sabato 12 luglio 2014

L’ANTISEMITISMO: STORIA E CAUSE




Titolo originale "L'Antisemitisme, son histoire er ses causes" di Bernarde Lazare*, 1884

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Per scrivere una storia completa dell'antisemitismo, senza trascurare nessuna delle manifestazioni di questo sentimento e seguendone le varie fasi e i mutamenti, è necessario incominciare la storia di Israele dal momento della sua dispersione, o per meglio dire, dal tempo della sua diffusione fuori dal territorio della Palestina.
In tutti i luoghi dove gli Ebrei si sono stabiliti, cessando di costituire una nazione pronta a difendere la propria libertà e la propria indipendenza, si è sviluppato l'antisemitismo, o meglio, l'antigiudaismo, perché antisemitismo è un termine improprio che ha trovato la sua ragione di essere soltanto ai nostri tempi, quando si è voluto allargare questa lotta tra l'Ebreo e i popoli cristiani e darle una filosofia e una ragione più metafisiche che materiali.

Se questa ostilità, che è addirittura una sorta di ripugnanza, si fosse manifestata nei confronti degli Ebrei soltanto in un periodo e in un solo paese, sarebbe facile scoprire le cause specifiche di quell'avversione, invece, la razza ebraica è stata oggetto dell'odio di tutti i popoli in mezzo ai quali si è stabilita. Si deve pertanto dedurre che le cause generali dell'antisemitismo siano sempre state insite nello stesso Israele e non nei popoli che lo combatterono. Infatti i nemici degli Ebrei appartenevano alle razze più disparate, vivevano in terre assai lontane tra loro, non avevano né gli stessi costumi né le stesse tradizioni, erano guidati da principi diversi che facevano sì che diversi fossero anche i loro giudizi; ne consegue che le cause generali dell'antisemitismo sono sempre state insite in Israele stesso e non in coloro che lo combattevano.

Con questo non vogliamo affatto affermare che i persecutori degli Israeliti ebbero sempre il diritto dalla loro parte, né che non si abbandonarono agli eccessi propri dell'odio violento, semplicemente vogliamo dire che in linea di massima e almeno in parte, gli Ebrei stessi furono causa-dei loro mali.
Davanti all'unanimità delle manifestazioni di antisemitismo è difficile ammettere, come troppo spesso si è inclini a fare, che furono dovute semplicemente a una guerra di religione, e non bisognerebbe vedere nelle lotte contro gli Ebrei la lotta del politeismo contro il monoteismo, e la lotta della Trinità contro Yavhé. I popoli politeisti, così come i popoli cristiani, hanno combattuto l'Ebreo, non la dottrina del Dio unico.

Quali virtù o quali vizi hanno meritato all'Ebreo questa universale animosità? Perché fu, di volta in volta ed in ugual misura, maltrattato ed odiato dagli Alessandrini e dai Romani, dai Persiani e dagli Arabi, dai Turchi e dalle nazioni cristiane? Perché ovunque, e fino ai giorni nostri, l'Ebreo è stato un essere scontroso, insociabile. Perché insociabile? Perché esclusivo, di un esclusivismo politico e religioso insieme, o per meglio dire, dovuto al suo culto politico-religioso, alla sua legge.

Se passiamo in rassegna i popoli conquistati nel corso della storia, vediamo che si sottomettevano alle leggi dei vincitori pur continuando a mantenere la propria fede e le proprie credenze; potevano farlo senza difficoltà perché presso di loro le dottrine religiose provenienti dagli dei e le leggi civili emanate dai legislatori, erano nettamente separate e le leggi civili potevano essere modificate a seconda delle circostanze senza che i riformatori incorressero nell'anatema o nell'esecrazione teologica. Quello che l'uomo aveva fatto, l'uomo poteva disfare.  I vinti si ribellavano contro i conquistatori per patriottismo, mossi unicamente dal desiderio di recuperare la loro terra e di riavere la libertà; al di fuori di queste rivolte nazionali, raramente chiesero di non essere sottomessi alle leggi generali e quando protestarono lo fecero contro disposizioni particolari, che li mettevano in uno stato di inferiorità nei confronti dei dominatori. Nella storia delle conquiste romane, vediamo i popoli conquistati chinarsi davanti a Roma quando Roma impone loro la stessa legislazione che governa l'impero.

