Vittorio Avesani
Vittorio Avesani e l'eccidio dei partigiani a Giazza
durante la Seconda Guerra Mondiale. Una storia che forse molti conoscono, ma
che grazie alle testimonianze e ai documenti raccolti da Pantheon, torna ancora
protagonista di un dramma senza tempo.
Indagini rimaste incompiute, domande, dubbi. «Chi ha ucciso
chi?». Forse bisogna anzitutto domandarsi perché. Perché la guerra? Perché questo bisogno di atrocità? Al di là del mistero che cela spesso gli
avvenimenti passati, c'è una realtà: la morte di tre giovani, spinti da un
sentimento coscienzioso di ribellione verso chi la Patria l'aveva rovinata.
Era il 22 giugno 1944 e Vittorio
Avesani, tenente degli Alpini, fu una delle giovani vittime. Si trovava a
Giazza. Insieme a lui Gino Consolaro
e Pietro Bauce. «Quella mattina le
mie zie sentirono partire una camionetta dall'accampamento delle SS», ci
racconta Maria Pia, nipote di
Vittorio. Dopo l'8 settembre del 1943, infatti, i tedeschi avevano occupato una
casa di fronte a quella della famiglia Avesani, nei pressi del Saval a Verona.
«Dopo qualche ora videro ritornare le camionette, piene di viveri,
galline, oggetti». Continua Maria Pia: «Eleonora, una delle sorelle di
Vittorio, si era sentita male». Un presagio? Vittorio da quasi un anno era
diventato partigiano, aderendo a un gruppo con sede a Campobrun, in Lessinia. In tutti quei mesi, solo una volta era
ritornato a casa, per salutare la nuova arrivata in famiglia, Maria Pia. Fu
solo una brevissima sosta. Poi di nuovo la fuga sulle montagne. E il silenzio.
L'ultima notizia di Vittorio fu quella della sua uccisione da parte dei
tedeschi.
La signora Rosa della contrada di Buskangrüabe
a Giazza era presente, quella mattina. Aveva incontrato i quattro partigiani e
dopo qualche minuto aveva sentito alcuni spari provenire dalla sua contrada.
«Tutto era in fiamme. E i familiari, spaventati a morte, piangevano».
La tomba di Vittorio Avesani
Vittorio, classe 1919, fu uno di quei giovani che per un
intero ventennio assorbì il pensiero fascista, in cui era nato e cresciuto.
Unico tra i suoi otto fratelli a iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza a
Padova, proprio qui il rettore dell'Università, Concetto Marchesi, rivolse un appello agli studenti: «Non lasciate
che l'oppressore disponga ancora della vostra vita [ ... ] liberate l'Italia
dalla servitù e dall'ignominia».
Probabilmente in questo ambiente Vittorio si rese sempre più
consapevole dell'assurdità in cui stava vivendo. E con la guerra il distacco
morale sarebbe stato definitivo. Poi arrivò il giorno in cui la speranza di una
liberazione si fece finalmente reale. Ma in Italia le reazioni all'8 settembre
furono disparate. Ci fu chi assistette umiliato e deluso. Chi si rifugiò
nell'indifferenza. Chi sperò nella vittoria degli avversari: «preferivano
essere liberi nella sconfitta che schiavi nella vittoria». Milioni cominciarono
a sostenere la Resistenza, nelle città e nelle campagne di tutta Italia e anche
nelle montagne. Qui il potere giungeva solo per riscuotere le tasse, i
contadini si riconobbero nei ribelli. Per la difesa dell'omertà. Anche se
spesso dovevano fare buon viso a tutti, tedeschi, fascisti, partigiani che fossero,
per il naturale spirito di sopravvivenza.
Ma in questa sanguinosa guerra civile, che non guardò in
faccia a nessuno, si può parlare effettivamente di ribellione? Verso cosa?
Verso chi aveva imboccato la strada delia distruzione della Patria? Forse
Vittorio, come molti altri, cercò di agire obbedendo alla propria coscienza, e
non a un'ideologia perversa. «Chi difese più la Patria e l'onore della Patria:
quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra patria a
tutto il mondo civile? Quali tra i due contendenti erano i ribelli e quali i
regolari?». L'ultima guerra, si chiede ancora Don Milani, è stata un confronto
di Patrie o, piuttosto, di ideologie?
L'idea di patria, essendo un concetto astratto, è adattabile
a diverse correnti e partiti. Così dopo l'8 settembre si videro confrontarsi
due schieramenti italiani. Entrambi lottavano per la patria. «Entrambi
sventolavano la stessa simbologia di Mazzini, Garibaldi, Mameli, dei fratelli
Bandiera», sottolinea lo storico Emilio Gentile. E all'interno dello stesso movimento della
Resistenza le correnti erano diverse. Dopo il '45, infatti, quel «patriottismo
resistenziale», quella sorta di «secondo Risorgimento», mosso da un mito
comune, la liberazione dal fascismo, non sarebbe durato a lungo. Le correnti
politiche si imposero con prepotenza. Cominciava l'era della partitocrazia. E
con essa la lacerazione della memoria della Resistenza.
La percezione dei fatti spesso prevale su come sono
realmente accaduti. La memoria è un insieme di processi che la mente usa per
registrare le esperienze, attraverso la creazione di rappresentazioni. Quando
queste prevale influenzando pesantemente il rapporto tra memoria e storia, si
diffonde la versione della storia che corrisponde al pregiudizio e non quella
che corrisponde agli eventi. Così hanno prevalso «le forme del passato che
scindono fascisti ed italiani, che negano il consenso al fascismo e trasformano
l'antifascismo in riscatto».
Molte storie sono state così inquinate. Altre sono cadute
nell’oblio. Quella di Vittorio Avesani è una di queste. L’indagine dell'eccidio
fu archiviata negli anni Sessanta. Qualcuno a Verona aveva sicuramente
informato i tedeschi del nascondiglio dei partigiani a Giazza. Solo una breve
inchiesta fu riaperta alcuni anni fa, stimolata dalla curiosità di Giuseppe
Anti. Ma i misteriosi colpevoli sono
rimasti senza giudizio. Solo Eleonora,
la sorella di Vittorio, sembra conoscesse la verità. Ma non la svelò mai, rassicurandoci solo con
queste parole: «chi aveva fatto la spia, prima di morire, ha patito tanto».
Fonte: srs di Giovanna Tondini, da Pantheon di giugno 2012 n.5