Quell’apocalisse nove
secoli fa. Con i suoi 9 gradi Mercalli seminò morte da Cividale a Milano, da
Bergamo a Pisa
di Gian Antonio
Stella
«Fu il terremoto assai
terribile. Per cui crollarono molte chiese coi campanili, e innumerevoli case e
torri e castelli e moltissimi edifici, sia antichi che nuovi; per il quale
anche i monti con le rupi crollarono e devastarono e in molti luoghi la terra
si aprì ed emanava acque solfuree…»
La scossa
La cronaca degli Annales
Venetici breves offre un’immagine nitida di cosa fu lo spaventoso scossone
del 3 gennaio 1117. Nove secoli fa. «Fu
il più antico evento sismico del mondo per il quale si abbia un quadro dei
danni tale da consentire oggi di stimarne l’area epicentrale e la magnitudo con
tecniche analitiche rigorose, le stesse usate per analizzare terremoti di
secoli più vicini», spiega Emanuela
Guidoboni, tra i promotori del convegno di oggi all’Istituto Veneto di
Venezia sul tema «Novecento anni dal più
grande terremoto dell’Italia Settentrionale».
L’area padana
Fu così devastante quel cataclisma, coi suoi 9 gradi di
intensità della scala Mercalli-Cancani-Sieberg e «una magnitudo calcolata, a
partire dal quadro complessivo del danneggiamento, tra 6.5 e 6.9» (quello in
Friuli del 1976 fu di «appena» il 6,4 e ogni aumento di 0,2 punti di magnitudo
corrisponde al raddoppio della potenza) da seminare morte e rovine il tutta
l’area padana, da Cividale a Milano, da Bergamo a Pisa.
Le parole
«Per due volte fra il giorno e la notte avvenne in tutto il
mondo un terremoto tanto terribile che molti edifici crollavano e gli uomini a
stento riuscivano a fuggire; ma soprattutto in Italia, dove fu tanto pericoloso
e orribile, che gli uomini aspettavano su di sé il manifesto giudizio di Dio»,
si legge negli Annales Sancti Disibodi,
«e all’improvviso, per le spaccature
della terra, crollarono città, castelli, ville, con gli uomini che ivi indugiavano
[a fuggire]. Infatti anche i monti furono spaccati e i fiumi, la terra
inghiottente, si essiccarono tanto che chi voleva poteva attraversarli a piedi».
Il Po
Il fiume Po, aggiunge il cronista, «erigendosi dal suo alveo, si levò in alto a guisa di arco in modo da
aprire la via tra la terra e l’acqua e da dare a intendere apertamente che
minacciava la fine al mondo con i suoi flutti alti. E l’acqua essendo rimasta
sospesa così a lungo, finalmente si rimise in se stessa con tanto suono, che il
suo fragore si udiva per miglia».
Trentamila morti
Furono trentamila, stando ad alcune stime, le vittime di
quell’evento, generato da una «sorgente sismica piuttosto profonda, mascherata
dalla spessa copertura di sedimenti che ricopre tutta la pianura-padano-veneta e
perciò finora imperscrutabile». Un’apocalisse. Paragonabile rispetto alla
popolazione di oggi, tanto per capirci, a trecentomila morti.
L’epicentro
L’epicentro fu probabilmente nel veronese a Ronco all’Adige, a sud di Soave. La città più colpita fu
Verona dove collassò la cinta esterna dell’Arena e, scrisse Pietro Diacono, «le chiese furono rovesciate dalle fondamenta
e le alte torri precipitarono» ma i danni furono gravissimi anche alla cattedrale
di Parma, a quella di Cremona, alla Basilica padovana di Santa Giustina…
Le testimonianze
Devastazioni di cui restano memorie preziose: 72 fonti
memorialistiche coeve (60 annali monastici e 12 cronache cittadine) più tre
dozzine di atti processuali, libri di conti, epigrafi… Mancano, perché
arriveranno solo successivamente, testimonianze autobiografiche come quelle che
lascerà fra’ Salimbene de Adam sul
sisma del 1222: «Mia madre soleva
ricordarmi che durante quel grande terremoto io ero bambino ancora nella cuna,
ed essa prese sottobraccio le mie due sorelle (erano piccine) e, abbandonando
me nella cuna, riparò nella casa dei suoi parenti. Temeva infatti che rovinasse
su di lei il battistero, poiché la mia casa era vicina ad esso. E per questo
che io non l’amavo eccessivamente, perché avrebbe dovuto preoccuparsi più di me
che ero maschio, ma lei rispondeva che era più facile portare le due sorelle
perché più grandicelle».
La mano di Dio
I resoconti a tinte forti, però, sono molti. Come quello di Landolfo Iuniore (o Landolfo di San
Paolo), che nella Historia Mediolanesis
vede nello sconvolgimento la mano di Dio: « E
il terremoto (…) smosse e sconvolse profondamente il Regno dei Longobardi. In
quel tempo la gente, che vedeva grandi rovine per le città e in genere per i
luoghi, particolarmente per le chiese, diceva che gocce di sangue cadevano come
pioggia dal cielo e di vedere parti mostruosi e molti altri prodigi in aria,
acqua, monti, pianure e selve, e di sentir tuoni sotterranei. E in questa prova
divina anche coloro, che apparivano essere sacerdoti, non sapevano dove fuggire».
In Germania
Il botto fu tale, si legge negli Annales Remenses et Colonienses, da essere avvertito in Germania: «Il 3 gennaio ai vespri», le sei di sera,
«nelle chiese furono scosse le immagini
del Signore e molte cose pendenti in esse».
E l’Annalista Sassone insiste apocalittico in Monumenta Germaniae Historica: «Non minore che una volta quello di Sodoma e
Gomorra giunse un clamore di tal fatta alle celesti schiere di Dio. Per la qual
cosa, durante la festa stessa della natività del Signore il 3 gennaio all’ora
del vespro, mentre tanti sprezzavano oltremodo il giudizio divino, la terra fu
scossa e tremò per l’ira tremenda del furore divino, tanto che non si è trovato
nessuno sulla terra che dichiari di aver mai sentito un terremoto tanto grande.
(…) Ma soprattutto in Italia questo minaccioso pericolo imperversò
continuamente per molti giorni, tanto che il corso del fiume Adige fu ostruito
per alcuni giorni dalla collisione e dalla rovina dei monti; Verona città
d’Italia nobilissima, scrollati gli edifici, sepolti anche molti uomini,
crollò. Similmente a Parma a Venezia e in molti altre città, borghi e castelli
perirono non poche migliaia di uomini. (…) Il 17 febbraio all’ora del vespro
vedemmo nubi infuocate o sanguigne sorgere da nord e estendendosi in mezzo al
firmamento incutere al mondo non poco terrore. Infatti a ciascuna città
sembrava tanto vicino, che sembrava minacciare la fine di tutte le cose...»
Lo spavento del visconte
Il visconte Rodolfo
di Verona si prese un tale spavento, dice un documento conservato
all’Archivio di Stato, che diventò meno avido. E pur essendo «solito chiedere e pretendere la decima»,
venne «toccato e commosso da un pio
turbamento dell’animo» e «presenti e
testimoni i rappresentanti della comunità, convocato il figlio, rinunciò alla
decima della suddetta chiesa…».
Fonte: srs di Gian Antonio Stella, da il Corriere
della Sera del 19 gennaio 2017
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