E' un genocidio vecchio: quello che Robespierre perpetrò
contro i contadini della Vandea che erano insorti in difesa della fede e dei
sacerdoti. "Si sapeva che qualche atrocità era stata ammessa, ma la si metteva
sul conto della «guerra civile»", spiega Secher. "Io ho cercato i
documenti del massacro in Vandea. Non è stato facile. I documenti erano
dispersi, come da un uragano. Ciò che ho trovato è spaventoso.
In 18 mesi, fino alla caduta di Robespierre il 27 luglio
1794, i soldati della Rivoluzione uccisero 117 mila persone, su una popolazione
totale di 800 mila. 10 mila i casolari
distrutti su 50 mila.
"La stampa di sinistra ha contestato a Secher l'uso
della parola 'genocidio', che per essa va applicato solo ai crimini del
ventesimo secolo, non a quelli del 18", ha scritto Jean-Francois Revel su Le
Point.
"Ma di genocidio si trattò, in Vandea. Lo scopo
proclamato era di sterminare la popolazione; non solo i combattenti, ma anche
le donne e i bambini. Si distrussero sistematicamente i mezzi di vita della
popolazione, case, campi, bestiame, boschi. E non per anarchia, ma per un
disegno. Anche quando i ribelli erano ormai ridotti all'impotenza".
I documenti e le testimonianze recuperate da Secher
richiamano paurosamente, fin nei particolari, l'olocausto degli ebrei sotto il
Nazismo.
Da Parigi, la Convenzione moltiplica ai suoi comandanti in
Vandea l'esortazione allo "sterminio" allo "spopolamento",
come Himmler ordinava la «soluzione finale».
Ad Angers, il tribunale raccoglie le prove, il 6 novembre
1794, che decine di vandeani uccisi sono stati "scorticati dalla cintola
in giù", e la loro pelle, conciata, usata per farne pantaloni per i
soldati: allo stesso modo, ad Auschwitz, si fecero paralumi con la pelle degli
ebrei.
A Clisson, nell'aprile, 150 cadaveri di donne furono bolliti
per estrarne "10 barili di a grasso, inviati a Nantes".
A Chaux, un testimone depone di aver visto "fucilare da
400 a 500 bambini, di cui i maggiori avevano forse 14 anni".
Non c'erano i lager, ma le 'anticamere della morte', dove i
detenuti, in un affollamento inverosimile, erano lasciati morire di fame,
stenti e soffocati con suffumigi di catrame. I volontari addetti allo sterminio
chiamavano se stessi «Teste di Morto»:
lo stesso nome assunto dalle SS della sinistra Divisione «Toten kopf»
(«Testa di Morto» in tedesco).
"Ci fu perfino la volontà di creare camere a gas, ma i
mezzi tecnici mancarono", spiega Secher. "Un farmacista
rivoluzionario di nome Proust fece un esperimento con gas velenosi, ma non
funzionò. Come metodo di sterminio, perciò, si ricorse ai barconi, fatti affondare
nella Loira col loro carico di donne e uomini denudati. Un secolo e mezzo dopo,
i nazisti avrebbero trovato mezzi più efficaci". Delle spaventose scoperte
di Secher ha già parlato su Avvenire, il 6 febbraio scorso, Vittorio Messori.
Ciò che non si sa in Italia, sono i guai che il libro ha provocato al giovane
storico.
"Volevo sapere perché la casa di mia nonna, a Chapelle
Basse-Mer che è un paesino della Vandea, era stata ricostruita dopo la
Rivoluzione. Pubblicai le prime indagini sul paese. Pierre Chaunu [il famoso
storico della Sorbona, ndr] mi incoraggiò ad estendere la ricerca alla
repressione dell'intera Vandea: decidemmo che quello sarebbe stato il tema
della mia Thèse d'Etat".
E' la tesi post-laurea. Secher si mise al lavoro nell'83,
contando sulle sovvenzioni che il Ministero dell'Educazione mette a
disposizione per simili ricerche storiche. "Stranamente, non sono riuscito
ad ottenere un soldo. Ho speso di tasca mia 500 mila franchi,
indebitandomi".
Anni di ricerche in archivio a Roma, in Usa, persino in
Russia: i documenti della tragedia vandeana erano sparsi dovunque, tranne che
in Vandea. "Una settimana prima di discutere la tesi, ignoti ladri
penetrarono in casa mia e mi rubarono tutte le copie del mio lavoro",
racconta Secher. "Per fortuna avevo già depositato gli originali.
Due giorni prima dell'esame di Stato, mi si presenta un
signore che si spaccia come funzionario del Ministero dell'educazione, e mi
dice che non potevo discutere una simile tesi: avrei infangato l'onore della
Francia. In cambio del silenzio, mi offrì denaro e un posto sicuro
all'Università. Io rifiutai. 'Avrà molte noie', mi disse lasciandomi".
Nel luglio dell'85, Reynald Secher, che ha allora 29 anni,
discute alla Sorbona la sua tesi 'di Stato' davanti a una commissione
eccezionalmente portata a sette membri, invece dei cinque usuali. Domande
minuziose, un interrogatorio ostile. Ma presiede la commissione il professor
Channu, di cui Secher è allievo; e un altro suo docente, Francois Meyer
dell'Università di Rennes, difende il lavoro dello studente dicendo: "Sono
corresponsabile di questa ricerca". La Commissione deve accordargli il
massimo dei voti e la menzione d'onore. Il libro verrà pubblicato dalla Presse
Universitaire venderà 30 mila copie quasi un best-seller.
"Ma appena uscito il libro, sono stato vittima di una
campagna diffamatoria da parte della stampa di sinistra", racconta Sécher.
"Sono stato dipinto come un reazionario, un fascista
che gettava fango sulla gloriosa Rivoluzione. Max Gallo ha scritto contro di me
un libello definendomi un muscardin [dal nome dei picchiatori reazionari
che scatenarono la violenza «nera» alla fine della Rivoluzione Francese]".
Invano Pierre Channu ha scritto articoli in difesa del suo
allievo, s'è perfino mostrato in tv, nella trasmissione Apostrophes, per
denunciare il linciaggio morale.
"Ho ricevuto minacce di morte al telefono, mi hanno
licenziato dal liceo dove insegnavo, mi hanno cacciato dall'Università. Sono
rimasto disoccupato per un anno e mezzo: i potenziali datori di lavoro venivano
'dissuasi' dall'assumermi". La sua carriera universitaria è stata
troncata.
"Proprio quest'anno mi han detto chiaro e tondo che non
potrò mai aspirare a una cattedra", dice: "In Francia non si diventa
docenti per concorso. Si deve essere cooptati dal corpo dei professori". E
per lui non c'è posto in una corporazione dominata dalla sinistra e dai
'laicisti'.
Un lavoro, Secher ha dovuto inventarselo. Fa l'editore, e
stampa libri che raccontano l'altra verità sulla Rivoluzione. "Da poco ho
ristampato un 'libro bianco' che Gracchus Babeuf scrisse proprio per denunciare
il genocidio in Vandea", dice. Gracchus Babeuf, nato nel 1760, fu
ghigliottinato nel 1797, come capo o della Congiura degli Eguali: è uno dei
grandi della Rivoluzione, considerato il "padre del comunismo".
Sostenitore della proprietà comune della terra e dei mezzi
di produzione, nonché dell'assoluta eguaglianza di tutti i cittadini, propose
di eliminare la proprietà privata mediante confisca e abolizione del principio
di eredità. Con Filippo Buonarroti organizzò nel 1796 la congiura cosiddetta
'degli Eguali', che aveva come fine quello di instaurare una dittatura
rivoluzionaria basata sul comunismo dei beni. Scoperta la cospirazione, fu
nuovamente arrestato, condannato a morte e ghigliottinato.
Per guerre di Vandea si intende una serie di guerre civili
scoppiate a seguito della Rivoluzione francese durante la prima repubblica
francese, che vide come protagonisti la popolazione della Vandea e quella di
alcuni dipartimenti vicini, che insorsero contro la neonata repubblica.
La prima guerra di Vandea e la seconda guerra di Vandea
solitamente vengono accorpate in un unico periodo che va dal 1793 e il 1796.
L'insurrezione ebbe inizio nel marzo 1793, quando la Convenzione Nazionale
ordinò la leva obbligatoria per 300.000 uomini da inviare al fronte, e proseguì
per i successivi tre anni, con brevi tregue durante le feste come il Natale e
la Pasqua.
Una tregua vera e propria avvenne nella primavera del 1795
con la Pace di La Jaunaye, alla fine di questa, il 24 giugno 1795 inizia la
seconda guerra di Vandea, che terminerà l'anno successivo quando l'esercito
francese riuscì a sopprimere l'insurrezione, compiendo quello che, se venisse
riconosciuto, diverrebbe il primo
genocidio della storia moderna.
La terza guerra di Vandea durò solo tre mesi, dal 26 ottobre
al 17 dicembre 1799, terminando con l'armistizio di Pouancé: a causa
dell'instabile situazione politica, la Francia non avrebbe potuto sostenere una
nuova guerra civile e per questo motivo il nuovo governo francese preferì
acconsentire alle richieste degli insorti, in modo da evitare il ritorno delle
monarchia, che in quel momento sembrava imminente.
