di Stefano Lorenzetto
Non ha vinto l’autonomia. Ha vinto la Serenissima. È
un’altra cosa. Mai il referendum avrebbe potuto assumere in Lombardia lo
spessore plebiscitario registrato in Veneto. Che cos’hanno a che vedere le
valli orobiche e camune con Milano? Niente. E infatti le percentuali dei
votanti lombardi differiscono nettamente da quelle, ridotte a valori
omeopatici, degli elettori ambrosiani. I quali sono rappresentati da un
sindaco, Giuseppe Sala, che ha preferito snobbare la consultazione e svegliarsi
sotto il cielo di Parigi, al contrario del governatore Luca Zaia, che alle 7
meno un quarto, mentre faceva ancora buio, si è presentato al seggio del suo
paesello per dare il buon esempio.
Il Veneto intero ha invece tutto a che vedere con Venezia. La città di San Marco è sua madre. Lo stesso dicasi di Bergamo e Brescia, i cui centri storici ancora traboccano di leoni marciani scolpiti nella pietra. Fino al 1797, fino all’Adda, era Repubblica veneta. La più longeva che sia mai esistita. Motto ufficiale: “Viva San Marco!”. Durata 1100 anni. Affogata nel sangue da un ladrone il cui nome faceva rima con Napoleone, saccheggiatore di opere d’arte (dalle Nozze di Cana del Veronese alla Cena in Emmaus del Tiziano, fatevi un giro al Louvre) e di molto altro (40 milioni di lire oro dell’epoca, depositate nella Zecca della Serenissima, pari, al valore di oggi, alla metà del debito pubblico italiano).
Se non siete mai approdati a Venezia dalla parte giusta, dal mare, dalla bocca di porto di San Nicoletto, e non vi ha preso uno struggimento, un magone, un’inspiegabile voglia di piangere vedendo in lontananza il campanile di San Marco e il Palazzo Ducale che brillano nell’oro del tramonto, lasciate perdere queste righe: non fanno per voi.
Chi non conosce la storia, non può capire il presente. Alle 23 dell’altrieri, a 220 anni dalla caduta della Serenissima per mano del Bonaparte, è venuto giù il muro dell’inganno. Le vite dei popoli, quando si fondano sull’imbroglio, prima o poi si scollano. È un’annessione al contrario, quella celebrata domenica, simmetrica persino nella data rispetto alla colossale frode perpetrata con il plebiscito del 21-22 ottobre 1866, imbastito in una decina di giorni, che consentì l’annessione del Veneto all’Italia savoiarda e che si concluse con 641.758 sì e appena 69 no su una popolazione censita di 2.603.009 abitanti, un raggiro da Stato libero di Bananas che oggi provocherebbe l’intervento dell’Onu. Un esempio della segretezza del voto di allora? A Malo (Vicenza) furono predisposte schede di due diversi colori, per il Sì e per No.
Solo un lombardo poteva cannare in pieno una previsione sui veneti. Si chiama Giuseppe Turani, veterano dei giornalisti economici. Qualche settimana fa mi sono già occupato su questo giornale dell’ex grande firma di Repubblica e Corriere della Sera, attualmente direttore del mensile Uomini & Business. L’ho fatto dopo che aveva dato dell’idiota a Zaia. Il governatore s’era permesso di varare una legge regionale che impone l’obbligo di esporre negli uffici pubblici il vessillo con il leone di San Marco. “Bellissima bandiera, ma uscita da tempo dal cuore dei veneti e di chiunque altro”, ha sentenziato Turani. Mavalà, baùscia, ho subito pensato dentro di me. E mi sono lanciato nella seguente previsione sulla Verità, suggeritami dal mio cuor di veneto: “So che cosa batte nel nostro petto e prevedo che Turani ne avrà una conferma all’indomani del referendum consultivo sull’autonomia, indetto dalla Regione per il prossimo 22 ottobre”.
Pronostico non facile. Eppure da mesi presentivo come sarebbe finita. Ho avuto la sicurezza definitiva che non avrei perso la scommessa alle 14 di domenica, quando, scavalcando la collina che dalla Valpolicella porta alla Valpantena, dove abito, poco sotto il Capitello di Fiamene, nel punto esatto in cui da anni la strada si biforca in una deviazione provvisoria per aggirare una frana, ho visto garrire al vento, piantata in mezzo a un campo, la bandiera con il leone raffigurante l’evangelista Marco, fiammante di rosso e di giallo. Era infradiciata dalla pioggia. Mi è sembrato un buon auspicio: lavacro in arrivo.
