni italiani si dissero sconvolti da quanto videro con i propri occhi.

Graziani, dal letto d’ospedale, ordina ai governatori delle altre regioni di agire con il massimo rigore. Si incendiano i tucul, le chiese copte, i raccolti, i terreni coltivati. Si uccide il bestiame e si inquinano i terreni con aggressivi chimici. Gli inglesi denunciano al proprio Parlamento l’uccisione di 700 etiopi che si erano in un primo tempo rifugiati nell’ambasciata del Regno Unito ad Addis Abeba. Vengono uccise migliaia di persone.
Il bilancio di tre giorni di massacro è stimabile, secondo le fonti più attendibili inglesi, francesi e americane, in circa 6.000 vittime, anche se fonti etiopi arrivano a contarne 30.000.

Graziani ordina quindi la fucilazione di esponenti della intelligencija etiopica e perfino di decine di indovini e cantastorie, colpevoli solo di aver predetto il crollo del regime coloniale.
Le esecuzioni sommarie di presunti colpevoli e fiancheggiatori degli attentatori proseguiranno nelle settimane e nei mesi successivi, fino al massacro di Debra Libanos.
Questa città conventuale era uno dei luoghi più sacri al cristianesimo copto.
Convinto che nel monastero avessero trovato rifugio i responsabili dell’attentato, nel mese di maggio Graziani ordina al generale Maletti di spazzar via ”tutti i monaci compreso il vicepriore“. A queste prime vittime passate sommariamente per le armi con le mitragliatrici pesanti sull’orlo della stretta gola di Zega Waden, si aggiungeranno poco dopo anche i diaconi, poco più che ragazzini. Il bilancio di questa carneficina, compiuta su religiosi cristiani con l’aiuto dei 1.500 armati musulmani della banda di Mohamed Sultan, secondo studi e scavi recenti va da un minimo di 1.600 ad un massimo di 2.200 vittime. Martiri dimenticati dal calendario.

Durante l’estate scoppiano altre rivolte e continua la repressione, che culmina con l’esecuzione di Hailù Chebbedè, considerato il capo dei ribelli, la cui testa mozzata portata come trofeo in giro per l’Etiopia (si dice in una scatola di latta per biscotti) fu issata su un palo e mostrata nelle piazze dei mercati.
Altri massacri ed episodi efferati vedranno gli italiani protagonisti negli anni successivi, come nel 1939 a  Debra  Brehan, dove più di mille tra uomini, donne, vecchi e bambini saranno gasati con l’iprite nelle grotte dove si erano rifugiati.

Il dominio coloniale italiano in Etiopia finirà solo con la sconfitta del 1941 ad opera dei britannici e con il ritorno sul trono dell’imperatore Hailè Selassiè.
Arresosi alle truppe anglo-americane nel 1945, Graziani fu processato nel 1948 e condannato a 19 anni di carcere, 17 dei quali gli furono condonati. Nel 1953 divenne presidente onorario del MSI ma in contrasto con alcuni camerati preferì ritirarsi a vita privata. Morì nel 1955 nella sua casa di Roma.
Immagine tratta da “Fascist Legacy” di Ken Kirby, produzione BBC.

Fonte: da L’Orizzonte degli avventi del  17 febbraio 2007


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