Sorte diversa ebbe la quarta guerra di Vandea, che iniziò
con qualche insurrezione nel marzo 1813 e terminò quando Luigi XVIII salì al
trono, nell'aprile 1814. La vera quarta guerra di Vandea scoppiò peraltro dopo
i cosiddetti Cento giorni il 15 maggio 1815 e terminò il mese successivo nella
fine del giugno 1815, quando Luigi XVIII ritornò sul trono di Francia. A
differenza dei precedenti conflitti, essa fu determinante per il ripristino
della monarchia, tanto che il nuovo sovrano, in segno di riconoscenza, conferì
il grado di generale dei granatieri reali (un corpo militare addetto alla
protezione del re) al generalissimo dell'armata vandeana Louis de La
Rochejaquelein, e lo stesso fece con il suo successore Charles Sapinaud, che
divenne generale e e fu insignito del titolo di duca.
Babeuf accusa la Convenzione e Robespierre di perpetrare in
Vandea un vero genocidio, impiccando, sgozzando, annegando, fucilando,
incendiando, violentando, torturando e saccheggiando una popolazione per lo più
inerme.
L’esecutore materiale di tale infamia, il truce Carrier ne dava
orgogliosi annunci alla Convenzione: donne da ammazzare perchè “solchi
riproduttori di mostri”, bambini da ammazzare perchè “briganti o futuri
briganti”; si collezionavano teste come trofei, si conciava la pelle umana per
farne oggetti e indumenti.
Lo studio storico della guerra di Vandea è segnato da una
serie di opinioni discordanti, che portarono alla nascita di una bibliografia
immensa, con due correnti principali in opposizione: gli studiosi favorevoli
alla rivoluzione francese e tutto ciò che ne derivò, quindi dalla parte dei
repubblicani; e quegli studiosi che ritennero che i cambiamenti portati dalla
rivoluzione francese fossero stati deleteri per la Francia di allora, e che si
schierarono quindi dalla parte dei vandeani. Tuttavia è errato definire questa
seconda categoria come i "monarchici", in quanto nonostante i vandeani appoggiassero
il re e fossero molto legati alla monarchia, non tutti i monarchici francesi
appoggiarono l'insurrezione e molti di quelli che avevano servito sotto il re
erano poi passati al servizio della repubblica. Inoltre i vandeani iniziarono
la rivolta solo in seguito all'attuazione da parte del governo francese di
misure repressive per il clero ed all'aumento delle tasse necessario alla
ricostruzione della Francia e alle spese militari per l'aggressiva politica
estera attuata negli anni successivi alla rivoluzione. Il ripristino della
monarchia rappresentava così per i controrivoluzionari vandeani una soluzione
per porre fine alla rivoluzione.
La tesi del genocidio, così come il termine stesso, risale
al XX secolo, tuttavia, nonostante questo concetto fosse piuttosto estraneo
alla mentalità dell'epoca, nel 1794 uno cronista del tempo François-Noël Babeuf
detto "Gracchus", pubblicò un libro dal titolo: "Du système de
dépopulation ou La vie et les crimes de Carrier" (in italiano, "Il
sistema di spopolamento e i crimini di Carrier) [In Italia pubblicato con il
titolo di "La guerra di Vandea e il sistema di spopolamento" ], nel
quale riporta alcune vicende della guerra e gli atti dell'intero processo di
Carrier. Nel libro conia un neologismo, che oggi si potrebbe considerare un
sinonimo di genocidio, ovvero "populicidio". La differenza con il
termine "genocidio", coniato da Lemkin nel 1944, sta solamente
nell'etimologia: in quando "genocidio" deriva dal greco
"ghénos" (razza, stirpe) e "cædo" (uccidere), mentre
"populicidio" deriva del latino "populus" (popolo).
Nel suo libro, Babeuf, si scagliò duramente contro la
"convenzione termidoriana", che riteneva colpevole del terrore e del
"populicidio". Babeuf infatti non fu un controrivoluzionario, ma anzi
aderì con entusiasmo alla rivoluzione e pensava che uno stato repubblicano non
avrebbe mai potuto sterminare una parte della sua popolazione, anche perché
riteneva che quei cambiamenti che stavano mutando la società francese sarebbero
dovuti avvenire in modo progressivo e senza l'uso della violenza. Per questo
motivo, decise di testimoniare quanto avvenne in tempi molto brevi, tanto che
scrisse questo libro in appena due mesi (venne pubblicato nell'inverno 1794).
Scelse, quindi, di riportare il primo avvenimento che diede iniziò al
populicidio, cioè il processo di Carrier che avvenne nel periodo della
"convenzione termidoriana" e secondo lui fu questo il motivo per cui
gli imputati non vennero condannati.
Link:
http://www.uccronline.it/2014/03/15/sergio-romano-dimentica-il-genocidio-vandeano/
DAL GENOCIDIO VANDEANO AL "MEMORICIDIO"
Articolo apparso sul n. 224 di Cristianità
Intervista con il professor Reynald Secher
Intervista
di Marco Respinti
di Marco Respinti
Il tema delle insurrezioni contro-rivoluzionarie nella
Francia Occidentale - particolarmente quello delle insurrezioni nella Vandea
Militare, episodiche sin dal 1789, ma esplose con grande rilevanza a partire
dal mese di marzo del 1793 - ha acquistato una certa notorietà per il mondo dei
mass media - attenti sempre e solo a ciò che "fa notizia" e
suscita clamore -, grazie all'allocuzione pronunciata da S. Em. il card. Paul
Poupard, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, il 18 luglio 1993
a Le Pin-en-Mauges, e al discorso tenuto dallo scrittore russo Aleksandr
Isaevic Solzenicyn il 25 settembre a Les Lucs-sur-Boulogne (cfr.,
rispettivamente, Jacques Cathelineau, "il Santo dell'Anjou", un
combattente sotto lo stendardo del Re del Cielo e Onore alla memoria
della resistenza e del sacrificio degl'insorti vandeani del 1793 contro la
Rivoluzione, in Cristianità, anno XXI, n. 222, ottobre 1993).
Al secondo avvenimento ha fatto eco anche la stampa italiana,
sulla quale hanno ritrovato voce alcuni pregiudizi, di per sé mai scomparsi,
che ancora una volta mostrano "in controluce" l'importanza e la
"scomodità" del ricordo dell'insurrezione vandeana. Per esempio, pur
sostenendo che "non si tratta di demonizzare il moto vandeano, né di
dimenticare gli eccessi sanguinosi e disumani della sua repressione (come
quelli dei ribelli, del resto)", il professor Giuseppe Galasso ha sottolineato che,
alla domanda se si possa o meno sostituire un riferimento politico-culturale
contro-rivoluzionario "di tipo vandeano" al "mito" della
Rivoluzione di Francia, "se si accettano certe confluenze
ideologico-celebrative, le risposte possono essere solo positive: ma non vi
consentono né la storia, né gli ideali della più alta tradizione europea.
Sarebbe come se in Italia celebrassimo la Santa Fede o il Viva Maria! toscano,
il cardinale Ruffo e i Borboni o i Savoia della Restaurazione. Niente male,
davvero, per cominciare il secolo XXI" (È come se noi onorassimo il
Sanfedismo, in Corriere della Sera, 24-9-1993).
Nel mese di ottobre del 1993, il professor Reynald Secher ha compiuto un breve
ciclo di conferenze in Italia, in occasione del secondo centenario del
genocidio vandeano. Reynald Secher, dal 1989 a oggi, è stato più volte protagonista
di congressi e di conferenze organizzate da Alleanza Cattolica, a partire dal
convegno internazionale Contro l'Ottantanove. Miti, interpretazioni e
prospettive, svoltosi a Roma il 25 e 26 febbraio 1989 (cfr. "Contro
l'Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive", in Cristianità,
anno XVII, n. 167-168, marzo-aprile 1989), che fu l'occasione della sua prima
comparsa pubblica italiana e l'avvio della sua notorietà nel nostro paese.
Hanno fatto seguito, poi, numerose altre manifestazioni, incontri e conferenze,
organizzati direttamente o indirettamente da Alleanza Cattolica (cfr., per
esempio, Reynald Secher: il genocidio vandeano, in Cristianità,
anno XX, n. 207-208, luglio-agosto 1992).
Il 27 ottobre 1993 Reynald Secher ha tenuto una conferenza dal
titolo Vandea 1793-1993: la memoria di un genocidio, organizzata da
Alleanza Cattolica nella Sala delle Colonne Verdi, presso la parrocchia di
Santa Francesca Romana in Milano, brevemente introdotto dell'avvocato Benedetto Tusa, dell'associazione
promotrice. La conferenza è stata annunciata, il giorno stesso, sul Secolo
d'Italia, e un'intervista con lo storico francese - raccolta nell'occasione
- è comparsa, a cura di Fabrizio
Crivellari, su L'Italia settimanale (anno II, n. 46, 17-11-1993, pp.
48-49), con il titolo Robespierre, padre dei razzisti. Al termine della
serata milanese è stata registrata un'intervista - introdotta dal dottor Enzo Peserico, di Alleanza Cattolica -
con lo studioso francese, per Radio Onda Verde, di Cremona. Il 28
ottobre Reynald Secher ha parlato, sempre a Milano, alle alunne della scuola
Monforte, mentre il 29 ha trattato il medesimo tema per gli alunni della scuola
Argonne.
