domenica 21 ottobre 2012

IL NAVY SEAL OWEN “COSÌ HO SPARATO A OSAMA BIN LADEN”


Mark Owen e Osama  Bin Laden

Il raid di Abbottabbad per “catturare o eliminare” “Si muoveva, l’ho colpito, non sapevo chi fosse”.
Alcuni brani dell'intervista per la Cbs di Scott Pelley al soldato "Mark Owen", che ha raccontato in un libro il raid di Abbottabbad

Mark Owen ha lasciato da poco l'unità d'élite anti-terrorismo, il Team 6 dei Navy Seals. Non è il suo vero nome, così ha firmato il libro sull'assalto al covo di Bin Laden intitolato «No Easy Day». Era sull'elicottero precipitato sul compound, è stato il secondo a entrare nella camera da letto di Bin Laden e a fare le foto mai viste del suo corpo. È stato ferito e decorato. Ma dice che il libro non è su di lui, è per i centinaia di americani che hanno inseguito per 10 anni l'uomo più ricercato del mondo.

La missione era di uccidere Osama o catturarlo?
«Non era assolutamente una missione di sola eliminazione. Durante l'addestramento ci dissero molto chiaramente: "Catturatelo vivo se sarà fattibile". Non eravamo stati mandati a uccidere. Era un "uccidere o catturare"».

Lei nasconde la sua faccia.
«L'attenzione non deve essere su di me, ma sul mio libro. Non cerco di essere speciale, un eroe, voglio solo raccontare la storia».

Ma si nasconde anche per la sua sicurezza?
«Certamente».

Cosa teme?
«Sa, il nemico ha la memoria lunga».

Nell'aprile 2011 vi avevano convocati nel North Carolina. Cosa hanno detto?
«"Ehi, abbiamo trovato Bin Laden" o "Pensiamo di averlo trovato", e volevano che noi tirassimo fuori un piano».

Cosa aveva pensato?
«Fantastico».

Vi avevano descritto il compound?
«Ci informarono su un individuo chiamato il Camminatore. Usciva dall'edificio a passeggiare in cortile. Si presumeva che così si tenesse in forma. Qualche volta era accompagnato, forse da una donna. Non si fermavano mai ad aiutare qualcuno che lavorava. Sembrava al di sopra di tutto».

Chiunque fosse era il capo?
«Giusto».

Cosa sapevate dell'interno della casa?
«Zero. Zero».

Non sapevate cosa avreste trovato oltre la porta?
«Esatto. Ma l'avevamo fatto un milione di volte. E ci siamo esercitati su una versione in scala uno a uno dell'edificio, almeno 100 volte».

Il Presidente non era ancora convinto. Nessuno aveva conferme che il Camminatore fosse Bin Laden. Quando avete avuto l'ordine?
«L'ufficiale comandante entrò e disse: ho appena chiuso il telefono, missione approvata".

Cosa ha pensato?
«Grande. Figo. Sono felice di farne parte».

Siete decollati e poi?
«Pensavo "Wow, sta accadendo davvero". Metà dei ragazzi stavano dormendo».

Dormendo mentre volavano a prendere Bin Laden?
«Sì, è il momento di rilassarsi. E ripassare mentalmente quello che dovete affrontare».

E poi?
«Abbiamo aperto la porta dell'elicottero e buttato giù le gambe, per scendere più rapidamente. E poi all'improvviso ci siamo incrinati».

Con un elicottero e metà dei Seals a terra il secondo Black Hawk ha rinunciato all'attacco siete costretti a improvvisare?

«I nostri piloti erano i migliori del mondo. Siamo caduti, ma con una precisione millimetrica. Siamo arrivati alla porta. Ovviamente, a quel punto avevamo fatto rumore, l'effetto sorpresa non c'era più. Le porte erano di metallo solido, con il martello non si aprivano. E mentre attaccavo l'esplosivo da dentro hanno cominciato a sparare. Abbiamo risposto, alla cieca. E poi il silenzio. Il Seal che era con me parlava arabo, ha chiamato, e abbiamo sentito il metallo aprirsi. Sarebbero usciti con una cintura esplosiva? Una bomba? I kalashnikov? La porta si apre e dietro c'è una donna con in braccio un bambino, altri due dietro».