Provo sincera compassione per Turani, lombardo di Pavia, da una vita milanese d’adozione. Io capisco benissimo quelli come lui che domenica scorsa non sono accorsi in massa ai seggi. In quale simbolo potevano identificarsi, poveretti? Nel Biscione dei Visconti, divenuto la griffe delle tv di Silvio Berlusconi? Ma chi mai sognerebbe di giurare fedeltà a un serpente sinuoso che ingoia un bambino, oggi svilito a logo commerciale, invece che a un leone alato la cui zampa poggia con saldezza sul Vangelo?
Per un veneto Milano è la non appartenenza, l’alterità, l’estraneità, e infatti i confini della Serenissima si fermavano appena oltre Bergamo, con l’eccezione di Crema, che vi rientrava. Di qui il suo misoneismo, il suo sentirsi sempre e comunque un provinciale fuori posto, il suo disagio sociale che talvolta sfocia nella vergogna: per la sua lingua (léngoa) che gli altri percepiscono come dialetto, per le parole prive di doppie, per la cadenza cantilenante. Eppure sono tutti valori che saremmo disposti a pagare con il sangue, pur di non rinunziarvi.
Mi ha perciò molto stupito l’atteggiamento di due veneti molto intelligenti, che ho avuto occasione di frequentare e di apprezzare per la raffinatezza delle loro analisi, Luciano Benetton e Matteo Marzotto. I quali non sono minimamente riusciti a percepire quale treno si fosse messo in moto nel territorio da cui originano le rispettive fortune. Benetton ha bollato il referendum come “una stupidaggine”, dando con ciò implicitamente e in anticipo degli imbecilli alla maggioranza dei conterranei (compresi i suoi dipendenti) che hanno espresso il Sì all’autonomia. È incredibile che un uomo nato nel 1935 in una terra dove i contadini mangiavano le pantegane arrosto, che mi disse di voler morire in ufficio piuttosto che in barca e che mi confessò le sue ataviche paure (“Ancora adesso, davanti a un vassoio di paste, non scelgo quella che mi piace di più, ma la più grossa, come da bambino, quando bisognava badare soprattutto a riempirsi la pancia”), oggi non sia capace di sintonizzarsi con ciò che sta appena sopra l’intestino: il precordio dei suoi fratelli. Forse ha fatto troppi soldi e non riesce più a capire le ragioni del cuore e di chi arranca per arrivare alla fine del mese.
La stessa incapacità l’ho colta nel commento al voto che Matteo Marzotto ha elargito ieri al Corriere della Sera: “Un ticket elettorale da sventolare, una cosa generica…”. Forse ha dimenticato i comandamenti che suo nonno, il leggendario patriarca Gaetano Marzotto, dettò a braccio ai dipendenti il 28 agosto 1954, lasciando le redini del lanificio di Valdagno al figlio Giannino: “Scarpe bone, bel vestito, vitto sano, vin sincero, bele case… Svaghi onesti, la fameia, i tosi, i veci, fede in Dio, mutuo rispeto, pace e bona volontà. Lavorar con atension, con impegno, in dignità.
Buon guadagno e cuor contento, vita agiata, ma el risparmio
xe sempre necesario par formar la proprietà. Sempre usar moderasion, toleranti
co’ la zente, boni amissi solidali nela gioia e nel dolor. Andar drio par la so
strada, no’ far ciàcole par niente, no’ badarghe ai fanfaroni, ai busiàri, ai
mestatori. Sempre pronti ai so doveri, far valer i so diriti, e difender tutti
uniti patria, vita e libertà”. Non è forse questo, Matteo, che i veneti come te
e come me hanno fatto valere domenica? I nostri diritti. Te la vuoi prendere
anche con tuo nonno, adesso?
Lascio volentieri ai politologi di professione il compito di spiegare i motivi per cui i veneti hanno votato come hanno votato e quali siano gli scenari che questa consultazione un po’ bulgara dischiude. L’unica parola la spenderò per un uomo pubblico al quale nel 2012, su richiesta di Marsilio editori, dedicai un libro, La versione di Tosi. Mi feci guidare dalla curiosità: Flavio Tosi, all’epoca efficiente sindaco di Verona, vive in una villetta a fianco del cimitero dove un giorno sarò sepolto. La prospettiva di ritrovarmelo come dirimpettaio per l’eternità rendeva doverosa un’investigazione per capire chi avrei avuto per vicino.