Il 30 ottobre Reynald Secher si è trasferito a Bologna dove
è stato ricevuto dall'arcivescovo, S. Em. il card. Giacomo Biffi. Nel corso della mattinata lo studioso ha tenuto una
conferenza - organizzata dal Centro Culturale Enrico Manfredini nella sala di
rappresentanza della Cassa di Risparmio, con il patrocinio dell'università, e
ampiamente annunciata dalla stampa locale - dal titolo Quando uccidono un
popolo, introdotto dal card. Giacomo Biffi. Entrambi gli oratori sono stati
presentati dal dottor Raffaello Vignali,
presidente del sodalizio organizzatore, che, fra l'altro, ha detto: "Nel
titolo che abbiamo dato alla giornata odierna, abbiamo tentato di sviluppare
questi spunti: un momento del tempo, un accadimento cruento e terribile, un
giudizio: quando uccidono un popolo. Sono mutati i tempi, sono diversi i
contesti da quello che il proto-comunista Gracchus
Babeuf già stigmatizzava, ma il popolo può essere sempre ucciso
dall'ideologia del momento, assuma essa l'abito sanguinoso della guerra o
quello più apparentemente rispettabile dell'omologazione sociale. Soprattutto
quando l'ideologia - fosse anche quella dello Stato - pretende di eliminare la
libertà religiosa, o meglio la Libertas Ecclesiae, che è la condizione di ogni
libertà civile".
Nell'introduzione - integralmente pubblicata in Avvenire,
del 31 ottobre 1993, nel supplemento regionale Bologna Sette, con il
titolo Biffi ricorda Manzoni - il card. Giacomo Biffi ha, fra l'altro,
ricordato che "la diffusa tendenza a vedere nella Rivoluzione Francese
un evento tutto luminoso e positivo, senz'ombre e senza peccati, "è una
prospettiva - dicevo quattro anni fa - che dà risultati storiografici di
notevole comicità, sia pure involontaria". Purtroppo proprio questa
visione encomiastica è ancora quotidianamente imposta nelle nostre scuole e
nella divulgazione corrente, nonostante le revisioni che ormai in sede scientifica
si stanno affermando, specialmente in Francia".
"Non si può disconoscere - ha proseguito il
porporato - che nel 1789 si è messo in moto un processo sociale e politico
che ha portato in molte parti della terra al pubblico riconoscimento dei diritti
fondamentali dell'uomo e alle forme democratiche di vita associata. Anche se
bisogna pur ammettere che le genti anglosassoni sono arrivate per altra strada,
a minor prezzo e con esiti generalmente più soddisfacenti, agli stessi
risultati.
"Ma non si può nemmeno ignorare che col genocidio
vandeano, col regicidio e con il Terrore si è affermato esplicitamente ed è
stato applicato per la prima volta su larga scala il principio che sia
legittimo e perfino doveroso sopprimere chi è personalmente innocente in vista
dell'attuazione di un programma, dell'imposizione di persuasioni ritenute
indiscutibili, del trionfo di una ideologia".
"In quanto è avvenuto nel 1793- sono sempre
parole dell'arcivescovo di Bologna - trovano le loro premesse le stragi che
hanno insanguinato l'intero secolo XX in nome o di un assurdo ideale di
giustizia, o di un'aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un
egoismo mascherato da civile comprensione (come avviene nelle odierne
legislazioni contro la vita).
"Da quanto è avvenuto nel 1793 hanno trovato il
primo impulso e la propria legittimazione i grandi criminali del nostro tempo,
come Lenin, Stalin, Hitler, con tutta la schiera dei loro sciagurati imitatori.
"Ricordiamoci dunque dell'89 e ricordiamoci del 93:
prendiamo atto di tutto ciò che è avvenuto, senza esclusioni, e riflettiamoci
sopra".
Le parole del porporato sono state ampiamente riprese e
talora commentate, e due di questi commenti appaiono particolarmente degni di
nota, in quanto rivelatori di atteggiamenti ideologici precisi.
Il primo commento è di Giordano
Bruno Guerri, che scrive "Biffi straparla ed è in malafede",
aggiungendo: "Quello di Biffi è
un tentativo di restaurazione della peggior specie. Il cardinale riprende tesi
vecchie di due secoli, già usate ed abusate dalla Chiesa per dire che tutti i
mali della società moderna nascono dalla Rivoluzione. La verità è che la Chiesa
in questo periodo ha ripreso slancio aggressivo sulla base della debolezza
intellettuale dei laici. Le ultime uscite dei vescovi sono la logica
conseguenza della posizione oscurantista del Sillabo, come quella espressa dal
papa nella "Veritatis Splendor", il cui succo non è altro che questo:
non c'è salvezza fuori dalla Chiesa, e l'unica cosa che dovete fare è obbedire
al papa, senza possibilità di discussione". Dunque - conclude il
giornalista "storico" - "per me, invece, la rivoluzione è uno
degli eventi più positivi di tutta la storia umana" (Ma lo storico
ribatte "Il cardinale straparla", in L'Indipendente, 31-10/1-11-1993).
Il secondo commento è di Carlo Ghisalberti che a sua volta scrive: "Il ricordo di
quella forza e di quella violenza sembrano ancora turbare le coscienze e
dilacerare gli animi di molti offuscando ai loro occhi l'immagine degli
eserciti della rivoluzione che da Valmy a Waterloo hanno cambiato il corso
della storia europea ed inducendoli, addirittura, come ha fatto Solzhenicyn, e
ora sembra fare il cardinale Biffi, a negare ogni positività di quella storia
per le conseguenze che da essa sarebbero scaturite culminando nei più spietati
totalitarismi contemporanei, e cioè in quello nazista e in quello sovietico.
"È una tesi che non si può accettare perché l'Europa
democratica e liberale ha tratto dai principi dell'89 non soltanto la forza
morale per resistere al fascismo ed al nazismo ma anche di opporsi al comunismo
che qualche conservatore, ripercorrendo strade già note, vuole polemicamente
far derivare dalla rivoluzione francese, contestandone e negandone, in nome
della Vandea, il significato più autentico" (Bisogna andarci piano
con l'elogio della Vandea, in il Giornale, 1-11-1993).
REYNALD SECHER -
discendente sia da bretoni che da vandeani - nasce a Nantes il 27 ottobre 1955.
Di formazione giuridica e storica, si laurea in lettere e il 14 aprile 1983 discute
una tesi di dottorato del 3° ciclo in scienze storiche e politiche
all'università di Parigi IV-Sorbona dal titolo
Anatomie d'un village
vendéen: La Chapelle-Basse-Mer, relatore il professor Jean Meyer, di fronte
a una commissione di cui fanno parte i professori Pierre Chaunu e André
Corvisier. Tale tesi è successivamente pubblicata con il titolo
La
Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution, con
una
Prefazione di Jean Meyer (Perrin, Parigi 1986).
REYNALD SECHER
Nel 1985, sempre all'università di Parigi IV-Sorbona Reynald
Secher sostiene una tesi per il dottorato di ricerca in lettere e
scienze umane, dal titolo Contribution à l'étude du génocide
franco-français: la Vendée-Vengé, relatore sempre il professor Jean Meyer e
i professori Pierre Chaunu, André Corvisier, Yves Durand, Louis Bernard Mer,
Jean Tulard e Jean-Pierre Bardet membri della commissione. Codesta tesi -
rubata al suo autore pochi giorni prima di venire discussa (cfr. La thèse de
Doctorat sur le génocide vendéen disparait, in Presse Océan,
19-9-1985) - è pubblicata come Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé
(Presses Universitaires de France, Parigi 1986), con una Prefazione
di Jean Meyer e una Presentazione di Pierre Chaunu (trad. it., Il
genocidio vandeano, Effedieffe, Milano 1991). "La Vandea, il 21
settembre 1985, è entrata alla Sorbona dalla porta principale": così
Pierre Chaunu ha scritto nella Presentazione di tale opera (p. 17),
della quale dice, "[...] il libro è di Reynald Secher, ma il
titolo è proprietà mia, dal 1983" (Le grand déclassement. À propos
d'une commemoration, Robert Laffont, Parigi 1989, p. 11). Poi Reynald
Secher cura - con Jean-Joël Brégeon - la ripubblicazione del libro di Jean-Nöel
"Gracchus" Babeuf, La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento
(trad. it, Effedieffe, Milano 1991), a cui fanno seguito la guida
storico-turistica La guerre de Vendée. Itinéraire de la Vendée Militaire (Tallandier,
Parigi 1989), il romanzo "Les Vire-Couettes" (Presses de la
Citè, Parigi 1989) e Juifs et Vendéens. D'un génocide à l'autre. La
manipulation de la mémoire (Olivier Orban, Parigi 1991). Conscio della
necessità di raggiungere anche il pubblico non specialistico, Reynald Secher
cura la preparazione scientifica di alcune video-cassette nonché la
sceneggiatura e la redazione dei testi di alcuni albi a fumetti, realizzati in
collaborazione con il disegnatore René Le Honzec. Dal 1991, lo studioso
francese dirige una propria casa editrice, le Éditions Reynald Secher di
Noyal-sur-Vilaine. Già docente in diversi college, licei e scuole
superiori, nonché, per un anno, all'università del Diritto di Rennes,
attualmente Reynald Secher insegna a Sciences Com, di Nantes, e presso l'ESIG,
l'École Supérieure d'Informatique et de Gestion, di Rennes, svolgendo corsi
sulla cultura e sull'identità della regione della Loira. Dal 1986 al 1989, lo
studioso ha ricoperto la carica di direttore della Comunicazione del Consiglio
Regionale del Poitou-Charentes, mentre dal 1990 è consigliere culturale del
Patronat Breton.
In occasione delle diverse conferenze italiane, nel corso di
lunghe conversazioni - durante le quali lo studioso ha spesso fatto riferimento
all'opera di Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione,
per descrivere l'eredità culturale e ideologica della Rivoluzione del 1789 -,
ho raccolto un'intervista.
D. Perché
ha deciso di dedicarsi allo studio delle guerre nella Francia Occidentale?
