sabato 5 febbraio 2011

L'Egitto era in rivolta già tre, quattro, cinque anni fa: perché non ce ne ricordiamo più?



Un tempo si credeva che la sede della memoria si trovasse nel cuore: per questo ancora oggi diciamo ricordare, cioè "riportare (all'attenzione) del cuore". Dobbiamo essere scossi perché qualcosa vada a imprimersi nella memoria, sentirci in qualche modo coinvolti da quello che sta accadendo. Il martire, tanto in italiano quanto in arabo, è colui che testimonia; basta assistere a un evento per sentirsi parte di un martirio, di un sacrificio che andava in tutti i modi evitato. Basta trovarsi lì a vederlo, per esserne in parte responsabili. Responsabili, cioè nella condizione di dover rispondere. E noi questa risposta la dobbiamo dare raccontando cosa è avvenuto. "Diffondi la parola, diffondi l'immagine": era il maggio 2008 quando Hossam el-Hamalawy scrisse queste parole sul suo blog.

Era trascorso un mese dalla foto che ritraeva decine di ragazzi egiziani mentre prendevano a calci e pedate una gigantografia di Mubarak, nel secondo giorno di proteste lungo il Delta del Nilo degli operai tessili impiegati nella fabbrica di Mahalla elKubra.  Proteste iniziate ben due anni prima, nel dicembre 2006, quando 24000 lavoratori dell'azienda scesero per le strade chiedendo un bonus che gli era stato garantito dal primo ministro Ahmad Nafiz e che non avevano ancora visto.  In segno di protesta e dignità, molti di loro rifiutarono i salari.  Alcuni giorni più tardi, 3000 operaie lasciarono le loro postazioni di lavoro e marciarono verso il reparto maschile, dove gli operai continuavano a lavorare come ogni giorno.

"Dove sono gli uomini? Le donne sono qui!": bastò questo canto scherzoso a dare il via a una protesta comune e pacifica che si protrasse per quattro giorni, con le donne che si infuriavano se vedevano gli operai fermarsi a negoziare con le autorità. E non si riusciva proprio a convincerle ad andare a casa dalle loro famiglie: volevano restare nei caseggiati della fabbrica, resistere anche tutta la notte se necessario. La sicurezza intimava loro di uscire, che in pochi non avrebbero ottenuto nulla. Da dentro gli operai fecero sapere che erano migliaia (non era vero, ma le autorità non potevano verificarlo), si misero a battere sulle barre di ferro per centuplicare il frastuono del cambiamento che rivendicavano. I telefoni cellulari esaurirono presto il credito con i lavoratori che chiamavano i familiari e gli amici dicendo loro di aprire le finestre, di far sapere alle autorità che li stavano guardando: guardare, cioè "stare in guardia", essere vigili dinanzi alle manifestazioni in corso.

E' curioso e bello, manifestare significa "prendere per mano": e cosa fanno i manifestanti se non proprio incontrarsi per restare insieme, correre mentre il mondo li riprende? Perfino i bambini e i ragazzi delle scuole, quel giorno, finite le lezioni percorsero le strade in segno di solidarietà verso i coraggiosi operai. Sì, anche coraggio viene da cuore. E valere? Il dizionario dice: "star bene, essere valido". Così, quando ti mostri valoroso, dentro stai bene. Gli operai di Mahalla ottennero quello che chiedevano. La protesta fu così forte che d'un tratto anche chi lavorava nei cementifici, nei panifici, e chi per sfamare sette figli raccoglieva l'immondizia e si ammalava, sentì che avrebbe potuto scendere in piazza a chiedere quello che gli spettava. Mettendosi in marcia. Perché in arabo lo sciopero, al-idhrab, non è "smettere di fare" il proprio lavoro, la radice dh-r-b richiama invece il battito, la pulsazione, qualcosa che dà segno di vita.

Per questo per Hamalawy il pugno della resistenza si apre e si trasforma in mano che registra la realtà trascrivendo i segnali-morse del battito cardiaco, usando per supporto magnetico il proprio sangue. Nelle proteste di questi giorni, iniziate con lo yom el thawra, in egiziano il giorno della rivolta (e non della collera, come si sente invece dire) si è passati dallo sgomento dei primi tre morti, all'inusitata cifra di 95 manifestanti rimasti uccisi. Che siano tali, o la metà, o un quinto, resta un dato atroce. Li abbiamo visti morire? No. Li ricorderemo quando tutto sarà concluso? Non li ho visti, quindi non riesco a sentirli. Ho dovuto abbozzare uno scenario dentro di me, un'immagine terribile per svegliarmi, un modo che forse non mi farà dimenticare: mettiamo che tre dei ragazzi uccisi al Cairo (perché molti devono essere ragazzi, vista l'età media nel paese: 24 anni) siano in età scolare. Siano in classe coi nostri figli.

Certo, a loro sono state date le pietre per parlare, ai nostri figli è andata meglio. Vedo una classe delle superiori: c'è Roberto che scrive, Eros che sottolinea un bel verso, Leonardo guarda fuori dalla finestra. Poi mi accorgo di loro: Ahmad, Umar, Hussain, sono rimasti seduti, ma non si muovono più. Il capo riverso sul banco, dalla sedia il sangue goccia e ha creato una pozza accanto ai bossoli, ancora caldi di sparo. Permetterei che accadesse ai miei figli? Ai compagni dei miei fratelli minori? Ai miei studenti? A cui ho detto: "Imparate ad esprimervi e il mondo intero vi sosterrà". Per loro tre, l'unica scuola era la strada. Occuparla, sfilarci. Imparare come si scrive "Basta!" dagli striscioni.

Stavano solo imparando a comunicare. Che bel significato che ha, alto, remoto: "comunicare: avvicinarsi all'altare per prendere la comunione". Sulla lavagna resta l'ultima lezione, i compiti per il giorno dopo, scritti da Hussain nella mia testa come ultimo gesto di rivolta: "Provate a scrivere "No!" in arabo, quelle due stanghette curve unite alla base, fino a leggervi dentro le sagome di due uomini. Che si sostengono l'un l'altro. Non scorgete la tensione nei loro due corpi? E' il passo che stanno per compiere verso di me, e sento che ormai io non morirò mai più".


Fonte: srs di Claudia Avolio  da  Arabismo.it   del  30/01/2011

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