Per il popolo ebreo, il caso era molto diverso: come già fece notare Spinoza (1) “le leggi rivelate da Dio a Mosè (2) non sono state altro che le leggi del governo particolare degli Ebrei". Mosè, profeta e legislatore, conferì alle sue disposizioni giudiziarie e di governo lo stesso valore che avevano i suoi precetti religiosi, cioè la rivelazione. Jahvè non solo aveva detto agli Ebrei: "Adorerete un Dio solo e non adorerete idoli", aveva anche prescritto regole di igiene e di morale; non solo aveva assegnato loro con precisione il territorio dove i sacrifici dovevano aver luogo, ma aveva stabilito anche le modalità con le quali questo territorio doveva essere amministrato. Ognuna delle leggi che aveva dato, agraria: civile, di profilassi, teologica o morale, godeva della medesima autorità e riceveva la medesima sanzione, cosicché questi diversi codici formavano un tutto unico, un fascio rigoroso dal quale nulla poteva essere sottratto senza compiere sacrilegio.

In realtà, l'Ebreo viveva sotto la dominazione di un signore, Jahvè, che nessuno poteva vincere o combattere, e non conosceva altro che la Legge, cioè l'insieme delle regole e dei precetti che un giorno Jahvè aveva voluto dare a Mosè, legge divina ed eccellente, adatta a condurre alle eterne gioie quelli che la avessero seguita, legge perfetta, che il solo popolo ebreo aveva ricevuto.
Con un tale concetto della sua Torah, l'Ebreo non poteva accettare le leggi dei popoli stranieri, per lo meno non poteva pensare di vedersele applicare; non poteva abbandonare le leggi divine, eterne, buone e giuste per seguire le leggi umane fatalmente viziate da caducità e da imperfezione. Se avesse potuto dividere questa Torah! Se avesse potuto mettere da una parte gli ordinamenti civili e dall'altra gli ordinamenti religiosi! Ma questi ordinamenti non avevano forse tutti un carattere sacro, e la buona sorte della nazione ebraica non dipendeva forse dalla loro totale osservanza?

Queste leggi civili che si addicevano a una nazione e non a delle comunità, gli Ebrei non volevano abbandonarle quando entravano tra gli altri popoli perché, sebbene fuori da Gerusalemme e dal regno di Israele queste leggi non avessero più di ragione di essere, rimanevano pur sempre obblighi religiosi per tutti gli Ebrei che si erano impegnati a rispettarle con un antico patto con la Divinità.

Così, ovunque gli Ebrei stabilirono della colonie, ovunque furono trasportati, chiesero non solo che si permettesse loro di praticare la propria religione, ma anche di non essere sottoposti agli usi dei popoli in mezzo ai quali dovevano vivere e di potersi governare secondo le proprie leggi. A Roma, Alessandria, Antiochia, in Cirenaica, poterono agire liberamente. Di sabato non erano chiamati davanti ai tribunali (3), si permise loro persino di avere propri tribunali speciali e di non essere giudicati secondo le leggi dell'impero: quando le distribuzioni di grano cadevano di sabato, si teneva la loro parte per il giorno seguente (4) potevano essere decurioni, ma esentati dalle pratiche contrarie alla loro religione (5); si amministravano da soli, come ad Alessandria, con propri capi, il proprio senato, l'etnarca, senza essere sottomessi all'autorità municipale. Dappertutto, volevano restare Ebrei e dappertutto ottenevano privilegi che permettevano loro di fondare uno Stato nello Stato. Grazie a questi privilegi, a queste esenzioni, a questi sgravi di imposta, si trovavano rapidamente in una situazione migliore di quella dei cittadini delle città dove vivevano; avevano maggiore facilità a trafficare e ad arricchirsi, così provocarono gelosie e generarono odio.

L’attaccamento di Israele alla sua legge fu dunque una delle cause principali della sua condanna, sia quando da questa legge traeva benefici e vantaggi suscettibili di provocare invidia, sia quando si gloriava dell'eccellenza della Torah per considerarsi al di sopra ed estraneo agli altri popoli.

Se gli Israeliti si fossero attenuti al puro mosaismo non vi è dubbio che, a un certo momento della loro storia, avrebbero potuto modificare questo mosaismo in modo tale da lasciar sussistere soltanto i precetti religiosi o metafisici; può anche darsi che, se avessero avuto come libro sacro soltanto la Bibbia , si sarebbero fusi nella Chiesa nascente che trovò i suoi primi adepti nei Sadducei, negli Esseni e nei proseliti ebrei. Un altro fattore impedì la fusione e mantenne gli Ebrei come popolo isolato fra gli altri popoli: l'elaborazione del Talmùd, il dominio e l'autorità dei dottori che insegnarono una presunta tradizione, ma questa azione dei dottori, sulla quale torneremo, fece degli Ebrei quegli esseri scontrosi, poco socievoli e orgogliosi di cui Spinoza, che li conosceva, ha potuto dire: "Non c'è da stupirsi che dopo essere stati dispersi per tanti anni abbiano continuato ad esistere senza governo, dal momento che si sono separati da tutte le altre nazioni, a tal punto che hanno fatto convergere su di sé l'odio di tutti i popoli, non solo a causa dei riti esteriori, contrari ai riti delle altre nazioni, ma anche per il segno della circoncisione" (6).