R. Da parte di madre discendo da una
famiglia vandeana che fu oggetto di una repressione particolare ad opera dei
rivoluzionari. Ma, benché conoscessi alcuni fatti di questa vicenda, non ne ero
stato influenzato significativamente per la semplice ragione che non avevo mai
risieduto in Vandea abbastanza a lungo, avendo condotto i miei studi
soprattutto in Bretagna. La ragione per la quale mi sono poi dedicato a codesti
studi è altrettanto semplice: il "caso". Ossia il caso dell'incontro
- in un luogo ben preciso, il corridoio dell'università... - con il grande
studioso francese, d'origine alsaziana, Jean Meyer, docente alla Sorbona. La
consuetudine, in Francia, vuole che il soggetto della tesi di laurea venga
assegnato al laureando dal docente: quando mi recai da Jean Meyer per
sollecitare la scelta dell'argomento della mia ricerca, egli non sapeva che
cosa propormi. Ne discutemmo nei corridoi dell'università e, al momento della
separazione, egli ebbe l'idea di un lavoro sulla Vandea. Il fatto interessante
è che, di fronte a questa sua proposta, fui relativamente reticente perché ero
convinto che gli avvenimenti occorsi in Vandea fossero ormai ben conosciuti e,
soprattutto, perché ritenevo acclarato che tali fatti non avessero alcuna
importanza di per se stessi, se non in quanto esempio della reazione di una
popolazione che non era più d'accordo con uno Stato desideroso di affermare
soltanto il proprio benessere. Fui piuttosto contrario a tale studio finché
Jean Meyer non mi fece comprendere che non era mai stata condotta alcuna
ricerca scientifica sull'intera vicenda e che rimaneva, dunque, ancora molto da
analizzare a livello tanto documentale quanto formale. Questo accadeva nel
1978; le mie ricerche sono durate fino al 1986, lavorando soprattutto a partire
da documentazione privata, conservata da sacerdoti, da religiosi e da famiglie
contadine, artigiane, borghesi e nobili. Parallelamente a tale documentazione
privata vi era pure documentazione pubblica, sia militare, sia civile: quella
militare, in particolare, si trova concentrata presso gli archivi della
fortezza di Vincennes - vicino a Parigi -, mentre quella civile si trova
normalmente presso i municipi, presso i dipartimenti o presso gli archivi
nazionali.
D. Quali
sono stati i problemi che ha dovuto affrontare per aver sostenuto la sua tesi
sul genocidio vandeano alla Sorbona e per aver poi pubblicato i suoi libri sul
medesimo tema?
R. All'epoca ero molto giovane e non ero del tutto
cosciente del problema che la ricerca sulla Vandea avrebbe posto. Ovviamente,
il relatore e io sapevamo che tale ricerca era stata di fatto vietata per
duecento anni circa, ma credevamo che ciò fosse dovuto a motivazioni banali. In
un secondo tempo ci siamo resi conto che, effettivamente, questa volontà di non
ricordare i fatti occorsi in Vandea era maggioritaria, e che causava quindi una
serie di problemi per quanto concerneva l'accesso alle fonti documentarie,
l'ottenimento di sovvenzioni per la ricerca e altre questioni d'ordine
amministrativo. Comunque, è importante che, nonostante grandi difficoltà, sia
riuscito a concludere i miei studi. La situazione si è poi evoluta molto più
rapidamente una settimana prima di discutere la tesi alla Sorbona, dato che
Pierre Chaunu aveva parlato di questi miei studi ai giornali, sostenendo che
davvero in Vandea si era praticato un genocidio e che finalmente tutto questo
era stato inoppugnabilmente e scientificamente dimostrato. Devo solo constatare
che una settimana prima della discussione della tesi il mio appartamento a
Rennes è stato svaligiato e che le copie della stessa tesi mi vennero
sottratte; che pure, in un secondo tempo, cinque giorni prima della
discussione, un funzionario di dipartimento della Pubblica Istruzione mi
convocò per domandarmi di non sostenere - in nome della Francia - codesta tesi
che stava per infrangere un mito, quello della Rivoluzione. Ben inteso, mi
sarebbero stati dati compensi, sia professionali che economici. Non potei
naturalmente accettare, dato che - come storico fuori dall'ottica ideologica -,
ero e sono animato soltanto dal desiderio di narrare i fatti reali. Se si
rilegge tutta la documentazione su questa vicenda, è interessante notare che
Pierre Chaunu - si è cercato di comperare anche lui, senza alcun successo... -
ha notificato, a conclusione del verbale della discussione della mia tesi, che,
a causa della profondità, della serietà e delle conseguenze delle mie ricerche,
la mia carriera universitaria sarebbe stata interrotta: gli avvenimenti
successivi gli hanno dato ragione. Fui diffamato dai giornali, la mia famiglia
fu coinvolta e fui quindi costretto a dimettermi dall'insegnamento pubblico e,
dato che l'insegnamento superiore francese è relativamente
ideologizzato, non ho più potuto insegnare negli atenei, cosicché oggi svolgo
attività d'insegnante presso istituzioni private.
D. I
suoi studi sulla Vandea hanno, dunque, costituito un approccio del tutto nuovo
al tema, soprattutto per quanto riguarda l'idea e la realtà del
"genocidio" perpetrato contro la popolazione della regione insorta.
Nessuno prima di lei aveva, infatti, documentato il piano genocida ordito dalla
Convenzione...
R. Riguardo alle pubblicazioni precedenti i miei
studi, è interessante il fatto che si conosceva piuttosto bene un certo numero
di avvenimenti, come le grandi battaglie, le vite dei capi dell'insurrezione, e
così via. Per contro, non si aveva conoscenza alcuna della programmazione,
della votazione e della realizzazione sul terreno del genocidio. Ossia, nessuno
aveva riflettuto su questa tematica e sull'enormità stessa di tale fatto.
Quando iniziai le ricerche, non era assolutamente mia intenzione giungere a
tale scopo: ho ricostruito questo puzzle, allora sorprendente,
sulla base dello svolgimento scientifico del mio studio. Mi sono, dunque, reso
conto che lo Stato francese aveva votato un certo numero di provvedimenti, che
un certo numero d'ordini era stato trasmesso alle truppe e che queste stesse
avevano ligiamente eseguito tali ordini. In breve mi resi conto che i fatti di
Vandea non erano assolutamente una semplice somma di massacri - la terminologia
è molto importante -, ma che corrispondevano a un piano di sterminio e di
annientamento che era stato - ripeto - programmato, votato e realizzato dalla
Convenzione.
Nel mese di aprile del 1793, il ministro Bertrand Barère,
membro del Comitato di Salute Pubblica, fu il primo a utilizzare il termine
"sterminio" nei confronti della Vandea. Poi - questa è l'unicità
storica del caso vandeano - la Convenzione votò ben tre leggi al fine di
eliminare una parte del popolo francese, ossia una parte del popolo che essa
rappresentava:
1. la legge del 1° agosto dello stesso anno, che
prevedeva l'annientamento fisico del territorio vandeano e la distruzione di
tutte le ricchezze, degli abitati, delle foreste e dell'intera economia,
secondo la politica della "terra bruciata";
2. poi, la legge del 1° ottobre che ordinava lo sterminio
fisico di tutti gli abitanti del territorio insorto, principalmente delle
donne, in quanto "solchi riproduttori", e dei bambini,
in quanto "futuri briganti";
3. finalmente, la legge del 7 novembre, che toglieva al
dipartimento il nome di Vandea, per sostituirlo con quello di Vengé,
ossia "dipartimento vendicato", seguendo la stessa idea secondo cui
la ghigliottina era "vendicatrice del popolo" e il boia
"vendicatore": si disse, infatti, che gli insorti erano "fuori
legge", dunque non più buoni repubblicani, pertanto non più uomini, ma
solo animali che non potevano possedere un territorio loro proprio... È la
"vendetta nazionale"...
Gli orrori si moltiplicarono dopo la fine della guerra
civile, nel dicembre del 1793. Il progetto era quello di creare l'"uomo
nuovo" repubblicano e così, con ogni mezzo, si dovevano sterminare gli
oppositori: fucilazioni, ghigliottina, annegamenti nei fiumi, camere a gas,
avvelenamento, ma - soprattutto - le famose Colonne Infernali del generale
Louis Marie Turreau de Garambouville, la flotta schierata sulla Loira e il
Comitato di Sussistenza, incaricato del saccheggio. Si bruciarono i corpi dei
vandeani, si conciò la pelle umana... Su circa 815.000 abitanti, oggi si
calcola che almeno 117.000 persone circa scomparvero: ma il problema è quello
di stabilire se l'ordine di sterminio da parte della Convenzione - la legge del
1° ottobre -, da attuarsi soprattutto con l'eliminazione delle donne, fu
eseguito. Grazie agli archivi parrocchiali si è potuto verificare che fra il 70
e l'80 % delle vittime furono donne. Con riferimento alla legge del 1° agosto,
poi, ho cercato di stabilire se anche la volontà di distruggere economicamente
il territorio venne rispettata. Si è acclarato che circa un quinto delle case
della Vandea furono distrutte, con apici di circa l'80 % in alcuni villaggi.
Per esempio a La Chapelle-Basse-Mer furono distrutte circa una casa su tre:
ricostruendo il valore immobiliare di tutte le case, è stato possibile rilevare
che le abitazioni abbattute rappresentavano circa il 51% della ricchezza. Si
distrussero di preferenza i borghi centrali, attorno ai quali orbitavano
villaggi minori, in quanto centri commerciali e di ricchezza: con questo
sistema è stato addirittura possibile ricostruire in dettaglio gli itinerari
seguiti dalle sei Colonne Infernali.