Tiene il dito sul grilletto e guarda la donna con i bambini?
«Sì, una frazione di secondo. Eravamo stati appena attaccati. Il mio compagno chiede: "Dov'è tuo marito?". E lei: "E' morto. L'avete ucciso"».
Poi cosa è successo?
«Siamo andati alle scale. Era buio, usavamo i visori notturni. Davanti a me c'era il point man, che guida la formazione, ha visto una testa sparire dietro l'angolo. Pensavamo che al secondo piano ci fosse Khalid, figlio di Osama. Ha cominciato a chiamare "Khalid, Khalid" e gli ha sparato appena ha tirato fuori la testa. Cosa pensava Khalid in quel momento? Guarda dietro l'angolo. La curiosità ha ammazzato il gatto. E Khalid».

Come funziona? Salite le scale urlando?
«Non è come nei film. È... è come lo facciamo. Siamo molto bravi. È tutto tranquillo. Noi diciamo che non bisogna correre verso la morte. E così, belli lenti, saliamo le scale. Vediamo un'altra testa spuntare fuori da una stanza, il point man gli spara».

E cosa fa allora?
«Nella stanza vedo un corpo per terra. Sopra di lui due donne, vicino alla porta. Alzano gli occhi e vedono il point man. Lui entra, le afferra e le spinge lontano. Se avessero avuto una cintura esplosiva gli altri sarebbero rimasti illesi».

Ma lui sarebbe morto?
«Sì».

Ha visto un uomo per terra. Cosa ha fatto?
«Io e il mio compagno dietro di me l'abbiamo affrontato più volte e poi abbiamo proseguito a ripulire la stanza».

Cosa intende per «affrontare»?
«Sparare».

Si muoveva ancora?
«Poco. Ma non potevamo vedere le sue mani. Poteva avere qualcosa».

Dopo che Osama è stato ferito si muove ancora. Gli ha sparato due volte?
«Più volte».

E anche il suo compagno. A quel punto era fermo?
«Sì».

L'aveva riconosciuto?
«No. Poteva essere chiunque. Un altro fratello. Una guardia. In quel momento pensi solo a continuare a ripulire».

Vi siete chiesti se era lui?
«Mi sembrava più giovane. La barba non aveva grigio, era nera. Però era molto alto. Mi sembrava anche di riconoscere il naso. Potevo essere certo, ma non volevo affermarlo io, non in quel momento».

Perché sospettavate che il Presidente vi ascoltasse dalla Casa Bianca. Cosa che poi si rivelò vera. Volevate prove.
«Abbiamo chiesto a uno di noi che parlava arabo, è andato dalle donne con i bambini, ha preso uno dei più piccoli, ha chiesto: "Chi è quello?". E lui ha risposto: "Osama". Osama chi? "Osama bin Laden"».

Il bambino?
«Sì. Allora l'ha chiesto a una delle donne. E lei ha detto "Osama bin Laden"».

Avete applaudito? Vi siete dati pacche sulle spalle?
«No, nulla. È lavoro. Abbiamo chiamato l'ufficiale. È salito, ha guardato il corpo. Gli abbiamo detto tutto. Lui ha detto, ok, penso sia lui. Ha usato la parola in codice, Geronimo, per il messaggio: "Per Dio e per il Paese, Geronimo EKIA", acronimo per "nemico ucciso in azione"».

Erano passati 20 minuti, ne restavano 10.
«Volevamo raccogliere il Dna, fare foto. Ovviamente dovevamo portare il corpo con noi. Ma se fossimo stati abbattuti le prove dovevano essere su un altro elicottero. Un Seal ha preso campioni di sangue e saliva, io le foto. Probabilmente gli scatti più importanti della mia vita. Abbiamo spruzzato acqua sulla sua faccia, l'abbiamo pulito con un lenzuolo».

Com'erano le foto?
«Truci. Aveva una ferita in testa. Poi l'abbiamo messo in una busta e chiuso».

Aveva un fucile e una pistola, ma non li ha usati. Perché?
«Insegnava alla gente a sacrificarsi e pianificò l'11 settembre. Ma non voleva nemmeno combattere con un fucile in mano. Il fatto parla da solo».

Il Presidente vi ha chiesto chi di voi aveva sparato a Osama?
«Sì. E gli abbiamo risposto che non glielo avremmo detto».

Perché?
«Perché schiacciare il grilletto è semplice. L'ho fatto un milione di volte. Non c'entra chi fosse quel militare. Riguarda la squadra, i piloti, quelli dell'intelligence che hanno scoperto tutto. A chi importa chi è stato quello che ha sparato? A nessuno».


Fonte: srs di Scott Pelley, da la Stampa del 11 ottobre 2012

Fonte: Il libro "No easy day" è stato scritto con lo pseudonimo di Mark Owen da Matt Bissonnette, fino a pochi mesi fa nei Navy Seals.

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