Poi, impegnatissimo a costruirsi una carriera e a esportare in Calabria il movimento Fare! (fare che cosa? non si sa), Tosi ha perso di vista la sua città e cosi i veronesi gli hanno sfilato la carega sulla quale era acculato da dieci anni. Non pago, anche in occasione del referendum ha dimostrato di non tenere in alcun conto i suoi azionisti di riferimento, cioè gli elettori veneti. Pessimo esempio per chi ambirebbe addirittura a candidarsi alla guida dell’Italia come premier.
Tosi è riuscito a completare la propria dissipazione politica cominciata con il rovinoso insuccesso del giugno scorso, quando pretendeva d’imporre come nuovo sindaco la morosa Patrizia Bisinella, senatrice di Fare!, non avendo egli ottenuto la possibilità di candidarsi per quel terzo mandato che forse Matteo Renzi, ma non Paolo Gentiloni, gli aveva promesso in cambio del sostegno al governo di centrosinistra in Parlamento. Anziché cercare di recuperare il terreno perduto, impegnandosi nella campagna elettorale per il Sì, fino all’ultimo giorno Tosi ha preferito predicare sui giornali che l’autonomia promessa da Zaia, suo acerrimo nemico, era un’impostura, uno specchietto per le allodole. Purtroppo per lui, le allodole hanno cantato in coro lasciando a Tosi il ruolo del tordo.
Anzi, per la verità qualcosa di davvero epocale, alla vigilia del voto, l’ex sindaco di Verona è riuscito a dirla a Radio 1: ha promesso che entro l’anno sposerà Patrizia Bisinella. A me, nel libro, giurò che con Stefania Villanova, la vicentina che sei anni prima aveva chiesto e ottenuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota per poterlo sposare in chiesa, stava pensando di fare un figlio, se non altro perché la signora andava per i 44 anni. Invece che da un battesimo, la promessa fu coronata da un divorzio. Questa è l’attendibilità del personaggio. Quanto all’annuncio delle nozze imminenti con la Bisinella, lo ha dato a Un giorno da pecora. Non era meglio un giorno da leone?
Ora cercheranno di convincervi che i veneti hanno votato così perché pensano solo alla loro pancia, al loro portafoglio. Io invece vi dico tutt’altro: i veneti che mugugnano ma sgobbano, che protestano contro la rapacità dello Stato ma pagano le tasse, che sognano l’indipendenza ma non si appellano mai a vallate in armi, che si mostrano sospettosi con gli stranieri ma ne accolgono più di qualsiasi altra regione d’Italia dopo la Lombardia, che non sono ancora pronti a fondere il bianco con il nero ma continuano a mandare i missionari a morire in Africa sulle orme di monsignor Daniele Comboni, che sembrano aridi ma vantano un’impressionante fioritura di opere buone, che tirano su capannoni ma si struggono di nostalgia per le ville palladiane, hanno ancora l’enorme fortuna di ricordare da quali immani sacrifici è scaturito il loro benessere e di vivere come se tutto fosse in prestito, come se l’incantesimo potesse rompersi da un momento all’altro. Ecco perché non si fidano più di Roma, che in 70 anni ha dimostrato di saperla solo sperperare, questa ricchezza.
Gli anticorpi prodotti dalla miseria sono dentro di me, in circolo nel mio stesso sangue. Se lavoro incessantemente fino alla fine provo a consolarmi con Goethe la natura mi dovrà un’altra forma di esistenza quando quella presente sarà svanita. Noi veneti siamo schiacciati dal senso di precarietà, che è poi il senso stesso della vita. “Estote parati”. Tutto va meritato, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Nulla è gratis, nulla è facile, nulla è dovuto, nulla è sicuro. Né per noi né, da oggi in avanti, per i nostri connazionali, si spera.
È questa la benedizione della povertà, il miglior immunizzante da qualsiasi illusione terrena: siamo solo di passaggio, lasceremo tutto qui, ai nostri figli, con la speranza che almeno si ricordino di noi. Una dottrina radicata nel cuore della mia gente, abbilo ben presente Resto d’Italia. Altrimenti abiterei ancora a Milano e non sarei andato a votare.
Stefano Lorenzetto, “La Verità”.
Fonte: Etnie del 24 ottobre 2017
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