D. Lei
sostiene che in Vandea, per la prima e l'ultima volta nella storia, uno Stato -
il popolo sovrano - ha votato, ordinato ed eseguito lo sterminio sistematico e
voluto di una parte di sé stesso. Una delle critiche a tale descrizione,
sostiene sofisticamente che essa "relativizzerebbe" l'olocausto
ebraico...
R. Sostengo che il genocidio vandeano è un fatto
unico nella storia per quanto riguarda le modalità adottate. Fu il popolo
sovrano a concepire, a votare, a programmare e a eseguire lo sterminio. Per
quanto riguarda l'olocausto ebraico, i fatti non si svolsero assolutamente
così: si trattò di un uomo, insieme a un gruppo di altri uomini, che concepì e
fece eseguire lo sterminio di una minoranza - quella ebraica - presente sul
territorio nazionale. Costoro agirono senza la partecipazione del resto della
popolazione nazionale, la quale non potè direttamente o indirettamente
esprimere la propria opinione.
D. Com'è stato possibile che nessuno, prima,
abbia scoperto i documenti pubblici da lei utilizzati per le ricerche,
evidenziandone i contenuti e i risvolti profondi?
R. La ragione è molto semplice, benché duplice. La
spiego nel mio Juifs et Vendéens. D'un génocide à l'autre. La manipulation
de la mémoire: quanti hanno concepito il crimine, hanno pure concepito tutta
una politica di manipolazione della storia proiettata verso il futuro.
Maximilien Robespierre, mentre sterminava i vandeani, offrì alla storia una
giustificazione. E il secondo aspetto è costituito dal fatto che tutta questa
vicenda è stata vietata alla ricerca universitaria per duecento anni circa.
Nessuno studioso ha, dunque, compreso e ricostruito questo sterminio. Chi
volete che si ricordi degli avvenimenti? Nessuno. Infatti, da un lato si ha una
storiografia ufficiale completamente manipolata e, di conseguenza, una
storiografia scientifica che diviene ufficiosa; dall'altro lato,
parallelamente, si ha il fatto che nessuno scienziato ha potuto ricostruire il
mosaico. Così si è giunti all'ignoranza dei fatti che ho denunciato, il che
dimostra come la manipolazione della memoria storica sia perfettamente
riuscita.
D. Prima delle sue pubblicazioni si sono
contate fino a circa 15.000 opere sulle guerre nella Francia Occidentale:
eppure, nessuna di esse è riuscita a descrivere compiutamente l'intero
meccanismo del genocidio vandeano. Così la novità dei suoi studi è stata quella
di aver offerto il quadro di riferimento - l'esplicito progetto di genocidio -,
al quale devono essere ricondotte tutte le altre narrazioni e tutti gli altri
particolari dell'accaduto.
R. Certamente sì. Grosso modo, esistono due
scuole storiografiche sul tema. Una scuola definibile come
"conservatrice" - che denunciò in nome del re e della Chiesa i
massacri della popolazione -, molto precisa riguardo ai fatti, senza peraltro
aver compreso quanto stava dietro l'accaduto e che ragionava, così, solo in
termini di "massacro". L'altra è la scuola "ufficiale"
precedentemente ricordata - prima "repubblicana" e poi marxista -,
giustificatrice della necessità di sterminio della popolazione in quanto
ribelle contro una repubblica "buona e generosa". Bene inteso,
quest'ultima scuola ha giustificato i massacri secondo l'ottica che considerava
i vandeani come traditori dell'ideologia e della patria, dato che essi avevano
sollecitato l'aiuto degli stranieri e dei francesi emigrati, fuggiti
all'estero. Dunque, nessuno poteva spiegare i fatti obbiettivamente, perché il
dibattito storiografico era divenuto un dibattito esclusivamente ideologico.
Tutto il mio lavoro è consistito, fuori dall'ideologia e dalla partigianeria
politica, nel ricostruire il quadro giuridico di fondo, oltre a tutto quanto è
poi concretamente accaduto sul terreno, in relazione appunto alle misure legali
adottate. Questo è l'inedito.
D. Come le è stato possibile ritrovare i
documenti privati e riscoprire quelli pubblici, e quali metodi scientifici ha
adoperato per la sua indagine storica?
R. L'itinerario che Jean Meyer mi ha fatto seguire
è stato assolutamente e giustamente scientifico. Il mio relatore e io avevamo
chiara coscienza del fatto che esistevano migliaia di libri sul tema, ma
abbiamo preso le mosse dalla constatazione che tali libri avevano avuto
un'impostazione esclusivamente polemica o ideologica: da qui la necessità di
ritornare alle fonti primarie. Ci siamo così posti la domanda fondamentale se
tali fonti esistessero ancora. Si è deciso di partire analizzando un
determinato Comune, ossia La Chapelle-Basse-Mer, nel tentativo di ricostruire
il quadro dell'intera documentazione generale del territorio insorto. Nello
stesso tempo abbiamo adoperato questa specie di "quarantena
scientifica" per mettere a punto metodi di proiezione e di analisi. La
grande scoperta è stata, in realtà, questa: ci siamo resi conto che le fonti
primarie esistevano, ma che, siccome nessuno le aveva adoperate, esse erano
sparse dappertutto, sia nel senso delle strutture amministrative pubbliche o di
quelle private che le conservavano, sia nel senso propriamente geografico,
perché le fonti erano distribuite tanto in Bretagna quanto nelle regioni della
Vandea Militare o del resto di Francia, e oltre le frontiere nazionali,
principalmente in Belgio, in Italia, in Gran Bretagna e anche in Canada, negli
Stati Uniti d'America e in Australia. Così abbiamo condotto un'enorme indagine
documentaria, ottenendo un certo numero di tessere del mosaico, che abbiamo
alla fine ricondotto a unità.
D. Dunque,
lo studio per la sua tesi del 3° ciclo, in scienze storiche e politiche, poi
reso pubblico come La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et
contre-révolution, costituisce la prima ricerca specifica sul tema,
dilatando la quale lei ha potuto descrivere il quadro generale.
R. Sì, certamente. Lo studio sul villaggio di La
Chapelle-Basse-Mer è stato decisivo. Poiché la mia formazione è poliedrica -
ossia letteraria, giuridica, storica, geografica e imprenditoriale -, mi sono
trovato a utilizzare un metodo scientifico che non è solo quello
tradizionalmente storico, ma piuttosto una somma di diversi metodi del tutto
originale. Il mio relatore e io abbiamo così lavorato sul
"laboratorio" costituito dal villaggio di La Chapelle-Basse-Mer, un
villaggio molto importante in quanto Comune crocevia fra la Vandea Militare e
la Bretagna, oltre a essere geograficamente primo comune-parrocchia della Bretagna,
prima parrocchia della Vandea Militare, parrocchia della valle della Loira e
parrocchia dell'Anjou. Dunque, una parrocchia dove tradizioni, usi e costumi
differenti si sono confrontati, magari si sono scontrati, comunque segnando
profondamente la popolazione, tanto a livello culturale che a livello politico,
sociale, economico e religioso. Il nostro lavoro ha cercato di spiegare quanto
avvenne in questo villaggio prima, durante e dopo l'insurrezione, con tutte le
conseguenze - lungo i secoli XIX e XX - culturali, sociali, economiche e
religiose, oltre che a livello strettamente ecclesiale. Così, assunto come dato
un Comune, abbiamo circoscritto tutto quanto poteva esservi accaduto,
estrapolando da qui, infine, il metodo per l'intera Vandea Militare.
D. Perché
avete deciso di ripubblicare il libro La guerra di Vandea e il Sistema di
spopolamento del "proto-comunista" Gracchus Babeuf?
R. Anche per tutto quanto concerne il pamphlet
di Gracchus Babeuf si può parlare di caso. La pubblicazione in Francia della
prima edizione del mio Il genocidio vandeano, nel 1986, diede
origine a un grande dibattito. La polemica veniva soprattutto dagli ambienti di
sinistra, "freddati" a livello ideologico in quanto essi si
consideravano come i figli della Rivoluzione francese e non potevano tollerare
che la propria "madre" avesse commesso un genocidio. Inoltre, la
sinistra voleva commemorare il bicentenario, nel 1989, con grandi
festeggiamenti e si riteneva di non poter far festa attorno a un genocidio. Fra
l'altro, si cercò di far credere all'opinione pubblica che il mio approccio nei
confronti della Vandea Militare risentiva dell'attualità e della modernità,
prendendo significato solo in rapporto ai crimini che il nazionalsocialismo
tedesco aveva perpetrato contro gli ebrei, i cattolici e gli zingari durante la
seconda guerra mondiale. Dunque, si voleva far credere all'esistenza di un
anacronismo di pensiero e di concetto. Avevo già avuto occasione di mostrare il
rigore degli studi condotti, nonché per illustrare i documenti originali
utilizzati: dovevo soltanto provare che, all'epoca dei fatti, si ebbe coscienza
dell'enormità del crimine commesso. Tutto ciò assomigliava molto a un
"falso problema", ma era comunque difficile, di fronte all'opinione
pubblica, superare tale questione. Evidentemente l'ideale era dimostrare tutto
questo con scritti, elemento che ci mancò finché non fu riscoperto il libro di
Gracchus Babeuf. Esso costituisce la reazione di un uomo, noto come il
"padre del comunismo", scandalizzato dai crimini commessi contro
l'umanità. Gracchus Babeuf fu non solo
contemporaneo degli avvenimenti, ma perfettamente in grado di comprendere
quanto era realmente successo. Da qui la sua denuncia fatta in occasione del
primo processo contro alcuni responsabili di tali crimini: con il suo pamphlet
intese spiegare al giudice del tribunale la realtà dei fatti e, nello stesso
tempo, mostrare di avere piena coscienza del fatto che, in ragione della
strategia della comunicazione adoperata da Maximilien Robespierre e dalle sue
comparse, la storia avrebbe rischiato di non rammentarsi più, nel futuro, di
tali crimini. Gracchus Babeuf - lo afferma nella parte introduttiva - scrive
per la storia. E aveva ragione: la storia, non solo ha dimenticato tutto
questo, ma l'ha innanzitutto negato. Infine, il pamphlet di Gracchus
Babeuf è importante, perché ci ha permesso di rispondere alla domanda dalla
quale eravamo partiti: ossia, se i mandanti e gli esecutori del genocidio
sapevano quanto stavano compiendo. Gracchus Babeuf permette anche di rispondere
all'interrogativo sull'identità e sulle motivazioni dei mandanti, una domanda a
lungo disattesa. Si trattò di Maximilien Robespierre, un ideologo fanatico e
convinto di detenere il monopolio della verità, fuori dalla quale non si può
avere "salvezza". Le sue motivazione furono ugualmente ideologiche:
bisognava creare l'"uomo nuovo" e, per questo, si dovevano sterminare
tutti coloro la cui mentalità non coincideva con gli schemi dell'ideologia.