I dottori dicevano: lo scopo dell'uomo sulla terra sono la conoscenza e la pratica della Legge, e non si può pienamente praticare la legge se non sottraendosi alle leggi che non sono la vera Legge. L'Ebreo che seguiva questi precetti si isolava dal resto degli uomini, si trincerava dietro la siepe che intorno alla Torah avevano elevato dapprima Esdra e i primi scribi (7) e poi i Farisei e i Talmudisti eredi di Esdra, deformatori del mosaismo originario e nemici dei profeti. L'Ebreo non si isolò soltanto rifiutando di sottomettersi agli usi che creavano dei legami tra gli abitanti dei paesi in cui si era stabilito, ma anche respingendo ogni rapporto con gli abitanti stessi: all'insociabilità aggiunse l'esclusivismo.

Senza la Legge, senza Israele per praticarla, il mondo non esisterebbe, Dio lo farebbe ritornare nel nulla e il mondo conoscerà la felicità soltanto dopo essersi sottomesso all'impero universale di questa legge, cioè all'impero degli Ebrei. Pertanto, il popolo ebreo è il popolo scelto da Dio come depositario delle sue volontà e dei suoi desideri; è il solo popolo con cui la divinità ha stretto un patto, è l'eletto del Signore. Quando il serpente tentò Eva, dice il Talmùd, la corruppe con il suo veleno. Israele ricevendo la rivelazione del Sinai si liberò dal male; le altre nazioni non poterono guarirne. Così, anche se ciascuna ha il proprio angelo custode e le proprie stelle protettrici, solo Israele è posto sotto l'occhio stesso di Gèova ed è il figlio prediletto dall'Eterno, il solo che ha diritto al suo amore, alla sua benevolenza, alla sua speciale protezione; gli altri uomini sono posti al di sotto degli Ebrei e solo per pietà hanno diritto alla munificenza divina perché soltanto le anime degli Ebrei discendono dal primo uomo. I beni delegati alle nazioni in realtà appartengono a Israele e vediamo che Gesù stesso risponde alla donna greca: "Non è bene prendere il pane dei fanciulli per gettarlo ai cani" (8). Questa fede nella loro predestinazione, nell'essere gli eletti, sviluppò negli Ebrei un immenso orgoglio e quando alle ragioni teologiche si aggiunsero ragioni di patriottismo essi giunsero a considerare i non-Ebrei con disprezzo e spesso con odio.

Quando la nazionalità, ebraica si trovò in pericolo, sotto Giovanni Ircano, si videro i Farisei dichiarare impuro il suolo dei popoli stranieri, impure le relazioni tra Ebrei e Greci. Più tardi, gli Scamaiti in un sinodo proposero di stabilire una separazione totale tra Israeliti e Pagani ed elaborarono una raccolta di proibizioni chiamata Le diciotto cose che finì per predominare nonostante l'opposizione dei discepoli di Hillel. Così nelle esortazioni di Antioco Sidete, si incomincia a parlare dell'insociabilità ebraica, vale a dire "del partito preso di vivere esclusivamente in un ambiente ebraico escludendo qualsiasi relazione con gli idolatri, e dell'ardente desiderio di rendere queste relazioni sempre più difficili, se non impossibili" (9) e davanti ad Antioco Epifane vediamo il gran sacerdote Menelao accusare la legge di "insegnare l'odio verso il genere umano, proibire di sedere alla mensa degli stranieri e di mostrare loro benevolenza".

Se questi precetti avessero perso la loro autorità quando scomparvero le ragioni che li avevano motivati e in un certo qual modo giustificati, il male sarebbe stato limitato; ma li vediamo ricomparire nel Talmùd e l'autorità dei Dottori li ha riconfermati.

(…)  

*Bernarde Lazare nacque a Nimes nel 1865 in una famiglia di ebrei stabilitisi da secoli nel sud della Francia e ancora giovane andò a Parigi a completare gli studi. Nel 1884 pubblicò il libro "L'Antisemitisme, son histoire er ses causes" in risposta ai libri di Edouard Drumont.


Fonte: visto su disinformazione.it



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