Dividendo i francesi in "buoni" e in "cattivi", lo sterminio
venne praticato soprattutto a partire dai sacerdoti, dagli anti-rivoluzionari
in armi e dai contro-rivoluzionari coscienti: un progetto che si voleva
estendere a tutto il territorio nazionale. Perciò la Vandea fu un vero e
proprio "laboratorio" per la "rigenerazione"...
Ma esiste anche una seconda interessante motivazione
d'ordine economico. Maximilien Robespierre mostrò di avere un approccio "malthusiano ante litteram" rispetto alla realtà economica: ossia, a
causa della difficile crisi finanziaria prodotta dalla guerra contro le potenze
estere, il prodotto alimentare interno risultava insufficiente per sovvenire
alle necessità della popolazione. Di conseguenza, poiché non vi era più
nutrimento sufficiente per tutti, si rese necessaria la soppressione di una
parte della popolazione, iniziando da tutte le "bocche inutili", come
parroci, "buone suore", aristocratici e nobili. Ma quando ci si rese
conto che l'insieme di tutti costoro non costituiva un numero sufficiente, si
decise di sterminare interi gruppi umani, iniziando da chi "si era
permesso" di prendere le armi contro la Rivoluzione. Primi fra tutti
coloro che si opponevano alla Rivoluzione con ferme motivazioni d'ordine
ideale. L'opuscolo di Gracchus Babeuf, scritto nel mese di dicembre del 1794,
ha una storia interessante: fu vietato e distrutto, per essere da noi ritrovato
quasi per caso circa duecento anni dopo. Non si tratta, per altro, di un pamphlet
qualunque, ma del libro di un giornalista cosciente del proprio prodotto, che
scrive - lo ripeto - per la storia.
D. Quando,
in che modo e come è stato ritrovato tale libro?
R. Il libro fu trovato per caso da Jean-Joël
Brégeon, uno studioso di storia locale che stava lavorando sull'affaire
Jean-Baptiste Carrier, il responsabile a Nantes degli eccidi perpetrati dai
repubblicani. Egli non comprese immediatamente l'importanza dell'opera,
citandomela, appunto, fortuitamente. Devo confessare che anch'io, quando mi
venne mostrata, non ne compresi subito il valore: solo dopo averla letta,
ritenni che valesse la pena di ripubblicarla, onde porre fine a quello che ho
definito un "falso problema", quantunque certamente rilevante.
D. Perché,
dopo la caduta di Maximilien Robespierre e di Louis Saint-Just, il 9 termidoro
dell'anno II - 27 luglio 1794 -, l'opera di Gracchus Babeuf, di fatto
anti-robespierrista e anti-giacobina, venne ritirata e distrutta?
R. Non furono i termidoriani a far scomparire il pamphlet.
Costoro, dopo il colpo di Stato che mise fine al Terrore giacobino, vollero
mantenere il ricordo dell'accaduto in funzione anti-robespierrista: per questa
ragione fu permesso a Gracchus Babeuf di pubblicare l'opuscolo. Ma,
successivamente, si ebbe un ritorno al potere, secondo logiche di lotte
interne, dei convenzionali "puri e duri": proprio costoro distrussero
l'opera babuviana.
D. Nel Dizionario
storico della Rivoluzione francese, pubblicato da Jean Tulard,
Jean-François Fayard e Alfred Fierro (trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze
1989), alla voce Reazione termidoriana, si legge: "Questa
denominazione è del tutto aberrante ed è stata inventata dagli storici
favorevoli al terrore. Alla caduta di Robespierre non vi fu nessuna
"reazione". Il potere restò nelle mani di regicidi, repubblicani, ex
terroristi che si limitarono a porre fine alle esecuzioni in massa del Gran
Terrore. La ghigliottina continuò a funzionare, solo con minore frequenza, le
teste dei sostenitori di Robespierre caddero, ma continuarono a cadere anche
quelle dei preti refrattari e dei fautori della monarchia. La linea politica dei
Termidoriani corrisponde al sogno di Danton: una repubblica rigorosa ma
moderatamente repressiva. La presenza della gioventù dorata, chiassosa ma priva
di potere politico, non è sufficiente per trasformare i Termidoriani in
reazionari che volevano restaurare la monarchia" (p. 841). È d'accordo
con questa definizione, che può aggiungere informazioni interessanti proprio
sul "dopo Terrore"?
R. Gli autori hanno perfettamente ragione: perché
i termidoriani hanno compiuto il loro colpo di Stato contro Maximilien
Robespierre? Per ragioni molto semplici: in un suo famoso discorso, egli fu
tanto vago in merito all'identità dei suoi oppositori che tutti iniziarono a
preoccuparsi. Anche i suoi colleghi convenzionali ebbero paura di ritrovarsi,
prima o poi, sotto la lama della ghigliottina, dato che Maximilien Robespierre,
desideroso di "rigenerare" il popolo francese, aveva deciso
d'iniziare proprio "rigenerando" la Convenzione. Codesta
"reazione" ha avuto come unico scopo quello di "salvare la
pelle" di alcuni convenzionali, che non si allontanarono affatto dal
governo: questo farà ritornare al potere elementi più radicali, e causerà la
ripresa di tutte le rigide misure di repressione.
D. Oltre
le ragioni politiche oggettive che hanno permesso a Gracchus Babeuf di pubblicare
il suo testo accusatorio, quali sono le motivazioni d'ordine soggettivo che lo
hanno spinto a scrivere? Gracchus Babeuf non era certo un
contro-rivoluzionario, eppure offre strumenti per una critica seria e radicale
alla Rivoluzione francese...
R. Egli lo spiega perfettamente: infatti, questo
autore populista fu spinto a scrivere da tre ragioni. La prima è che si
considerava un democratico, per il quale è inaccettabile il fatto che il popolo
sovrano stermini... la popolazione, o una parte di essa. In secondo luogo, per
via dei mezzi stessi che furono impiegati per il genocidio: mezzi barbari e
terroristici, che egli non potè accettare. Infine, per terzo, Gracchus Babeuf
era convinto che il cambiamento della società dovesse avvenire gradualmente e non
per mezzo della violenza.
D. Qual
è il contenuto del suo Juifs et Vendéens. D'un génocide à l'autre. La
manipulation de la mémoire?
R. Il mio Il genocidio vandeano fu un'opera
di ricostruzione degli avvenimenti, non di filosofia o di scienza politica.
Ossia, in essa ho spiegato i fatti così come si sono svolti. La sua
pubblicazione ha generato un certo numero di critiche che mi hanno posto
interrogativi nuovi, del tipo: "Come si è giunti a tale manipolazione
della memoria storica? Quali sono, poi, le conclusioni che si possono trarre
dalla risposta a questa domanda?". Da qui la necessità - in rapporto a un
fatto ben preciso come quello dello sterminio degli ebrei - di spiegare quanto
è successo in Vandea. In altre parole, sono partito dalla riflessione
sull'accaduto in Vandea per spiegare quanto è accaduto agli ebrei, soprattutto
sul tema della revisione e della manipolazione della storia.
In occasione del processo contro Jean-Baptiste Carrier,
celebrato nel periodo termidoriano dal 25 vendemmiaio al 26 frimaio dell'anno
III - dal 16 ottobre al 16 dicembre 1794 -, molti responsabili vennero
riconosciuti colpevoli e quindi giustiziati. Un anno più tardi, Louis Marie
Turreau de Garambouville si ritrovò davanti allo stesso tribunale, con le
stesse imputazioni. Ma il verdetto mutò: si stabilì che il generale era
assolutamente colpevole dei suoi crimini, ma non responsabile in quanto
esecutore di ordini. Egli venne graziato, insieme a tutti gli altri uomini
politici coinvolti. La memoria storica si conservò, dunque, fino alla caduta di
re Carlo X, durante la "rivoluzione di luglio" del 1830. Dopo di lui
salì al potere il "re repubblicano" filo-rivoluzionario Luigi Filippo
I - che regnò fino al 1848 -, figlio di Luigi Filippo Giuseppe, duca d'Orléans,
noto come Philippe Egalité, che aveva votato a favore dell'esecuzione capitale
di suo cugino, re Luigi XVI. Il regno di Luigi Filippo I fu l'inizio della
negazione e della manipolazione della memoria, anche perché i testimoni oculari
erano quasi totalmente scomparsi all'epoca. Alcuni storici vennero
appositamente pagati al fine di riscrivere la storia e creare il
"mito" della Rivoluzione: fra altri, il "grande
revisionista" Jules Michelet, autore, fra il 1847 e il 1852, di una Histoire
de la Révolution française. Jules Michelet è il maestro di tutte le scuole
storiografiche ideologiche successive.
Verso il 1850 si negò la concia delle pelli umane, ma,
dopo ricerche storiche in loco, vennero ritrovati ancora testimoni
viventi, benché molto anziani. Anche a livello popolare, quando, verso la fine
del secolo scorso, la "storiografia ufficiale" mise in dubbio gli
annegamenti collettivi praticati nel 1794, i discendenti dei vandeani reagirono
scrivendo numerose lettere di protesta ai giornali. Ho ritrovato tutte queste
testimonianze e le ho raccolte nel mio studio... Inoltre, mi sono reso conto
che anche un certo numero di storici del secolo XIX ebbe perfettamente
coscienza della manipolazione: in particolare il grande Hyppolite-Adolphe Taine
che, nell'opera monumentale Les origines de la France contemporaine,
scritta dal 1873 al 1893, denunciò in modo molto serio e scientifico la
manipolazione della storia, soprattutto relativamente alla Rivoluzione
francese.
La "cattedra della Rivoluzione francese", che
venne creata alla Sorbona, è erede di questa "revisione" della
storia. Si pensi ai lavori dello storico contemporaneo Michel Vovelle, uomo del
Partito Comunista Francese.
D. Lei
è anche autore di testi utilizzati per albi a fumetti e per video-cassette
sulle guerre dell'Occidente francese e sulla storia della Bretagna, oltreché di
un romanzo storico sul genocidio vandeano. È un tentativo per riproporre la
verità storica ai giovani e agli studenti, oltre gli stereotipi della cultura e
della programmazione scolastica ufficiali, adottando mezzi di uso popolare?
R. Quando uscì Il genocidio vandeano -
un'opera per specialisti, che avrebbe rischiato di rimanere stipata nei
magazzini della Sorbona... - vi è stata molta sorpresa da parte del pubblico.
Ricevetti un certo numero di lettere e incontrai di persona anche gente
convinta che tale ricerca sarebbe rimasta confinata ai tecnici. Mi è stato così
chiesto di trovare materiali e metodi per volgarizzare e
"democratizzare" i miei lavori. Ho riflettuto, dunque, in cerca dei
migliori mezzi di comunicazione attuali. È risaputo che il libro -
particolarmente quello scientifico - viene letto sempre meno; da qui l'idea di
creare fumetti e video-cassette sulle guerre nella Francia Occidentale e sul
genocidio vandeano, dato che il fumetto è un genere letto dai giovani e la
video-cassetta è, per sua natura, accessibile al grande pubblico. Ho realizzato
il romanzo "Les Vire-Couettes" per una sorta di diletto
personale, in quanto adoro scrivere e desideravo narrare la storia di un
sacerdote vandeano - don Pierre-Marie Robin di La Chapelle-Basse-Mer -, del
quale avevo ritrovato tutti gli scritti. Nello stesso tempo questo romanzo
poteva anche rispondere al medesimo intento di diffusione della conoscenza.
D. In
Italia, paese nel quale non esiste una tradizione seria di pubblicazioni sulla
Vandea, è stato tradotta l'opera di Jean-Clément Martin, I Bianchi e i Blu.
Realtà e mito della Vandea nella Francia rivoluzionaria (Società Editrice
Internazionale, Torino 1989), nella quale si contestano certe cifre relative al
genocidio vandeano proposte da Pierre Chaunu e da lei (cfr. pp. 272-276).
Jean-Clément Martin cita, inoltre, La guerra di Vandea e il Sistema di
spopolamento di Gracchus Babeuf, un "opuscolo dal titolo
significativo" (p. 228), del quale, peraltro, non tiene conto in
merito alla rilevanza delle gravi accuse in esso contenute...
R. Jean-Clément Martin è un docente universitario
che si considera figlio spirituale della scuola di autori come Albert Mathiez,
Albert Soboul e Michel Vovelle, ossia di quanti hanno un approccio
esclusivamente ideologico rispetto alla Rivoluzione francese: scrivendo in
quest'ottica, gli è impossibile riconoscere la realtà dei fatti accaduti in
Vandea, perché, se lo facesse, tutti i lavori degli storici citati verrebbero
annullati insieme ai suoi. E - non dimentichiamolo -, in quanto membro di quel
mondo universitario che ho descritto, Jean-Clément Martin agisce per ragioni di
propaganda.
D. Il
mondo della cultura ufficiale francese, trascorsi ormai alcuni anni dalla
pubblicazione delle sue ricerche, ha ora accettato il fatto che, duecento anni
fa, per la Vandea si pensò, si votò, si organizzò e si attuò un vero genocidio?
R. Al momento attuale la quasi totalità del mondo
culturale, universitario e politico, ha accettato l'impiego del termine
"genocidio". Effettivamente restano, comunque, alcune resistenze da
parte di quanti si sono resi complici nel truccare la storia: costoro non
possono e non vogliono riconoscere i fatti, perché ciò significherebbe ammettere
di aver mentito. Per gli eredi della "scuola storiografica
ufficiale", ossia la scuola marxista, si tratterebbe di rimettere in
discussione tutti i propri scritti...
D. Dopo la fine del "mito" della
Rivoluzione bolscevica russa del 1917, si è assistito a una sostanziale ripresa
- soprattutto a partire dal bicentenario nel 1989 - del "mito" del
1789 francese, sebbene ci si premuri di separarlo subito dal biennio
terroristico 1792-1793. Se quest'ultimo viene assimilato allo stalinismo più
"oscurantista", il 1789 e i suoi immortali "princìpi"
vengono descritti come la vera anima "luminosa" della Rivoluzione.
Cosa pensa di questo atteggiamento ideologico-culturale?
R. È molto difficile dare una risposta. Infatti, è
indiscutibile, e nessuno storico lo può negare, che la società francese
immediatamente precedente il 1789 è una "società bloccata". Se si
analizzano gli avvenimenti storici, ci si persuade che un uomo come re Luigi
XVI di Borbone, quando salì al trono nel 1774, ebbe perfettamente coscienza
della situazione sociale chiusa nella quale si trovava. Così propose un certo
numero di riforme che vennero rifiutate da un contro-potere reale, in
particolare dalla Nobiltà. Le prime misure adottate, nel 1789, dai
rivoluzionari sono del resto le stesse misure correttive proposte da re Luigi
XVI. Allora la Rivoluzione francese del 1789 non appare subito
"rivoluzionaria" nel senso che le si è voluto dare dopo: ossia, essa
non fu immediatamente una rottura ideologica con il passato, ma corrispose a un
certo numero di bisogni sociali e di necessità reali già avvertite dal re. La
rottura con il mondo precedente giunse quando gli ideologi riuscirono a
imprimere le proprie idee nel cuore della Rivoluzione. Esistevano più correnti:
nel momento in cui prevalse quella ideologica, la Rivoluzione francese
s'incamminò in questa direzione e non più in quella esclusivamente
amministrativa e politica.
D. Si
può dire che, come sempre, anche nel 1789 francese la Rivoluzione si è servita,
per ottenere i suoi scopi, di bisogni reali e di contraddizioni esistenti nella
realtà sociale dell'epoca e che, invece di porvi rimedio, essa ha utilizzato e
strumentalizzato in modo sovversivo e ideologico tutto questo?
R. Assolutamente sì: in Francia vi erano problemi
evidenti a causa delle strutture sociali che risalivano alla fine del Medioevo.
Il mondo era cambiato e la politica sociale non corrispondeva più alla realtà
dei fatti: si sentiva il bisogno di uno sviluppo, uno sviluppo che è comunque
puramente formale. Il problema fu che i "Lumi" proposero un approccio
del tutto nuovo nei confronti dell'uomo e della società. Gli ideologi
approfittarono dei problemi spirituali e dei problemi sociali concreti per
andare molto più lontano della loro semplice soluzione. L'esempio della Vandea
è chiarissimo: la gente fu inizialmente favorevole alla ristrutturazione, dato
che le riforme erano necessarie. Ma il giorno in cui il dibattito da politico
si trasformò in ideologico, avvenne la frattura insanabile. Il simbolo di
questa frattura fu l'esecuzione del re di Francia, il 21 gennaio 1793: non si
trattò solo dell'esecuzione di Luigi XVI o dell'esecuzione di un re, ma della
figura del monarca in quanto tale, di tutta una simbologia, di tutta una
concezione della società. Tale esecuzione segnò la rottura filosofica,
culturale e sociale che divise per sempre il "mondo di prima" dal
"mondo di poi". I convenzionali avevano coscienza di tutto questo:
quando si leggono le deliberazioni del processo istruito contro re Luigi XVI,
si trova il tale convenzionale che bene spiega la forte necessità di
giustiziare il re, perché con lui si sarebbe giustiziata una concezione della
società. Nacque quell'espressione terribile: "Il suo sangue servirà a
far fruttificare l'albero nuovo".
D. Tale
visione ricorda da vicino quella del pensatore irlandese Edmund Burke, da lei
spesso seguito nell'analisi dei significati della Rivoluzione...
R. Edmund Burke scrisse il suo famoso Reflections
on the French Revolution nel 1790, ossia ben prima degli avvenimenti del
periodo del Terrore. Egli distinse molto bene la necessità dell'evoluzione
della società francese dai pericoli e dagli eccessi che si sarebbero potuti
generare, dato il subbuglio e la confusione del momento. Infatti, gli eccessi
erano del tutto possibili, considerando la trama delle riflessioni condotte
durante il "secolo dei Lumi". La storia gli ha dato ragione, dal
momento che egli aveva perfettamente previsto che la Rivoluzione francese
sarebbe sfociata in quello che fu il Terrore, i bagni di sangue, e così via, e
tutto ciò per mezzo di un generale - come egli bene illustrò - che avrebbe
imposto una tirannide. Ciò significa che tutto era prevedibile per un filosofo
o uno specialista...
D. Nelle sue conferenze lei definisce il
concetto nuovo di diritto e di legge sorto con la Rivoluzione francese nei
termini di una "rivoluzione nel cuore della rivoluzione"...
R. Per spiegare quest'affermazione mi servo di un
esempio. Durante l'Ancien Régime, la Francia era suddivisa in province,
ognuna delle quali relativamente autonoma, con statuti giuridici diversi,
animate da costumi dissimili; anche la lingua non era per tutti il francese, ma
ne esistevano di locali. Con la Rivoluzione francese si decise di creare uno
Stato unitario e indivisibile, fondato sulla creazione di una nuova Legge pensata,
definita e approvata da una minoranza della popolazione, i parlamentari
dell'Assemblea Nazionale. Ora, questa Legge - anch'essa unitaria e indivisibile
- fu un fatto completamente nuovo: la negazione stessa della democrazia
fondamentale. L'esempio specifico della lingua mostra che chi non parlava il
francese imposto dal governo - nella Francia Occidentale, al tempo, questa
lingua era parlata da un'esigua minoranza -, diveniva immediatamente
"fuori-legge": la negazione della propria lingua impedì presto la
trasmissione di un patrimonio culturale quasi fissato "geneticamente"
in chi viveva nelle comunità reali, presto emarginate. In Italia, per esempio,
si produsse lo stesso fenomeno, a livello giuridico e linguistico, con il
Risorgimento. Eppure nessuno storico evidenzia questi fatti, perfettamente
chiari.
D. La
legge del 4 agosto 1789, che mise fine ai "privilegi" in Francia,
viene normalmente salutata come la liberazione dai "vincoli feudali"
e dalla "schiavitù" delle disparità. Tale legge rappresentò forse uno
dei passi più decisivi e importanti nel corso del processo rivoluzionario, in
vista della costruzione di un diritto, di una società e di uno Stato nuovi.
Eppure, nel mondo precedente la Rivoluzione, "privilegio" ebbe anche
altri significati giuridici ben più rilevanti e positivi...
R. "Privilegio" deriva il suo senso
originario dall'espressione privata lege, ossia "secondo il diritto
privato". Vi erano corporazioni, Comuni e province dotati di statuti
propri, "privati". La legge del 4 agosto venne votata durante una
"nottata dal significato globale": si soppresse universalmente tutto
il mondo giuridico particolare, una soppressione funzionale e necessaria alla
creazione del nuovo concetto di Legge. Allo stesso modo si soppressero, poi, le
leggi che animavano le corporazioni e i diversi ordini professionali e sociali.
Gli statuti particolari vennero omologati: tutto questo creò grandi problemi
nella Francia intera, per esempio in Bretagna, dove si pagavano le imposte in
ragione di due volte meno della media nazionale. Tutto questo ordine
plurisecolare scomparve in pochi minuti: si può ben immaginare la delusione e
la rabbia.
D. In
occasione delle celebrazioni per il bicentenario nel 1989, non vi furono
commemorazioni dei fatti di Vandea...
R. Nel 1989, in quanto studioso e insegnante,
domandai, con una lettera, a Jack Lang, allora ministro della cultura,
incaricato dell'organizzazione e della supervisione delle celebrazioni del
bicentenario, una ridiscussione del tema della Vandea, anche mediante la
promozione di simposi scientifici sul tema. Mi si rispose negativamente. Nulla
verrà fatto, anche in occasione delle ricorrenze bicentenarie del 1793 e del
1794, a livello ufficiale: avremo commemorazioni locali private, non segnate
ideologicamente, né tantomeno politicamente, prive di sentimenti di rivalsa. Si
tratterà solamente di ricordare in modo anche sereno l'accaduto.
Concretamente, erigeremo monumenti alla memoria, moltiplicando gli scritti sul
tema. Fuori dei confini regionali, tutto ciò avrà grande rilevanza, perché la
coscienza di quanto si abbattè sulla Vandea potrà insegnare - anche per quanto
riguarda altri episodi storici - a evitare le insidie e i pericoli della
revisione artificiale e della manipolazione della memoria - che chiamo "memoricidio"
-, sperando che tale riflessione eviti la manomissione di fatti più recenti e
sperando pure che essa impedisca all'uomo di commettere i medesimi errori.
D. I
vandeani di oggi hanno coscienza dei fatti accaduti duecento anni fa e del loro
retaggio storico, culturale e religioso?
R. Anche di ciò tratto in qualche modo nel mio Juifs
et Vendéens. D'un génocide à l'autre. La manipulation de la mémoire. Il
comportamento della Vandea Militare è un comportamento culturale, educativo,
sociale, economico e religioso, oltreché relativo a quanto riguarda
propriamente il clero, molto differente dal comportamento del resto della
popolazione francese. Si tratta di una regione rimasta legata alla tradizione,
dove il senso e la realtà della famiglia sono importanti, dove i sacerdoti
hanno una loro funzione specifica e rilevante, dove la fede è relativamente
forte e dove si hanno le più importanti concentrazioni di imprese private del
territorio nazionale. Dunque, una regione con un suo comportamento specifico.
Circa quest'ultimo dato, non si può istituire un rapporto di causa-effetto
forzato fra lo sterminio e l'indipendenza economica della regione, ma si può
certamente constatare un dato reale: i vandeani hanno dovuto imparare a
"sbrigarsela da soli" per quanto riguarda l'economia, dato che erano
stati completamente annientati anche sotto questo aspetto. Dunque, essi si sono
battuti, dotandosi dei mezzi appropriati per tale combattimento a partire dalla
famiglia e dalla religione, per quanto riguarda le motivazioni e le
giustificazioni d'ordine filosofico, intellettuale e morale. Per quanto
riguarda la coscienza dei fatti di due secoli fa, essa è stata certamente
tramandata nelle famiglie di generazione in generazione, senza che peraltro i
vandeani avessero la lucida consapevolezza dell'entità e della portata dello
sterminio, non essendo noti tutti i documenti e le fonti originali del piano
genocida. Ora che tale consapevolezza è stata indotta, certamente i vandeani -
da una decina d'anni circa - hanno una coscienza più netta dell'accaduto:
spettacoli come la colossale ricostruzione della guerra civile nella Vandea,
che si tiene nei mesi estivi al castello di Puy-du-Fou, a Les Espesses, lo
testimoniano. Poi, la venuta dello scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn
ha segnato un grande passo in avanti per quanto riguarda la presa di coscienza
del significato globale del genocidio, tanto in Vandea, quanto nell'intera
Francia.
D. Dopo
questo bicentenario vandeano, come vede il futuro della memoria storica?
R. Il ricordo che celebriamo oggi permetterà alla
memoria di venire trasmessa oltre la presente generazione. A livello concreto
mi è stato chiesto di presiedere un'associazione privata - Mémoire du Futur de
l'Europe -, che sta raccogliendo fondi per ricostruire una piccola cappella di
campagna in stile gotico fiammeggiante, del secolo XV, nel villaggio di La
Chapelle-Basse-Mer, intitolata a Saint-Pierre-aux-Liens, oggi in rovina. Essa,
una volta restaurata, diverrà un mausoleo a ricordo delle distruzioni
rivoluzionarie e delle circa duemila vittime - quelle conosciute - del cantone
di Loroux Bottreau, sterminate dai rivoluzionari, simbolo di tutti i caduti
della Vandea Militare e della Bretagna. Vorremmo anche riportarne i nomi e
procedere, possibilmente nei pressi della cappella, all'allestimento di un
museo. All'interno verrà eretta una statua di donna vandeana inginocchiata, un
sacro cuore cucito sulla veste, un rosario alla cintura, il fucile e la spada
adagiati a terra. Essa ha un bimbo nelle braccia e lo solleva in alto: donne e
bambini erano, infatti, le vittime preferite dalla repressione. Tale scena
vuole significare la trasmissione della memoria e ricordare Maria Santissima e
il Bambino Gesù. La frase che abbiamo posto sul modulo per la richiesta di
fondi è: "Senza voi e senza la Provvidenza nulla è possibile!".
D. Nelle
sue pubblicazioni e nei suoi interventi pubblici, lei sostiene che per porre
termine al "memoricidio" occorre combattere una battaglia
culturale...
R. A partire dall'esperienza della Vandea si scopre
un concetto nuovo: oltre la tragicità dei fatti, per ragioni diverse, ma
sostanzialmente politiche e ideologiche, si può essere portati a relativizzare,
a truccare, a negare, oppure, per lo meno, a non parlare più di un avvenimento
di primaria importanza. Tutto mostra una certa fragilità: perciò bisogna
dotarsi delle armi adeguate per fare in modo che i fatti vengano trasmessi in
tutta la loro originalità e integralità. Non, ovviamente, per un amore ai fatti
fine a sé stesso, ma per far tesoro dell'esperienza passata come spunto di
riflessione. La cultura, come supporto globale dell'universo umano, dovrà
lavorare in tal senso. La battaglia culturale è la battaglia fondamentale, la
battaglia di oggi e di domani.
a cura di
Marco Respinti